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La letteratura sull’attentato a Hitler del 20 luglio 1944 ha avuto in questi ultimi decenni uno sviluppo considerevole. Alcune opere recentemente pubblicate su questo argomento sono di grande valore e generalmente ben documentate[1]. Non tutto però è stato detto su quegli avvenimenti: appare ancora lacunosa, per esempio, la questione dei rapporti tra resistenza al nazismo e Chiesa cattolica, considerata non soltanto nel suo aspetto istituzionale, ma anche come comunità di credenti. Senza pretendere di esaurire questo difficile argomento, cercheremo di vedere come l’attentato del 20 luglio fu vissuto e poi «subìto» all’interno del mondo cattolico tedesco, facendo riferimento anche a materiale inedito.
L’attentato a Hitler del 20 luglio 1944
Come è ormai noto, l’attentato a Hitler del 20 luglio 1944 fu preparato e deciso da alcuni alti ufficiali dell’Oberkommando der Wehrmacht (OKW), e la sua esecuzione, come pure la sua direzione, fu affidata a Claus von Stauffenberg. Egli infatti dall’inizio di luglio era stato nominato colonnello con funzioni di capo di stato maggiore del comando delle truppe territoriali, il cosiddetto «esercito della riserva». L’incarico gli dava la possibilità di essere invitato al quartier generale del Führer, nella «tana del lupo» a Rastenburg, quando si discutevano le manovre militari, e dove poteva incontrare personalmente Hitler. Fino ad allora i congiurati si erano dovuti accontentare, in mancanza di meglio, di ripieghi, cercando di sfruttare circostanze occasionali difficilmente controllabili. Dall’inizio di luglio von Stauffenberg, insieme ad altri ufficiali, aveva iniziato a preparare l’attentato. In questo tempo diverse volte egli si era presentato al cospetto di Hitler con bombe a mano nascoste nel cappotto, ma non ebbe l’opportunità o il coraggio di farle esplodere. L’ultima volta i congiurati si trovarono insieme per perfezionare il piano, il 17 luglio, nella casa del fratello di von Stauffenberg a Wannsee, dove il colonnello era alloggiato; all’incontro parteciparono anche alcuni esponenti del «circolo di Kreisau». Tutti erano convinti che ormai l’attentato non sarebbe più servito a conseguire scopi politici rilevanti (come negli anni 1938-39); ma, insieme alla possibilità di contenere i sacrifici di vite umane, rimaneva la speranza di poter forse risparmiare alla Germania, dimostratasi capace di sbarazzarsi del tiranno, le umiliazioni più pesanti che i vincitori dopo la vittoria le avrebbero certamente inferto. «La prossima volta agirò — disse von Stauffenberg a Beck — e poi succeda pure quello che deve succedere»[2].
L’occasione propizia per agire si presentò ben presto: il colonnello fu convocato dal Führer nella «tana del lupo», insieme ad altri ufficiali, la mattina del 20 luglio. Von Stauffenberg arrivò intorno alle 10 di mattina all’aeroporto di Rastenburg, accompagnato da W. von Haeften e H. Stieff; insieme si diressero al quartier generale del Führer portando con sé una borsa nella quale erano state depositate due cariche di esplosivo. L’incontro era fissato per le 13, ma all’ultimo momento fu anticipato di mezz’ora per l’arrivo improvviso di Mussolini alla «tana del lupo». Von Stauffenberg, una volta arrivato nel bunker, prese la valigia con gli esplosivi ed entrò in uno spogliatoio, dove collegò i due detonatori a una delle cariche esplosive, senza però attivare anche l’altra, che invece tolse dalla borsa. Alcuni contrattempi sopravvenuti costrinsero il colonnello a fare presto. In ogni caso all’ora stabilita von Stauffenberg entrò nella baracca dove si teneva l’incontro e consegnò la borsa a Freyend, dicendogli di collocarla vicino al Führer. Freyend la poggiò ai piedi del tavolo a pochi metri di distanza da Hitler. Dopo pochi minuti von Stauffenberg lasciò la sala dando l’impressione di aver dimenticato qualcosa. Alle 12,40 ci fu l’esplosione da cui Hitler però uscì leggermente ferito, mentre alcuni presenti morirono in seguito alle ferite subite. Nel frattempo von Stauffenberg e il suo aiutante Haeften erano saliti in automobile diretti all’aeroporto. Il piano era di raggiungere Berlino in aereo e dalla Bendlerstrasse, sede dell’OKW, dirigere il colpo di Stato. Si era dato così avvio all’operazione «Valchiria». I due ufficiali pensavano che Hitler fosse stato colpito mortalmente: infatti, mentre lasciavano «la tana del lupo» avendo visto, su una barella, un ferito coperto con l’impermeabile del Führer, ne dedussero che egli fosse morto.
Dopo qualche ora arrivarono a Berlino, dove intanto nella Bendlerstrasse si erano riuniti i capi della rivolta. Il generale F. Fromm, che non voleva essere compromesso in quella «brutta faccenda», fu tenuto prigioniero. All’inizio sembrava che il colpo di Stato fosse riuscito e che tutto procedesse secondo i piani concordati, ma con il passare delle ore ci si rese conto che molte cose non avevano funzionato. Anzitutto Hitler era uscito soltanto leggermente ferito dall’attentato e la sera stessa aveva potuto parlare alla radio; i reparti dell’esercito fedeli ai congiurati si erano mossi in ritardo e senza avvedutezza nel circondare i Ministeri e la radio di Stato, tanto che non staccarono neppure le linee telefoniche. Nella tarda serata appariva ormai chiaro che il colpo di Stato era fallito. Quella notte stessa alcuni reparti dell’esercito al comando del generale Fromm circondarono la Bendlerstrasse, la occuparono e arrestarono gli ufficiali congiurati, molti dei quali neppure portavano armi. Per i capi della rivolta fu invece immediatamente emessa sentenza di morte, prontamente eseguita nel cortile interno del palazzo. Furono fucilati come traditori il colonnello C. von Stauffenberg, capo della rivolta, il generale F. Olbricht, il colonnello A. Merz von Quirnheim e il tenente W. von Haeften; mentre il generale L. Beck, che si era sparato alla testa ferendosi, fu finito all’interno del palazzo.
La sera del 20 luglio Hitler stesso si rivolse con un discorso radiofonico al popolo tedesco. «Una sparuta cricca di ufficiali ambiziosi e irresponsabili — egli disse — ma anche stupidi e criminali ha organizzato un complotto per eliminare me e per cancellare insieme con me l’intero stato maggiore della Wehrmacht».Il Volksgerichtshof (tribunale del popolo) fu incaricato dei processi contro i congiurati, che si pensava fossero tutti militari. Le prime udienze iniziarono il 7 agosto e le prime sentenze pronunciate furono immediatamente eseguite il giorno successivo.
Le indagini sull’attentato all’inizio si mossero un poco alla cieca, ma nelle settimane seguenti furono condotte in modo più mirato e selettivo. Così il numero degli arrestati salì a circa 600. Una seconda ondata di arresti e di fermi, ordinati a «scopo preventivo», fu avviata verso la metà di agosto. Essa coinvolse circa 5.000 presunti avversari del regime, in gran parte provenienti dalle file dei vecchi partiti e delle associazioni sindacali, sia socialiste sia cattoliche, del tempo della Repubblica di Weimar. A metà settembre si pensava che tutti i maggiori responsabili della congiura fossero stati arrestati e giustiziati, quando verso la fine del mese furono scoperti, quasi per caso, documenti segreti contenenti i progetti di un colpo di Stato che, sulla fine degli anni Trenta, L. Beck, H. Oster e F. Halder avevano organizzato per rovesciare Hitler. In più, essi contenevano, oltre che i piani di azione, anche nomi, indirizzi, liste di persone disposte a collaborare al colpo di Stato. Gli inquirenti furono presi alla sprovvista dal fatto che l’ipotesi su cui si era basato tutto il loro lavoro investigativo era sbagliata, perché la congiura del 20 luglio non era soltanto l’opera di alcuni ufficiali «ambiziosi e irresponsabili», ma aveva numerose ramificazioni all’interno sia dell’esercito sia della società civile.
Dopo questa scoperta, l’ordine dato da Hitler fu di continuare l’«epurazione» e di estenderla a tutti i settori direttamente o indirettamente implicati nella congiura: così furono arrestati, e successivamente impiccati, non soltanto coloro che avevano fatto parte della «congiura», ma anche i maggiori oppositori del regime, che si scoprì, con meraviglia dei gerarchi, essere più numerosi di quanto si sospettava. Migliaia di persone furono arrestate e diverse centinaia impiccate, e fra questi quasi tutti i membri del «circolo di Kreisau». Il suo maggior esponente, il conte H. von Moltke, prima di morire scrisse in una delle sue ultime lettere: «Saremo impiccati soltanto perché abbiamo pensato insieme». I processi e le esecuzioni continuarono quasi sino alla fine della guerra; i pochi che scamparono alla forca furono liberati dagli Alleati.
Come fu visto dall’opinione pubblica mondiale l’attentato del 20 luglio? Nei Paesi satelliti o alleati della Germania, come l’Italia, fu rigorosamente ripetuto quanto era detto nei comunicati ufficiali emanati dai capi del Reich. Ma anche la stampa internazionale, sia alleata sia neutrale, non si discostò molto da quanto veniva ripetuto in Germania. Il 9 agosto 1944 il New York Times scrisse che l’attentato a Hitler faceva pensare più «all’atmosfera di un cupo mondo criminale» che a ciò che ci si aspetterebbe da un «normale corpo di ufficiali di uno Stato civile». L’autorevole quotidiano statunitense si scandalizzava che per un anno intero alti ufficiali dell’esercito avessero tramato contro «il Comandante Supremo delle Forze Armate» al quale avevano giurato fedeltà e per di più ricorrendo, come mezzo per realizzare l’attentato, «alla bomba, arma tipica della malavita».
Nello stesso giorno un altro importante quotidiano statunitense, The Herald Tribune, scriveva: «In generale, agli americani non dispiacerà che la bomba abbia risparmiato Hitler e che ora egli si liberi personalmente dei suoi generali. D’altronde gli americani non hanno nulla da spartire con gli aristocratici, in particolare con quelli che onorano i colpi di pugnale». Tutto questo ci dice quanto gli Alleati a quel tempo fossero schiavi dei loro pregiudizi nell’analizzare quanto era accaduto in Germania. Anche il premier inglese W. Churchill, che pure era a conoscenza di molte cose anche di qualche anno addietro, nel suo messaggio alla Camera dei Comuni del 2 agosto 1944 commentò l’attentato a Hitler come «una lotta di potere tra i generali del Terzo Reich».
La Chiesa cattolica tedesca e l’attentato a Hitler
Quale fu la reazione della Chiesa cattolica tedesca all’attentato contro Hitler? E ancora, che cosa sapevano i suoi alti prelati e la Santa Sede di quanto era accaduto? Ricordiamo infatti che l’attentatore, von Stauffenberg, era un cattolico praticante e che diversi militari dissidenti e molti dei membri del «circolo di Kreisau» erano in buoni rapporti con uomini di Chiesa di entrambe le confessioni. Non dimentichiamo poi che di questo circolo facevano parte anche alcuni noti gesuiti, tra i quali il p. Alfred Delp, redattore della rivista gesuita Stimmen der Zeit, il p. Augustinus Rösch, provinciale della Baviera, e il suo segretario p. Lothar König.
L’atteggiamento che i vescovi tedeschi assunsero nei confronti delle autorità, subito dopo l’attentato del 20 luglio, fu come sempre di grande prudenza e circospezione, ma, questa volta, anche di freddezza. Diversamente da quanto era avvenuto per l’attentato a Hitler alla birreria di Monaco dell’8 novembre 1939, non fu indetta nessuna manifestazione di ringraziamento per lo scampato pericolo del Führer e nessun Te Deum fu cantato nelle cattedrali. Ciò fu notato dai gerarchi del regime e irritò oltre ogni misura il Führer, che, come sempre, promise di fare i conti con la Chiesa cattolica e con il Vaticano una volta finita la guerra. Un gerarca nazista così commentò l’atteggiamento di riservatezza assunto dalla Chiesa cattolica nei confronti dell’attentato: «È tipico l’atteggiamento del clero che non vi sia stato nemmeno un sacerdote, compresi i vescovi, che abbia trovato una parola di sdegno per l’attentato dei traditori contro il Führer o si sia rallegrato per la sua salvezza». La Gestapo di Colonia, in una relazione inviata a Berlino, rilevava che molti — tra cui alcuni sacerdoti filonazisti — «si meravigliano dell’assenza di commenti da parte dei vescovi» e che la maggior parte del clero «depreca in cuor suo che l’attentato a Hitler sia fallito»[3].
Ci si chiede se alcuni vescovi abbiano incoraggiato con il loro consiglio o con la loro tacita approvazione l’attentato contro il dittatore, che alcuni congiurati consideravano, utilizzando categorie concettuali proprie della morale cattolica, come un vero e proprio «tirannicidio». È difficile, anche a motivo della scarsità della documentazione, dare una risposta esauriente a questo interrogativo. In generale possiamo dire che i vescovi tedeschi in diverse occasioni condannarono il ricorso al «tirannicidio» come mezzo di lotta politica. Essi insegnavano, secondo la dottrina cattolica, che bisognava obbedire a Dio piuttosto che agli uomini, in particolare quando essi ordinano atti contrari alla legge morale e divina; ma dall’enunciazione di questo principio non passarono mai a denunciare pubblicamente la «legittimità» del potere esercitato da Hitler. Facendo ciò, essi avrebbero messo a repentaglio non soltanto la vita del proprio clero, ma anche quella di moltissimi cristiani.
Essi sapevano che, nonostante la durezza dei tempi e la persecuzione religiosa in atto ormai da diversi anni, avevano il compito di proteggere il «gregge minacciato» affidato alle loro cure. Una parola di troppo, e il tanto bene che essi avrebbero potuto fare — e che in realtà fecero — per la causa della fede e della giustizia sarebbe stato vanificato. Pare che mons. C. von Galen iniziasse a usare maggiore circospezione nelle sue omelie quando si rese conto che i nazisti facevano pagare duramente ai suoi preti ciò che non potevano, per paura di esacerbare gli animi dei fedeli, far pagare a lui stesso.
Nel «circolo di Kreisau», molti membri del quale erano contrari per motivi religiosi al tirannicidio, si elaborò a partire dal 1942, sotto la spinta degli avvenimenti polacchi e quando si venne a conoscenza delle camere a gas riservate agli ebrei e ai dissidenti, la teoria del «male minore», che si riteneva più consona alla dottrina cristiana. Questa teoria fu certamente elaborata anche con i consigli sia di pastori luterani sia di sacerdoti cattolici, gesuiti in particolare, che facevano parte di quel gruppo di dissidenti.
Dal diario del conte H. von Moltke, il fondatore del «circolo di Kreisau», sappiamo che «alcuni autorevoli vescovi tedeschi erano vicini alla resistenza». In particolare nel diario si fanno i nomi di mons. K. von Preysing, vescovo di Berlino, del card. M. von Faulhaber, vescovo di Monaco, e di mons. C. von Galen, vescovo di Münster; addirittura nella lista dei «partecipanti saltuari» alle riu-nioni del circolo si fa esplicitamente il nome di von Preysing. Von Moltke era entrato in relazione con lui nel settembre del 1941, e a partire da questa data gli incontri tra i due si moltiplicarono: «Berlino 6 settembre 1941. Il pomeriggio trascorso ieri con Preysing — annota von Moltke nel suo diario — è stato molto soddisfacente. Mi è sembrato che anch’egli ne fosse soddisfatto. Le due ore e mezzo sono trascorse velocemente e alla fine avevamo toccato o sfiorato un ampio settore dei rapporti umani. In ogni caso mi ha sùbito invitato a ritornare ed è ciò che farò a intervalli regolari di circa tre settimane»[4]. Il 13 novembre il conte ritornò dal presule, il quale gli confidò che proprio quella mattina egli aveva amministrato la cresima ad alcuni ebrei che la sera stessa avrebbero dovuto essere deportati a Litzmannstadt. «Questo rimarrà per lui — annota von Moltke — il ricordo più bello». Il vescovo, inoltre, gli parlò dell’arciprete della cattedrale, B. Lichtenberg, che era stato arrestato con l’accusa «di atteggiamento antinazista» per aver pregato insieme con gli ebrei e gli lesse il resoconto degli interrogatori speditogli quello stesso giorno dalla Gestapo[5].
Nel gennaio 1943, inoltre, von Moltke di passaggio a Monaco (dove incontrò i suoi amici gesuiti, Rösch, König, Delp e l’avvocato J. Müller, «uomo di collegamento tra la Abwehr e il Vaticano») ebbe l’occasione di incontrare il cardinale Faulhaber e lo mise al corrente del colpo di Stato che si stava preparando contro Hitler. Dopo esser stato ad ascoltare, scrive nel suo diario il conte, «il cardinale insistette per la stipulazione di un concordato tra il Vaticano e il nuovo Stato tedesco». Ciò fu interpretato dai dissidenti come un tacito appoggio alla loro azione e anche di sostegno al complotto che i militari stavano preparando contro il dittatore.
Don H. Wehrle, cappellano militare, nel dicembre 1943 venne a conoscenza in confessione dell’attentato che si stava preparando contro Hitler. In quell’occasione il maggiore L. Leonrod, ufficiale dello stato maggiore di von Stauffenberg, chiese al sacerdote, sotto il segreto della confessione, se fosse peccato compiere un attentato contro Hitler. Questi gli rispose che la Chiesa considerava inammissibile il tirannicidio, quando il «governatore» era investito di un potere legittimo; ma aggiunse che la semplice conoscenza dell’attentato di per sé non costituiva peccato. L’episodio fu riferito nel corso di un processo contro i cospiratori del 20 luglio e don Wehrle fu immediatamente arrestato e poi condannato a morte per non aver denunciato all’autorità il complotto che si stava preparando contro Hitler, anche se gli era stato riferito in confessione.
La «nota» Orsenigo sull’attentato
Taluni si chiedono se il Nunzio presso il Reich fosse al corrente del piano predisposto dai dissidenti per eliminare Hitler. Secondo G. Lewy, in Vaticano, almeno negli anni tra il 1942-43, si sapeva qualcosa — attraverso le notizie segrete portatevi dall’avvocato bavarese J. Müller amico di mons. Kaas — sul progetto dei dissidenti di sbarazzarsi in qualche modo di Hitler. Pare anzi, sempre secondo Lewy, che in quegli anni si fossero presi accordi per sostituire, dopo che il colpo di Stato fosse avvenuto, il nunzio mons. C. Orsenigo, considerato troppo accondiscendente nei confronti del Reich, con un prelato più sensibile alle richieste dei dissidenti, e questo sarebbe dovuto essere mons. von Preysing. Tale notizia che non ha basi documentali è stata però sempre smentita dai collaboratori del vescovo di Berlino[6].
Da un documento inedito, conservato nel nostro archivio, deduciamo che mons. Orsenigo fosse stato tenuto completamente all’oscuro dai congiurati sui preparativi dell’attentato a Hitler del 20 luglio. La dinamica dei fatti che egli espone — nella forma di una nota informativa inviata alla Segreteria di Stato — a un anno di distanza dal fallito attentato (quando la Germania era ormai occupata dalle truppe Alleate) è molto interessante e si discosta abbastanza dalla ricostruzione fatta di tale vicenda in sede storica in questi ultimi decenni. Tale ricostruzione che abbiamo riferito sommariamente nella prima parte dell’articolo è confortata da numerose fonti documentali e perciò la sua attendibilità non può essere messa in dubbio. Ci sembra opportuno riportare integralmente la «nota» di mons. Orsenigo e commentarla poi con alcune brevi considerazioni:
«Eccellenza Reverendissima. Mi permetto di portare a conoscenza di Vostra Eccellenza Reverendissima quanto mi fu confidenzialmente riferito circa la preparazione e lo scopo dell’attentato del 20 luglio 1944 contro il Führer. Viene anche asserito che esistono di questa recente versione, per sé non inverosimile, anche dei documenti probativi. Si dice molto riservatamente che l’attentato fu ideato non da elementi antinazisti, ma invece dallo stesso partito nazista, o meglio da alcuni elementi che erano nella Cancelleria del Führer stesso (i direttori delle tre sezioni dell’Ufficio di Cancelleria: cultura-politica-affari privati erano allora Borgmann [sic] – Lammers – Meissner) e fra questi sarebbe stato ideato e anche preparato in tutti i particolari l’attentato del 20 luglio dello scorso anno. Scopo dell’attentato non sarebbe stato la soppressione di Hitler, il quale infatti non era presente al momento dell’esplosione, ma intervenne solo dopo, ma sarebbe piuttosto stato di poter scoprire con questo mezzo potente sincere dichiarazioni in ordine al nazismo, specialmente conoscere chi sarebbe stato disposto a collaborare ad un futuro eventuale Governo antinazista. Ciò è verosimile; tuttavia alcune circostanze restano ancora non chiarite, per esempio, come ad artefice materiale dell’attentato (cioè per deporre l’ordigno sotto la sedia di Hitler) si sia riusciti a guadagnare un militare di sentimenti religiosi e di aperta pratica cattolica; a meno fosse egli pure inconsapevolmente un istrumento cieco di questa congrega traditrice. Sta però il fatto che fu conservata per la futura epurazione la nota esatta della data e di quanto ciascuno degli interrogati in ordine al Governo da instaurarsi a colpo avvenuto, aveva detto, come successe a danno dell’ex-Presidente Bolz, come pure sta il fatto che la repressione, quasi prevista e preordinata, assunse proporzioni superiori ad ogni previsione: si parla di migliaia e migliaia di sacrificati, la maggior parte per impiccagione lenta e filmeggiata, caduta ora nelle mani degli alleati. Tutto questo è qui ancora sconosciuto; i pochi che ne sono al corrente e che, vivendo qui, sono meglio in grado di valutare le possibilità della raffinata malvagità nazista, non escludono la probabilità di questa versione. […] Cesare Orsenigo»[7].
Sulla «nota» qui riportata si possono fare alcune considerazioni:
1) Secondo essa, l’attentato del 20 luglio non sarebbe stato preparato da militari dissidenti (come ritiene gran parte della storiografia sull’argomento), ma da politici, anzi da elementi «dello stesso partito nazista», presenti nella Cancelleria di Hitler. Dei responsabili, inoltre, Orsenigo riporta i nomi.
2) L’attentato sarebbe stato in realtà un espediente per scoprire «chi sarebbe stato disposto a collaborare a un futuro eventuale Governo antinazista», e quindi a epurare i quadri del partito da possibili traditori della causa nazista.
3) L’attentato non sarebbe stato ordito per eliminare Hitler, ma semmai per consolidarne il potere. E infatti, secondo la relazione di mons. Orsenigo, l’ordigno esplose quando il dittatore era fuori dalla sala delle riunioni. Ora, secondo la ricostruzione della vicenda fatta in sede storica, è certo che il dittatore fosse presente al momento dello scoppio dell’ordigno, ma che questo non fosse collocato sotto la sedia di Hitler, come si legge in questa relazione, ma a pochi metri di distanza dallo stesso.
4) L’esecutore materiale dell’attentato, von Stauffenberg, è considerato dalla relazione come un inconsapevole «istrumento cieco della congrega traditrice», mentre dalla ricostruzione storica sembra certo che egli abbia avuto nell’attentato un ruolo di primo piano: non solo ne fu l’esecutore materiale, ma anche l’ideatore.
Insomma la tesi sostenuta dalla relazione di mons. Orsenigo è quella del «finto complotto politico». Se questa ipotesi fosse vera, bisognerebbe allora riscrivere una delle pagine più importanti della storia del secolo appena trascorso. Ma, in realtà, ci è difficile accettare per buona la tesi esposta nella «nota». Innanzitutto essa contrasta con altre fonti documentali, in base alle quali è stata ricostruita la vicenda dell’attentato a Hitler del 20 luglio 1944. In secondo luogo mons. Orsenigo dice di aver ricevuto queste informazioni «confidenzialmente», ma non riporta la fonte, che doveva essere in ogni caso autorevole. Egli però reputa la versione da lui riportata verosimile e confortata da «documenti probatori».
Non è nostro intento in questa sede avanzare proposte nuove, o sottoporre a revisione vicende già «sedimentate» in sede storica; ma riteniamo che sia compito dello storico, quando esamina documenti nuovi, porsi interrogativi, anche se possono sembrare azzardati; essi sorgono dalla lettura del documento riportato, ma sembrano molto difficili da accettare.
In ogni modo, dalle fonti sappiamo che il Nunzio all’indomani dell’attentato accettava per buona, come del resto tutte le Cancellerie europee, la versione dei fatti divulgata da Hitler. «Finora l’attentato — scrive mons. Orsenigo al Vaticano — è noto solo nei limiti dei comunicati ufficiali. Torbidi nella provincia improbabili. Berlino dove ho dovuto recarmi venerdì e domenica esternamente tranquilla. Corpo diplomatico ha espresso suoi sentimenti iscrivendosi libro esposto nella Cancelleria del Führer»[8].
La persecuzione nazista contro la Chiesa dopo il 20 luglio
Come sappiamo, le vendette contro i congiurati e i supposti nemici del Reich ripresero in grande stile a metà agosto e durarono fino a tutto il mese di settembre. Migliaia di persone furono arrestate, torturate, molte uccise. In quelle «retate» furono arrestati non soltanto i dissidenti politici più in vista, ma anche quelli che, avendo scelto di non collaborare con il regime, si erano tenuti un poco ai margini della vita pubblica. Tra essi c’erano soprattutto ex attivisti politici o sindacali, moltissimi dei quali provenienti dal Zentrum, partito di ispirazione cristiana, o da movimenti o associazioni cattoliche. Una lettera dell’arcivescovo di Friburgo, mons. Konrad Gröber, inviata in quei giorni al Nunzio a Berlino, ci informa intorno a quei terribili fatti: «Reverendissimo Signor Nunzio Apostolico! Se scrivo a Vs. Eccellenza questa volta è per chiederLe di informare la Santa Sede che attualmente molte persone, una volta facenti parte del Zentrum, che erano stati delegati cittadini o simili, sono stati arrestati ieri mattina. Dev’essersi trattato di un’azione che ha riguardato l’intera Germania. Soltanto qui a Friburgo saranno una cinquantina gli uomini e le donne, cattolici della migliore qualità, colpiti da questa sorte. Tutti costoro non erano più stati attivi politicamente dopo il 1933. Ora sono stati improvvisamente strappati alle loro famiglie, benché molti tra loro siano vecchi e malaticci, oppure abbiano fatto per la patria grossi sacrifici con la perdita di figli o parenti. Io ho fatto sinora ciò che era in mio potere. Ho ritenuto però mio dovere interessare anche Vs. Eccellenza dato che si tratta di personalità che sono note sia al Santo Padre sia a lei personalmente. Aggiungo che questa ondata di arresti non ha colpito ecclesiastici»[9]. Ben presto la nunziatura di Berlino fu investita da numerose richieste di aiuto inviate da parenti di arrestati o di condannati a morte. Esse chiedevano al Nunzio di intervenire presso il Governo del Reich ora per ottenere la scarcerazione di un loro caro, ora per sostenere una domanda di grazia. Ma, come è noto, il Nunzio poté fare ben poco per andare incontro a queste richieste. Molte lettere pervenute in nunziatura erano come questa: «La prego Eccellenza di interessarsi di mio marito, Nikolaus Gross, che il 15 gennaio 1945 è stato condannato a morte. Sin dalla sua prima giovinezza, da povero e fedele figlio della Chiesa, ha lavorato per il movimento cristiano nazionale dei lavoratori, e ha lottato nel mondo del lavoro per la fede e la morale […]». Appuntato a matita nello stesso foglio si legge: «Domanda di grazia giunta a morte avvenuta»[10].
La «grande persecuzione» iniziata alla metà di agosto colpì duramente larghi settori della Chiesa, di quella Chiesa che si era in quei lunghi anni opposta al nazismo, anche senza compiere azioni di rilievo. Essa ebbe inizio con l’arresto di «laici cattolici impegnati nella pastorale e nel lavoro sociale», ma finì ben presto per coinvolgere sacerdoti, religiosi, in particolare alcuni gesuiti. Per il momento non si vollero «toccare» i vescovi, anche se molti di essi furono interrogati dalla Gestapo. In una nota inviata da mons. Orsenigo in Vaticano si legge: «Tra i membri del Centro arrestati non si trova nessun sacerdote. Sono invece ricercati da tutta la polizia germanica tre religiosi di Monaco: i padri Rösch, König, Delp»[11]. Qualche giorno prima però egli aveva informato la Santa Sede che a «fine luglio in Berlino è stato arrestato il Sacerdote E. G. Schmitt già segretario dell’Associazione Cattolica Operaia; si teme che dovrà comparire dinanzi al Tribunale Popolare»[12]. Pochi mesi dopo (gennaio 1945) in un dispaccio inviato alla Segreteria di Stato il Nunzio scriverà: «Sono molti i sacerdoti incarcerati con l’accusa di disfattismo o di spirito antistatale». I «religiosi» di cui parla Orsenigo nella sua «nota» del 12 settembre erano tre gesuiti di Monaco che facevano parte, come membri effettivi — ciò che risulta anche da una lista di nomi redatta da von Moltke — del «circolo di Kreisau». È certo che essi dettero un contributo considerevole all’attività culturale del «circolo». Infatti, al primo incontro che si tenne tra i «circolisti» nella tenuta dei von Moltke a Kreisau in Slesia il 22 maggio 1942, il p. Rösch tenne una relazione sul tema del rapporto tra Stato e Chiesa riguardo al problema dell’istruzione. Mentre nel successivo incontro, che si svolse mesi dopo, il p. Delp presentò una dotta relazione sulla dottrina sociale della Chiesa, prendendo spunto dalla Quadragesimo anno. Essi, inoltre, erano probabilmente anche a conoscenza (specialmente il p. König) dell’attentato a Hitler che si stava preparando nell’ambiente militare.
Il p. Delp fu arrestato a Monaco subito dopo l’attentato (28 luglio) e trasferito a Berlino. Qui fu processato e condannato a morte insieme a von Molkte e ad Eugen Gerstenmaier il 9-11 gennaio; la sentenza fu eseguita il 2 febbraio 1945. Gli altri due suoi confratelli riuscirono invece a sfuggire all’arresto nascondendosi: il p. Rösch però, in seguito a una «soffiata», fu scoperto dalla Gestapo dopo qualche mese e quindi arrestato l’11 gennaio e trasferito a Berlino. Qui fu liberato dal carcere — dove era in attesa di processo — dopo la fuga degli agenti della Gestapo che lo custodivano.
È noto che Hitler poneva i gesuiti tra i suoi nemici più accaniti. Molti di essi infatti, già dall’inizio del regime, si erano opposti con coraggio alla sua legislazione antireligiosa e in più occasioni avevano denunciato le continue violazioni dei diritti umani compiute dai nazisti: ne è esempio il beato p. Rupert Mayer. In un rapporto del 1945 scritto dal p. Rösch per gli Alleati si legge che la persecuzione contro i membri della Compagnia di Gesù era iniziata già nei primi anni del regime e che, a partire dal 1940, i gesuiti furono sottoposti a sistematici interrogatori sui loro «piani politici e finanziari». «Subito prima della campagna di Russia — si legge nel rapporto per l’OSS — il Führer dichiarò i gesuiti indegni di portare armi, come gli ebrei, e impose loro di indossare la sigla “nzv”, inaffidabile come gli ebrei». Inoltre, continua il gesuita, «le SS chiesero l’elenco di tutti i membri dell’Ordine, ma rifiutammo di fornirlo. Era intenzione di Hitler di mandarci ad Est, nei campi di concentramento, come di fatto avvenne a partire dal 1942»[13].
I podcast de “La Civiltà Cattolica” | INTELLIGENZE ARTIFICIALI E PERSONA UMANA
La nostra epoca sarà ricordata come quella della nascita delle intelligenze artificiali. Ma cosa sono le intelligenze artificiali? Qual è l’impatto sociale di queste nuove tecnologie e quali sono i rischi? A queste domande è dedicata una serie in 4 episodi di Ipertèsti, il podcast de «La Civiltà Cattolica».
Conclusione
I sacerdoti, i religiosi e le religiose trucidati dai nazisti in Germania e nei territori da loro occupati furono migliaia, in particolare in Polonia. Quando gli americani entrarono il 26 aprile 1945 nel campo di concentramento di Dachau trovarono 326 sacerdoti cattolici. Purtroppo, la pubblicistica sulla resistenza al nazismo non si è interessata di questi fatti, anzi una certa storiografia di parte ha continuato per decenni a ripetere — e a divulgare tra l’opinione pubblica — la leggenda che il clero cattolico (duramente perseguitato dal regime hitleriano) fosse filonazista per paura della minaccia comunista. Dagli archivi e dalla testimonianza di molti protagonisti di quelle vicende viene però fuori una verità diversa. Oggi possiamo affermare con certezza che la Chiesa cattolica tedesca — così come la «Chiesa confessante» luterana[14]— non fu né filonazista né connivente con il nazismo; anzi essa contribuì con la sua coraggiosa testimonianza cristiana e con il sangue di molti suoi «martiri» al ripristino in Germania delle libertà civili e politiche, disconosciute per 12 lunghi anni dal delirio e dalla follia di alcuni «piccoli uomini» che si erano creduti onnipotenti come Dio.
A riprova di questo, riportiamo la testimonianza di una delle figure più nobili della «resistenza civile», il conte von Moltke: «Le Chiese in questo periodo hanno compiuto cose grandiose. Alcune prediche di eminenti vescovi cattolici come pure protestanti sono conosciute all’estero. In particolare due prediche del vescovo di Berlino conte Preysing del 16 e del 20 dicembre 1942. Ma la cosa più importante è la continua evoluzione, è cioè che l’intero clero, quasi senza eccezioni nonostante la propaganda intensiva e la pressione che viene esercitata su di esso, ha mantenuto intatti i grandi princìpi. Non ho sentito dire di nessun parroco che, predicando in una chiesa distrutta dalle bombe britanniche, abbia fatto una predica con tendenze antibritanniche. Le chiese sono piene tutte le domeniche […]. Lo Stato vorrebbe rendere impossibile l’attività religiosa»[15].
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[1] Tra le opere pubblicate in Italia ricordiamo: M. DÖNHOFF, Per l’onore. Aristocratici contro Hitler, Roma, Il Minotauro, 2002; J. FEST, Obiettivo Hitler. La resistenza al nazismo e l’attentato del 20 luglio 1944, Milano, Garzanti, 1996; U. VON HASSELL, Diari segreti: 1938-1944. L’opposizione tedesca ad Hitler, Roma, Editori Riuniti, 1996; W. HOFFMAN, Tedeschi contro il nazismo. La resistenza in Germania, Milano, Garzanti, 1994; H. J. VON MOLTKE, Futuro e resistenza. Dalle lettere degli anni 1926-1945, Brescia, Morcelliana, 1985; H. ROTHFELS, L’opposizione tedesca al nazismo, Bologna, Cappelli, 1963. Cfr anche G. SALE, «La Resistenza nella Germania nazista», in Civ. Catt. 2003 I 229-242.
[2] J. FEST, Obiettivo Hitler…, cit., 227.
[3] G. LEWY, I nazisti e la Chiesa, Milano, Net, 2002, 454. La prima edizione (in inglese) di quest’opera è del 1964.
[4] H. J. VON MOLTKE, Futuro e resistenza…, cit., 93.
[5] «“Qual è la sua posizione nei riguardi del problema razziale?”. “Io faccio solo distinzione tra cristiani e non cristiani: i primi li includo come fratelli nella mia preghiera, per gli altri prego perché vengano illuminati”. “Qual è la sua posizione nei riguardi dello Stato?”. “Sii sottomesso all’autorità che è stata posta sopra di te, dice l’apostolo Paolo”. “Qual è la sua posizione nei riguardi del Führer?”. “Non è il mio Führer, infatti lo è solo per i compagni di partito e nella sua veste di capo di partito. Io però non sono membro del partito e conosco un solo Führer, Gesù Cristo”. “Se lei non si corregge la spediremo dai suoi cari ebrei”. “È proprio quello che volevo chiedere; infatti che cosa può esserci di più bello per un vecchio sacerdote che stare vicino a quei cristiani ebrei votati alla morte?» (ivi, 105).
[6] Cfr G. LEWY, I nazisti e la Chiesa, cit., 453.
[7] ARCHIVIO DELLA CIVILTÀ CATTOLICA (ACC), Fondo non ordinato. La lettera è datata: Eichstätt, 3 luglio 1945. Destinatario è mons. Domenico Tardini, a quel tempo Segretario della Sacra Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari.
[8] Ivi. La nota è datata 25 luglio 1944.
[9] Ivi. La lettera è datata 24 agosto 1944.
[10] Ivi. La lettera è datata 20 gennaio 1945.
[11] Ivi. La lettera è datata 12 settembre 1944. In realtà il p. Delp era stato già arrestato a Monaco il 28 luglio; evidentemente mons. Orsenigo non ne era stato informato dalle autorità di polizia.
[12] Ivi. La lettera è datata 5 settembre 1944. Nello stesso comunicato si legge: «Polizia nei giorni scorsi ha arrestato promiscuamente quasi tutti gli ex-deputati sia socialisti sia del Centro dell’antico Reichstag e dei Landtag; qualcuno dopo un rapido interrogatorio fu rimesso in libertà. Si dice sia una misura di prevenzione».
[13] Questi documenti sono tratti dall’archivio dell’OSS (servizio segreto degli Stati Uniti, poi trasformato nella CIA) e pubblicati soltanto in estratto; si veda: «Olocausto, le denunce ignorate dagli Alleati», in Corriere della Sera, 4 settembre 2001, 16.
[14] Il martire più noto della «Chiesa confessante» fu il pastore D. Bonhoeffer, impiccato nell’aprile del 1945. Sono notissime le sue lettere dal carcere, raccolte nel volume Resistenza e Resa.
[15] H. J. MOLTKE, Futuro e resistenza…, cit., 145.