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L’anno scorso, tra la fine di luglio e Ferragosto, si è svolto un breve e intenso confronto tra uno dei maggiori filosofi italiani viventi, Emanuele Severino, e due teologi, Pierangelo Sequeri e Maurizio Gronchi, sul tema della risurrezione di Gesù come prova e garanzia della sua divinità (1). La stagione estiva ha impedito probabilmente che il dibattito avesse un’ampia risonanza. Ne vogliamo dar conto qui ai nostri lettori.
L’argomentazione di E. Severino
Il filosofo prende le distanze da coloro che riducono il senso dell’uomo alla vita terrena. «Al contrario, la fede nella risurrezione della carne è ancora troppo terrena e riduttiva. L’uomo sta infinitamente al di sopra della condizione, apparentemente felice, di chi può risorgere dopo la morte. Per comprender questo, bisognerebbe scorgere che anche quella fede dipende dal senso che vien dato al “divenire” e alla morte degli esseri; ed è innanzitutto sul senso che l’Oriente e l’Occidente hanno assegnato al divenire e alla morte che bisognerebbe far luce. Il mondo stesso è un accendersi e uno spegnersi per accendersi di nuovo. Il mondo è divino, ma la risurrezione appartiene all’essenza di ogni cosa, non è il privilegio di una realtà particolare in cui si voglia vedere la presenza di un Dio».
Invece, «per il cattolicesimo la risurrezione di Gesù è la prova definitiva e decisiva della sua divinità. Paolo dice inoltre che senza la risurrezione di Gesù sarebbe vana la fede nella risurrezione dei morti. Anche per altre religioni il Dio (Osiride, Dionisio, Tammuz, Baal) muore e risuscita». Ma «sulle spalle della risurrezione di Gesù si è voluto caricare un peso che essa non può reggere». Anche gli «avversari del cristianesimo hanno dato all’evento della risurrezione un’importanza esorbitante, vedendolo gravido di conseguenze che invece da esso non possono scaturire». Sono possibili due obiezioni.
«Si ammetta pure che Gesù sia risorto. Ma se dalla sua risurrezione segue certamente che egli ha avuto una sorte eccezionale, non segue però ancora che egli sia Dio, cioè quell’Essere eterno, creatore e salvatore del mondo a cui pensa il cristianesimo. Le “leggi della natura” oggi note possono cedere il passo ad una diversa legislazione dove i corpi dei morti ritornano vivi sulla terra. Sul versante opposto si suol dire che la risurrezione dei morti è inverosimile e non ha alcun riscontro scientifico. Ma si può rispondere che la verità non ha bisogno di essere verosimile e che infinite sono le cose ignorate dalla scienza». Per il Severino, si tratta di obiezioni che soltanto superficialmente toccano il problema. «Si va invece verso il fondo quando si scorge che, anche se l’evento straordinario della risurrezione di Gesù (e in generale dei morti) si fosse realizzato (o si realizzasse) per davvero, rimarrebbe ancora da spiegare perché il protagonista di tale evento debba essere Dio: perché debba essere Dio ciò che la conoscenza attuale dell’uomo non riesce a spiegare».
Conclude il filosofo: «Si ammetta pure che la risurrezione di Gesù sia “veramente” accaduta, cioè sia, come vuole la teologia cattolica, una “verità storica”. Per il credente tale “verità” sarà un “motivo” per aver fede nella divinità di Gesù. Non potrà tuttavia mai essere un motivo così cogente da trasformare il contenuto della sua fede in una verità assolutamente innegabile. Una “verità storica” non è infatti la verità nel senso pieno e autentico, cioè la verità come incontrovertibilità assoluta. Una “verità storica” è soltanto un’ipotesi, un’interpretazione, una fede; sorretta sì da “motivi” che sono per lo più assenti nelle fantasie arbitrarie, ma che possono essere pur sempre considerati insufficienti. Chi ammette le “verità storiche” — la “verità storica” della risurrezione di Cristo — non si appoggia sulla pura roccia dell’indiscutibile, ma rimane all’interno della fede — e dell’incertezza che accompagna ogni fede».
La risposta dei teologi
Pierangelo Sequeri risale alla singolarità della filosofia del Severino, che ha elaborato la necessità razionale di non pensare mai il nulla come origine e destino delle cose: una chiave interpretativa che «approda tuttavia al pensiero ossessivo di una pura natura divina dell’intero», la quale, «modellata sul protocollo formalistico di un’identità dell’essere senza libertà e senza storia, tende obiettivamente a convergere, a dispetto delle migliori intenzioni, con l’odierna omologazione di una perfetta amoralità dell’oggettività storica e naturale del mondo. La stessa verso la quale ci sospinge la deriva della oggettivazione scientifica dell’essere e della marginalizzazione soggettivistica dell’etica. Che mettono realmente a rischio ogni religione e ogni umanesimo».
Dopo aver notato, nel discorso del Severino sulla risurrezione, «apparenti ovvietà apologetiche e inedite proiezioni fideistiche del cristianesimo», il Sequeri discute il problema della verità storica. «Una “verità storica”, dice Severino, non è “la verità nel senso pieno e autentico”. Fuori discussione. Ma non per questo è “soltanto un’ipotesi, un’interpretazione, una fede”. È infatti molto di più e molto di meno. Nel caso di cui parliamo, in quanto si tratta della verità di un’esperienza, è un evento che rimanda alla realtà di un accaduto: come tale, inaggirabile e ineludibile in eterno. E proprio per ciò suscettibile di essere appropriata in ipotesi, interpretazioni, fedi non arbitrarie». E aggiunge: «La risurrezione di Gesù (che nessuno pretende di aver visto a occhio nudo) è accuratamente distinta, nella incantevole sobrietà delle scritture testimoniali, dai modelli ovvi delle simboliche rianimazioni terrene e delle mistiche apparizioni celesti».
All’affermazione del filosofo, secondo la quale la verità storica della risurrezione di Gesù rimane, filosoficamente parlando, all’interno della fede, il Sequeri risponde: «Ammettiamolo volentieri. E con questo? Non ci aveva proprio Severino insegnato (negli indimenticabili Studi di filosofia della prassi) che l’autentica problematicità dell’interpretazione è appesa alla verità pensabile nella fede? Il punto è che, intanto, la manifestazione da decifrare è comunque posta incontrovertibilmente, nella storia del nostro inevitabile pronunciamento per la verità».
Maurizio Gronchi chiarifica la fede cristiana che legge una relazione profonda tra la risurrezione di Gesù e la sua divinità. «In verità, l’unico peso che l’evento della morte e risurrezione di Gesù riesce a sopportare è quello della fede, non della dimostrazione né della evidenza. Ed è proprio della fede, generata compiutamente nei discepoli di Gesù di Nazareth grazie a quell’evento, esibire motivi di credibilità, mediante la testimonianza personale, pagata a caro prezzo. Non tanto di dichiarare evidente, alla luce di quanto accaduto (la «verità storica» di cui l’autore scrive), la divinità di Gesù Cristo, quanto di annunciare lo sconvolgimento di ogni attesa, com’è ragionevole dinanzi alla scomparsa — e apparizione — del corpo esanime di un crocifisso e sepolto. Pertanto, mentre la storia lascia la sua traccia nel sepolcro vuoto, la fede accoglie come credibile la testimonianza (questa incontrovertibilmente storica) di coloro che dicono di averlo visto risorto».
Perciò, secondo il Gronchi, se era proposito del Severino «confutare la pretesa di peculiarità della fede cristiana, fondata sulla “verità storica” della risurrezione come dimostrazione della divinità di Gesù Cristo, tali osservazioni non centrano la più aggiornata visione teologica, neppure tanto recente, che ha chiaramente maturato la consapevolezza che la fede non fa appello ad alcuna indiscutibilità e proprio sulla sua radicale disponibilità gioca la certezza dell’affidamento».
La replica di E. Severino
Ai due teologi ha replicato Emanuele Severino. Il Sequeri aveva affermato che la verità storica della risurrezione di Gesù si colloca all’interno della fede, ma resta il fatto incontrovertibile di una «manifestazione» storica, ossia l’incontro dei discepoli con colui che era stato crocifisso e sepolto. Gli risponde il filosofo: «Se questo è il senso, nego che tale manifestazione sia “posta incontrovertibilmente”. Che quell’incontro ci sia stato è una congettura storica, una fede, non una verità incontrovertibile. Si può allora intendere che quella “manifestazione” non sia l’incontro con un uomo risorto, ma sia il linguaggio, la testimonianza di coloro che assicurano di avere avuto tale incontro». Anche per il Gronchi è indubbiamente storica la testimonianza dei discepoli. E anche a lui il filosofo obietta: «Non solo nego che il linguaggio e la testimonianza di costoro dicano cose incontrovertibili, ma nego che l’esistenza stessa di quel linguaggio e di quella testimonianza sia un fatto incontrovertibile. Anche l’esistenza del cosiddetto fatto da decifrare è il contenuto di una decifrazione: che questo insieme di segni che ho qui sotto gli occhi sia linguaggio, e sia lingua greca, e sia il testo del Nuovo Testamento, tutto questo non è “posto incontrovertibilmente”, ma è da capo una congettura storica — per quanto essa possa essere utile all’agire umano. A maggior ragione è congettura storica, semplice fede, che qualcuno abbia dato quella testimonianza». Ora, se la resurrezione di Gesù non è una verità incontrovertibile, «la fede assume come vero ciò di cui non può non dubitare. La pura fede che Gesù esige per la salvezza non può esistere». Essa non è soltanto incertezza, ma anche contraddizione.
E il Severino conclude: «Se quarant’anni fa con la parola “Dio” i miei scritti intendevano volgersi a qualcosa di molto diverso da ciò che questa parola indica per lo più, in seguito è scomparsa in essi anche la parola, è stata lasciata cioè alla sua dimensione storica, dove “Dio” è il Padrone del mondo e del tempo. Padrone di quel divenir-altro-da-sé delle cose è la Follia più profonda, perché se si crede nel divenir-altro, si crede che una cosa diventando altro da sé, è altro da sé — e la Follia (il Segno) è appunto pensare che qualcosa non sia ciò che essa è, e vivere questo suo non esser se stessa. Padrone di un segno, “Dio” (e, oggi, la “Tecnica”): e dunque Padrone e despota all’interno di un sogno. Sono più di trent’anni che il mio discorso scorge l’appartenenza del Cristianesimo alla Follia estrema, e quindi la necessità di abbandonare la configurazione storica del Cristianesimo, nella quale esso non riesce ancora a presentarsi come problema. Ma il Cristianesimo sarà ancora qualcosa, quando avrà abbandonato quella configurazione?».
Storia e fede
È sempre difficile formulare un compiuto giudizio sul pensiero di uno scrittore sulla base di qualche articolo di giornale. Una difficoltà evidente, per chi non voglia essere presuntuoso, quando si ha di fronte un pensatore di professione, che in uno o più articoli tocca un particolare argomento, tacendo di solito, per la natura stessa del genere giornalistico, i suoi presupposti teoretici, l’assunto generale del suo pensiero. Una difficoltà crescente quando il pensatore e il saggista è Emanuele Severino, filosofo di fama europea. In questo caso, onestà e umiltà esigono che anche uno scritto frammentario, quale necessariamente è un articolo di quotidiano, sia esaminato e valutato alla luce di un’analisi accurata dell’apparato categoriale dell’autore.
Il Severino è stato allievo di Gustavo Bontadini. Il maestro milanese è stato il critico dell’orientamento gnoseologico prevalente nel pensiero moderno e l’assertore dell’attualità e della ineludibilità della metafisica classica riproposta nel contesto degli esiti di quell’orientamento. La sua riflessione è approdata, da un lato, alla necessità di riscoprire la preesistenza e la centralità fondativa dell’essere e, dall’altro, al carattere «totale» e «assoluto» dell’esperienza considerata una dimensione non riducibile ai meri processi di costituzione empirica e a una struttura unitaria razionalmente giustificabile. Il Severino ha ripreso alcuni princìpi del Bontadini intrecciandoli con la rilettura di Heidegger. Cardine del suo pensiero è la riaffermazione dell’assoluto primato dell’essere nell’interpretazione radicale di Parmenide e la condanna del pensiero occidentale in quanto ha privilegiato non più l’essere ma il divenire e, con esso, le cose in-fondate, il dominio alienante, la tecnica nichilistica (2).
Noi non vogliamo addentrarci nel pensiero del filosofo. Presentiamo alcune semplici osservazioni sui due problemi da lui discussi: la verità storica della risurrezione di Gesù e la risurrezione di Gesù come prova della sua divinità. A entrambi i problemi il filosofo dà una soluzione negativa, come abbiamo visto. Da parte nostra, non intendiamo criticare la sua posizione, ma piuttosto chiarire quanto la Chiesa insegna sulla materia per quei lettori che, pur avendo seguito il confronto tra il Severino e i suoi interlocutori, si districano meno bene tra le ragioni recate dall’uno e dagli altri.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica esprime la fede di tutta la Chiesa quando afferma: «Il mistero della risurrezione di Cristo è un avvenimento reale che ha avuto manifestazioni storicamente constatate, come attesta il Nuovo Testamento» (3). Questo inizia la descrizione dell’evento pasquale con il segno del sepolcro vuoto: un segno insieme indiretto ed essenziale: indiretto, perché l’assenza del corpo di Gesù potrebbe spiegarsi altrimenti; essenziale, perché costituisce per i discepoli il primo passo verso il riconoscimento dell’evento. Poi il Risorto è veduto dalle donne, da Pietro, da Giacomo, dagli Apostoli, da cinquecento persone in una sola volta. «La fede della prima comunità dei credenti è fondata sulla testimonianza di uomini concreti, conosciuti dai cristiani e, nella maggior parte, ancora vivi in mezzo a loro» (4). All’origine della fede c’è la tradizione vivente nella quale si conserva la fede di Pietro e degli Apostoli: e l’atto di fede del credente raggiunge per questa via la realtà da loro sperimentata e annunciata (5).
«Nessuno è stato testimone oculare dell’avvenimento stesso della risurrezione e nessun evangelista lo descrive. Nessuno ha potuto dire come essa sia avvenuta fisicamente. Ancor meno fu percettibile ai sensi la sua essenza più intima, il passaggio a un’altra vita» (6). Ma l’evento è storico in quanto è constatabile attraverso la realtà degli incontri del Risorto con i discepoli. «Davanti a queste testimonianze è impossibile interpretare la risurrezione di Cristo al di fuori dell’ordine fisico e non riconoscerla come un avvenimento storico. Risulta dai fatti che la fede dei discepoli è stata sottoposta alla prova radicale della passione e della morte in croce del loro Maestro da lui stesso preannunziata. Lo sbigottimento provocato dalla passione fu così grande che i discepoli (almeno alcuni di loro) non credettero subito alla notizia della risurrezione. Lungi dal presentarci una comunità presa da una esaltazione mistica, i Vangeli ci presentano i discepoli smarriti e spaventati […]. Anche messi davanti alla realtà di Gesù risuscitato, i discepoli dubitano ancora, tanto la cosa appare loro impossibile: credono di vedere un fantasma. […]. Per questo l’ipotesi secondo cui la risurrezione sarebbe stata un “prodotto” della fede (o della credulità) degli Apostoli non ha fondamento. Al contrario, la loro fede nella risurrezione è nata — sotto l’azione della grazia divina — dall’esperienza diretta della realtà di Gesù risorto» (7). Pur essendo un avvenimento storico, «la risurrezione di Cristo è oggetto di fede in quanto è un intervento trascendente di Dio stesso nella creazione e nella storia» (8).
Con la sua risurrezione dalla morte Gesù «ha dato la prova definitiva, che aveva promesso, della sua autorità divina» (9). Gli Apostoli, «avendo conosciuto, nella fede, chi è Gesù, hanno potuto scorgere e fare scorgere in tutta la sua vita terrena le tracce del suo mistero»: «Ciò che era visibile nella sua vita terrena condusse al mistero invisibile della sua filiazione divina e della sua missione redentrice» (10). E compresero che la risurrezione del Maestro non era del tipo delle risurrezioni da lui miracolosamente operate, nelle quali persone ordinarie erano state restituite alla vita terrena ordinaria e che poi, comunque, sarebbero morte. Compresero che «la risurrezione di Cristo è essenzialmente diversa», perché Gesù «nel suo corpo risuscitato passa dallo stato di morte ad un’altra vita al di là del tempo e dello spazio» e «partecipa alla vita divina nello stato della sua gloria» (11).
Alcune osservazioni
«La rianimazione, o la trasformazione subitanea d’un corpo realmente morto, in qualche cosa che non sarebbe né del tutto materiale né ancora tutto spirituale, importerebbe la violazione delle leggi più sicuramente note fisiche, chimiche, fisiologiche. Qualunque più strampalata ipotesi sarebbe preferibile alla testimonianza, fosse magari cinquanta volte più solida di quella che è» (12). Sono parole di un vecchio razionalista che la dicono lunga sulle spiegazioni finanche grottesche escogitate per negare l’evento pasquale, da Woolston a Reimarus, da Strauss a Weiss a Renan, da Le Roy ad Harnack, da Goguel a Guignebert. Non è mancato neppure chi ha attribuito all’apostolo Paolo la creazione del presunto mito della risurrezione di Gesù (13).
Tra le spiegazioni arbitrarie emerge quella che insiste sulle allucinazioni dovute all’autosuggestione o all’esaltazione derivante dalla fede. Di essa fa memoria anche il Catechismo (14), e non a caso. È, infatti, una soluzione proposta anche da autori contemporanei e, in generale, da quasi tutti coloro che tentano di forzare i documenti neotestamentari. Senonché, questi presentano gli Apostoli come uomini molto positivi, niente affatto disposti al misticismo e all’isteria, gente solida, semplice e poco colta. Già orientati a una concezione materiale, politica e nazionalistica del Regno di Dio, avevano subìto il trauma della fine umiliante del Maestro, non pensavano a nessuna risurrezione, erano occupati soltanto a difendersi dalle ire dei capi del popolo. Aspettavano tanto poco la risurrezione che, al suo annuncio da parte delle donne, anziché esaltarsi, non credettero alla loro esperienza e quasi le disprezzavano. Uno di loro lasciò addirittura il gruppo, vinto dalla sfiducia, e si arrese soltanto all’evidenza. Le apparizioni del Risorto si verificano molte volte, in circostanze diverse, in ambienti chiusi e all’aperto, solitamente di giorno, in regioni tra loro distanti. E soltanto per 40 giorni, dopo i quali cessano del tutto e per tutti.
Sono dati che non si possono conciliare con il ricorso ad allucinazioni ed esaltazioni di carattere isterico e mistico. Ma a fugare ogni dubbio può bastare un’altra considerazione. Era impossibile che un mito si formasse immediatamente dopo la morte in croce, una morte infamante, di Gesù. Dopo solo venti o trenta anni dalla morte di Gesù furono scritte numerose testimonianze attestanti la fede nella risurrezione e la costante relativa predicazione apostolica. Se si fosse trattato di un mito, gli avversari di Gesù e della Chiesa nascente non avrebbero esitato a denunciare il fanatismo e la frode perpetrata dagli Apostoli.
Sono dati di fatto, dicevamo, e perciò il Sequeri sostiene che, pur concedendo che una verità storica non è la verità in senso pieno, essa rimane sempre una realtà accaduta e, come tale, è più di un’ipotesi o di un’interpretazione, è un dato incontrovertibile. Dunque, la risurrezione di Gesù è una verità vera, anche se si colloca all’interno della fede. A questa posizione cristiana si oppone quella del Severino. Egli è disposto ad ammettere la storicità della risurrezione e capisce che essa è per i credenti un motivo per credere alla divinità di Gesù, ma non riconosce a questa o altra verità storica la nota dell’incontrovertibilità assoluta che è propria della verità in sé. Inoltre, l’incontro dei discepoli con il Risorto, che è una verità non incontrovertibile, è per il filosofo legato al linguaggio degli stessi discepoli che raccontano quell’incontro: e che essi abbiano testimoniato della loro esperienza, è soltanto congettura storica o fede, non verità assoluta.
Il confronto resta aperto. Ci sembra positivo che il Severino non accolga, anzi forse respinga, qualcuna delle più rozze obiezioni scientiste. Ci sembra altresì positiva la sua insistenza sulla risurrezione di Gesù come un dato indiscutibile soltanto per chi ha fede (anche se la fede riconosce il fatto, che ha una sua oggettività); la sua affermazione che una verità storica, con l’incertezza che la caratterizza, può essere assunta come semplice motivo di credibilità di una certezza di fede che ha tuttavia in se stessa il suo fondamento. Notiamo però che se la distinzione tra verità indiscutibile e assoluta e verità sempre incerta si applicasse a qualsiasi verità di ordine storico, se alla sua luce si esaminassero i documenti storici del passato (per i quali la tradizione del testo è non rare volte tanto meno sicura di quella dei Vangeli), gli uomini avrebbero oggi ben poche certezze sugli eventi e sui personaggi della loro storia e sarebbe resa impossibile la stessa scienza storica.
Un esempio. Gli studiosi che hanno analizzato il racconto evangelico del processo di Gesù, dal punto di vista storico-esegetico e da quello del diritto processuale, si sono previamente posti il problema della veridicità storica della narrazione: la preistoria del testo, la sua formazione, integrità e datazione. Il risultato conclude alla fiducia che gli evangelisti meritano. Anche supponendo il fine catechetico-teologico dei loro scritti, si osserva che la volontà di sottolineare la concidenza tra i fatti della Passione e le prefigurazioni messianiche non ha turbato la narrazione dei fatti, peraltro condotta con una stupenda povertà di tratti «edificanti». Inoltre la procedura applicata in quel processo e ricordata nei Vangeli è del tutto conforme alle regole giudiziarie abituali dell’epoca. Le fonti documentarie testimoniano che i loro autori, pur mossi da un proprio fine teologico, non hanno voluto offendere la verità storica (15).
Ora, le stesse fonti narrano, con la stessa autorevolezza e lo stesso grado di informazione, la risurrezione di Gesù. Giuseppe Ricciotti, a proposito del rifiuto di tale evento da parte di quanti negano il soprannaturale, faceva notare che «questi negatori si mostrano logici, dati i princìpi filosofici da cui essi partono: ma l’importanza è di mettere bene in rilievo ch’essi sono determinati alla negazione solo e unicamente da quei principii filosofici, non già da deficienze o dubbiezze di documenti. I documenti in realtà esistono, e provengono dagli stessi informatori di prima: ma poiché qui più che mai essi contraddicono a quei principii, i documenti dovranno essere “interpretati” alla luce dei principii, ossia subordinati a questi» (16).
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(1) Cfr E. SEVERINO, «La risurrezione non è la prova di Dio», in Corriere della Sera, 30 luglio 2002, 27; P. SEQUERI, «L’azzardo della fede oltre la prassi», ivi, 3 agosto 2002, 29; M. GRONCHI, «L’invincibile bisogno di non morire mai», ivi, 7 agosto 2002, 29; E. SEVERINO, «Ma la pura fede non può esistere», ivi, 14 agosto 2002, 31.
(2) Cfr S. MORAVIA, Filosofia, vol. III, Firenze, Le Monnier, 1990, 616 s.
(3) Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 639.
(4) Ivi, n. 642.
(5) Cfr ivi, n. 170 s.
(6) Ivi, n. 647.
(7) Ivi, n. 643 s.
(8) Ivi, n. 648.
(9) Ivi, n. 651.
(10) Ivi, n. 515.
(11) Ivi, n. 646.
(12) Citato in L. DE GRANDMAISON, Gesù Cristo, Brescia, Morcelliana, 19443, 368.
(13) Cfr L. M. HARTMANN – G. KROMAYER, Storia romana, vol. II, Firenze, Vallecchi, 1952 (5), 61.
(14) Cfr nota 7.
(15) Cfr J. IMBERT, Le procès de Jésus, Paris, PUF, 1980, 7-17; 123-125; P. PAJARDI, Il processo di Gesù, Milano, Giuffrè, 1994, 21-45.
(16) G. RICCIOTTI, Vita di Gesù Cristo, Milano, Mondadori, 1989 (19411), 700.