|
Nel mese di maggio 2015 la Santa Sede in diverse occasioni ha trattato in modo specifico il tema della Palestina e dei palestinesi. Il 13 maggio, la Santa Sede ha annunciato che l’accordo globale con «lo Stato di Palestina» stava per essere presentato alle rispettive autorità per l’approvazione e la firma, dopo che i negoziati bilaterali tra le due parti avevano raggiunto il loro obiettivo. Il 16 maggio, il presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha fatto visita a Papa Francesco ed è stato ricevuto come capo di Stato. Il 17 maggio 2015, Papa Francesco ha canonizzato i primi due santi palestinesi dei tempi moderni, la carmelitana Maria di Gesù Crocifisso (Mariam Bawardi) e Marie-Alphonsine Ghattas, fondatrice delle Suore del Rosario.
Alcuni hanno gioito con i palestinesi, interpretando questi passi come un importante progresso nel riconoscimento della loro sofferenza e dei loro legittimi diritti. Altri sono rimasti preoccupati per le conseguenze che questi eventi potrebbero avere sulle relazioni con lo Stato d’Israele e per le implicazioni riguardo al dialogo con gli ebrei. È importante inquadrare gli eventi recenti in una prospettiva storica, comprendendo lo sviluppo della posizione della Chiesa cattolica sul conflitto israelo-palestinese, che essa stessa segue attentamente da decenni.
La posizione della Santa Sede dal Vaticano II a Giovanni Paolo II
Dopo il 1948, la Santa Sede ha espresso ripetutamente profonda preoccupazione sia per lo stato dei Luoghi Santi, sia per il destino dei cristiani palestinesi, molti dei quali hanno perso la casa lottando a fianco dei loro connazionali musulmani nella prima guerra arabo-israeliana del 1948. Quando Papa Paolo VI visitò la Terra Santa nel 1964, incontrando le autorità politiche sia israeliane sia giordane, non fece esplicita menzione dello Stato di Israele o dei palestinesi. Fu il Concilio Vaticano II a inaugurare una nuova era di dialogo con gli ebrei, con la Dichiarazione Nostra aetate, in cui si dice che «la Chiesa, che condanna tutte le persecuzioni contro qualsiasi uomo, memore del patrimonio comune con gli Ebrei, e mossa non da motivi politici, ma da religiosa carità evangelica, deplora gli odi, le persecuzioni, le manifestazioni di antisemitismo dirette contro gli Ebrei in ogni tempo e da chiunque» (n. 4; corsivo nostro). Il documento non faceva riferimento alle realtà politiche contemporanee in Terra Santa.
Non appena il dialogo con il popolo ebraico cominciò a svilupparsi, gli ebrei chiesero insistentemente alla Chiesa di riconoscere lo Stato di Israele. Tuttavia la Chiesa sottolineò che, seppure risulti acquisito «il vincolo religioso che affonda le sue radici nella tradizione biblica», i cattolici non devono fare «propria una interpretazione religiosa particolare di tale relazione». «Per quanto si riferisce all’esistenza dello Stato di Israele e alle sue scelte politiche, esse vanno viste in un’ottica che non è di per sé religiosa, ma che si richiama ai princìpi comuni del diritto internazionale»[1].
Fu Paolo VI il primo Papa ad affermare in modo esplicito che i palestinesi erano un popolo, piuttosto che un semplice gruppo di rifugiati. Nel 1975, durante il suo messaggio di Natale, disse: «Benché coscienti della tragedia ancora recente che ha condotto il popolo ebraico a cercare una protezione sicura in un suo Stato sovrano e indipendente, noi vorremmo chiedere ai figli di questo popolo di riconoscere i diritti e le aspirazioni legittime di un altro popolo che ha anch’esso sofferto per lungo tempo, il popolo palestinese».
Nel 1987, Papa Giovanni Paolo II nominò per la prima volta un arabo palestinese come Patriarca latino di Gerusalemme, la più alta autorità cattolica in Terra Santa. Il Patriarca Michel Sabbah divenne una voce schietta, all’interno della Chiesa, nel proclamare le ingiustizie che il suo popolo aveva sofferto per la continua occupazione, da parte dello Stato d’Israele, delle terre palestinesi. In una lettera pastorale del 1993, egli scrisse: «Dobbiamo forse essere vittime della nostra stessa storia della salvezza, che sembra privilegiare il popolo ebraico e condannare noi? È proprio questa la volontà di Dio, alla quale dovremmo piegarci inesorabilmente, senza appello e senza discussione, e che ci chiederebbe di lasciare tutto a favore di un altro popolo?»[2].
Sotto la guida di Sabbah, la Chiesa locale in Terra Santa ha parlato in modo forte e chiaro dei problemi dell’occupazione del territorio palestinese e della discriminazione nei confronti dei cittadini arabi nello Stato di Israele. Inoltre si è reso evidente come i cattolici fossero divisi nelle loro posizioni: alcuni, ricordando la tragedia catastrofica della Shoah, avevano maggiore comprensione per gli ebrei ed esprimevano solidarietà con Israele, mentre altri hanno evidenziato l’ingiustizia fino a quel momento inflitta ai palestinesi e la necessità di riconoscere i loro diritti. La Chiesa ha continuato a riflettere e a formulare un discorso che potesse rimanere fedele al percorso di riconciliazione e di dialogo con gli ebrei, e nello stesso tempo promuovere la giustizia per i palestinesi.
Papa Giovanni Paolo II, nel 1987, ricevette in udienza privata il presidente Yasser Arafat, capo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp). Nei primi anni Novanta, l’inizio del processo di pace tra israeliani e palestinesi fece sì che la Santa Sede stabilisse relazioni sia con lo Stato di Israele (nel 1993), sia con l’Olp (nel 1994). Sembrava quindi che il conflitto stesse per finire e che presto le due parti si sarebbero accordate sui confini permanenti — e riconosciuti a livello internazionale — dei due Stati, Israele e Palestina. Purtroppo le cose non andarono così.
Accordo fondamentale tra Santa Sede e Stato d’Israele
In occasione della firma dell’Accordo fondamentale tra la Santa Sede e lo Stato di Israele, nel 1993[3], il documento, pur sottolineando il nuovo rapporto tra la Chiesa e il popolo ebraico, affermava chiaramente che la Chiesa non accettava alcuna interpretazione religiosa riguardo alle pretese territoriali: «La Santa Sede, fatto salvo in ogni caso il diritto a esercitare il proprio magistero morale e spirituale, ritiene opportuno richiamare che, a motivo del suo stesso carattere, è solennemente impegnata a rimanere estranea a qualsiasi conflitto puramente temporale; tale principio è valido in particolare per i territori disputati e le frontiere non definite»[4].
Prima che le speranze per una soluzione del conflitto israelo-palestinese fossero ancora una volta deluse, con l’ingresso del primo ministro Ariel Sharon nella Spianata delle Moschee e l’inizio della seconda Intifada nel settembre 2000, un accordo di base fu firmato dalla Santa Sede e dall’Olp nel febbraio 2000. L’accordo richiamava a una pacifica soluzione del conflitto Palestinese-Israeliano, che avrebbe dovuto «realizzare i legittimi e inalienabili diritti e le aspirazioni del Popolo Palestinese, e assicurare a tutta la popolazione della regione pace e sicurezza sulla base del diritto internazionale, delle risoluzioni delle Nazioni Unite e del suo Consiglio di Sicurezza e dei principi di giustizia e di equità»[5].
Nel marzo 2000, la visita di Giovanni Paolo II in Terra Santa fu pionieristica, in quanto furono messi in atto gesti che sarebbero state poi ripetuti dai Pontefici successivi. Giovanni Paolo II era desideroso di esprimere i grandi risultati raggiunti nel dialogo con gli ebrei, frutto della Nostra aetate, senza dimenticare la preoccupazione della Chiesa per i palestinesi e l’impegno a lavorare per la giustizia e la pace. Il Papa non visitò soltanto i leader israeliani e palestinesi, i santuari ebrei e musulmani, ma andò anche a Yad Vashem, il monumento che commemorava le vittime della Shoah, e al campo profughi di Aida, dove i palestinesi soffrivano dal 1948.
Al suo arrivo a Betlemme, Giovanni Paolo II disse: «La Santa Sede ha sempre riconosciuto che il popolo palestinese ha il diritto naturale ad avere una patria e il diritto a poter vivere in pace e tranquillità con gli altri popoli di quest’area. A livello internazionale, i miei Predecessori ed io abbiamo ripetutamente proclamato che non si sarebbe potuto porre fine al triste conflitto in Terra Santa senza salde garanzie per i diritti di tutti i popoli coinvolti, sulla base della legge internazionale e delle importanti risoluzioni e dichiarazioni delle Nazioni Unite»[6].
Papa Benedetto XVI, durante la sua visita nel 2009, ha sviluppato ulteriormente e chiarificato concettualmente la dottrina della Chiesa sul conflitto che affligge la Terra Santa da quasi sette decenni. In modo fermo, ha evocato di nuovo la vocazione della Chiesa a costruire ponti piuttosto che muri. Ha affrontato in modo diretto la desolante realtà della Terra Santa, dove i muri risaltano più dei ponti, ed ha affermato: «Sia universalmente riconosciuto che lo Stato di Israele ha il diritto di esistere e di godere pace e sicurezza entro confini internazionalmente riconosciuti. Sia ugualmente riconosciuto che il Popolo palestinese ha il diritto a una patria indipendente sovrana, a vivere con dignità e a viaggiare liberamente. La “soluzione di due Stati” diventi realtà e non rimanga un sogno»[7].
Papa Francesco, seguendo le orme dei suoi predecessori, è andato in Terra Santa nel maggio 2014. Nel suo discorso al presidente palestinese Abbas, ha ribadito ancora una volta la posizione della Santa Sede: «Nel manifestare la mia vicinanza a quanti soffrono maggiormente le conseguenze di tale conflitto, vorrei dire dal profondo del mio cuore che è ora di porre fine a questa situazione, che diventa sempre più inaccettabile, e ciò per il bene di tutti. Si raddoppino dunque gli sforzi e le iniziative volte a creare le condizioni di una pace stabile, basata sulla giustizia, sul riconoscimento dei diritti di ciascuno e sulla reciproca sicurezza. È giunto il momento per tutti di avere il coraggio della generosità e della creatività al servizio del bene, il coraggio della pace, che poggia sul riconoscimento da parte di tutti del diritto di due Stati ad esistere e a godere di pace e sicurezza entro confini internazionalmente riconosciuti»[8].
Quella stessa sera, all’aeroporto Ben Gurion, ha ripetuto le medesime parole nel discorso ai leader israeliani: «Pertanto rinnovo l’appello che da questo luogo rivolse Benedetto XVI: sia universalmente riconosciuto che lo Stato d’Israele ha il diritto di esistere e di godere pace e sicurezza entro confini internazionalmente riconosciuti. Sia ugualmente riconosciuto che il Popolo palestinese ha il diritto ad una patria sovrana, a vivere con dignità e a viaggiare liberamente. La “soluzione di due Stati” diventi realtà e non rimanga un sogno»[9].
A Betlemme, Papa Francesco ha guadagnato i titoli di testa della stampa, quando ha fatto riferimento al Paese che lo ospitava come allo «Stato di Palestina», piuttosto che riferirsi ad esso semplicemente come al «Popolo palestinese». Rivolgendosi al presidente Abbas, ha detto: «Il recente incontro in Vaticano con Lei e la mia odierna presenza in Palestina attestano le buone relazioni esistenti tra la Santa Sede e lo Stato di Palestina, che mi auguro possano ulteriormente incrementarsi per il bene di tutti»[10].
Tuttavia questa non era una novità, ma piuttosto una conseguenza del sostegno dato dalla Santa Sede alla decisione, del 29 novembre 2012, delle Nazioni Unite di ammettere «lo Stato di Palestina» come membro osservatore. L’espressione «Stato di Palestina» è apparsa anche nei comunicati della Commissione bilaterale tra la Santa Sede e lo Stato di Palestina.
Accordo globale tra Santa Sede e Stato di Palestina
Questo accordo globale, che attende la ratifica, riguarda la vita e l’attività della Chiesa cattolica nel territorio della Palestina. In un’intervista all’Osservatore Romano del 14 maggio 2015, mons. Antoine Camilleri, sotto-segretario per i Rapporti con gli Stati e capo della delegazione della Santa Sede nella Commissione bilaterale, ha spiegato: «Il testo ha un preambolo e un primo capitolo sui princìpi e le norme fondamentali che sono la cornice in cui si svolge la collaborazione tra le parti. In essi si esprime, ad esempio, l’auspicio per una soluzione della questione palestinese e del conflitto tra israeliani e palestinesi nell’ambito della Two-State Solution e delle risoluzioni della comunità internazionale, rinviando a un’intesa tra le parti. Segue un secondo importante capitolo sulla libertà religiosa e di coscienza, molto elaborato e dettagliato. Ci sono poi altri capitoli su diversi aspetti della vita e dell’attività della Chiesa nei Territori palestinesi: la sua libertà di azione, il suo personale e la sua giurisdizione, lo statuto personale, i luoghi di culto, l’attività sociale e caritativa, i mezzi di comunicazione sociale. Un capitolo è infine dedicato alle questioni fiscali e di proprietà. Insomma, diversi aspetti dell’attività della Chiesa»[11].
In questa importante intervista, mons. Camilleri ha anche indicato il parallelo sviluppo dei negoziati con lo Stato di Israele: «I negoziati con lo Stato di Israele hanno avuto uno sviluppo significativo a partire dal luglio 1992 e dalla costituzione, anche in questo caso, di una commissione bilaterale di lavoro tra le parti. Questa ha portato all’elaborazione e alla successiva firma dell’accordo fondamentale tra le parti nel dicembre 1993, cui è seguito lo stabilimento delle relazioni diplomatiche nel giugno 1994. In esso erano previste ulteriori intese per affrontare alcune questioni concrete. C’è stato poi un Accordo sulla personalità giuridica delle istituzioni cattoliche (Legal Personality Agreement), firmato nel novembre 1997. E poi, dal marzo 1999, sono in corso i negoziati in vista della conclusione del cosiddetto Accordo economico, che è quasi pronto e che mi auguro possa essere presto firmato a beneficio di ambo le parti. Trattandosi di diverse questioni tecniche piuttosto dettagliate, nelle quali sono implicati diversi dicasteri, le trattative hanno preso più tempo del previsto, anche perché a volte i lavori sono stati rallentati da altri fattori»[12].
Mons. Camilleri ha messo in risalto il contesto storico in cui si è sviluppato il supporto della Chiesa alla «soluzione di due Stati». Ha sottolineato che la risoluzione 181, del 29 novembre 1947, dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite «prevedeva la creazione di due Stati, di cui finora uno solo ha visto la luce». Ha spiegato che «il riferimento allo Stato di Palestina e quanto affermato nell’accordo sono dunque in continuità con quella che è stata allora la posizione della Santa Sede». Ha anche detto che la Santa Sede auspica che questi progressi nei rapporti bilaterali possano «in qualche modo aiutare i palestinesi nel vedere stabilito e riconosciuto uno Stato della Palestina indipendente, sovrano e democratico che viva in pace e sicurezza con Israele e i suoi vicini, nello stesso tempo incoraggiando in qualche modo la comunità internazionale, in particolare le parti più direttamente interessate, a intraprendere un’azione più incisiva per contribuire al raggiungimento di una pace duratura e all’auspicata soluzione di due Stati»[13].
La Santa Sede ha messo a punto la sua posizione nel corso degli ultimi decenni, sviluppando un’importante riflessione sul conflitto tra israeliani e palestinesi: una riflessione che tiene conto dell’impegno della Chiesa per la Terra Santa e per i suoi Luoghi Santi, per la comunità cristiana che vive lì, per una comprensione teologica della tradizione biblica, per il dialogo sia con gli ebrei sia con i musulmani e per la missione della Chiesa nel promuovere giustizia e pace. La Chiesa continua a cercare un modo per proclamare i valori evangelici di giustizia e di pace, di riconciliazione e di perdono in Israele e Palestina.
Questo potrebbe davvero essere il momento per far rivivere le parole che Papa Francesco ha pronunciato quando ha ospitato i presidenti Peres e Abbas in Vaticano, nella Pentecoste del 2014: «Per questo siamo qui, perché sappiamo e crediamo che abbiamo bisogno dell’aiuto di Dio. Non rinunciamo alle nostre responsabilità, ma invochiamo Dio come atto di suprema responsabilità, di fronte alle nostre coscienze e di fronte ai nostri popoli. Abbiamo sentito una chiamata, e dobbiamo rispondere: la chiamata a spezzare la spirale dell’odio e della violenza, a spezzarla con una sola parola: “fratello”. Ma per dire questa parola dobbiamo alzare tutti lo sguardo al Cielo, e riconoscerci figli di un solo Padre»[14].
Copyright © La Civiltà Cattolica 2015
Riproduzione riservata
[1]. Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, Note per una corretta presentazione degli ebrei e dell’ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica (24 giugno 1986), VI, 1.
[2]. M. Sabbah, Leggere la Bibbia oggi nella Terra della Bibbia (1° novembre 1993), n. 7.
[3]. Cfr G. Caprile, «La Santa Sede e lo Stato d’Israele», in Civ. Catt. 1991 I 352-360.
[4]. Accordo fondamentale tra la Santa Sede e lo Stato di Israele (30 dicembre 1993), n. 11.
[5]. Accordo fondamentale tra la Santa Sede e l’Organizzazione di Liberazione della Palestina (15 febbraio 2000), Preambolo.
[6]. Giovanni Paolo II, s., Discorso all’arrivo all’eliporto di Betlemme, 22 marzo 2000, n. 2, in www.vatican.va
[7]. Benedetto XVI, Discorso all’aeroporto Ben Gurion, 15 maggio 2009.
[8]. Papa Francesco, Discorso nell’incontro con le autorità palestinesi, Betlemme, 25 maggio 2014.
[9] . Id., Discorso all’aeroporto Ben Gurion, 24 maggio 2014.
[10]. Id., Discorso nell’incontro con le autorità palestinesi, cit.
[11]. «Per il bene di tutta la società della Chiesa. Intervista al sotto-segretario per i Rapporti con gli Stati», in Oss. Rom., 14 maggio 2015, 2.
[12]. Ivi.
[13]. Ivi.
[14]. Papa Francesco, Invocazione per la pace, Giardini Vaticani, 8 giugno 2014, in www.vatican.va