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La poesia tradizionale
Di fronte ai problemi del mondo, e soprattutto a quelli ambientali, ci si potrebbe chiedere chi sia meglio qualificato per mostrare ciò che sta dentro al mondo della Natura, e a quello dell’Uomo, dei poeti di ogni età e nazione. È utile guardare, come fa Prospero nella Tempesta shakespeariana, attraverso «il fosco passato e l’abisso del Tempo», ai poeti tradizionali di ogni epoca.
William Shakespeare appartiene a questa categoria. Il suo genio enigmatico si staglia sopra tutti gli altri, come l’Everest sull’Himalaya, e il suo influsso permane per tutta la poesia seguente. Egli fu definito, dal poeta epico secentesco John Milton, come «il figlio della Fantasia, che cinguetta le sue native note silvestri». Shakespeare, infatti, diversamente dal londinese Milton, era originario delle Midlands inglesi e traeva ispirazione dalla campagna. Da questo punto di vista, gli somigliò un suo omonimo ottocentesco, il famoso poeta romantico William Wordsworth, considerato il paladino sia della Natura sia dell’Infanzia. Abbiamo anche un terzo William, Cowper, anch’egli originario delle Midlands, a nord di Londra.
Due profeti dell’ecologia
Ora, due dei sopracitati poeti della tradizione inglese, per quanto possano apparire all’antica nella nostra epoca postmoderna, spiccano non soltanto come uomini di lettere, ma anche come profeti dell’ecologia; tanto che, se considerati insieme, possono indicarci la via per una soluzione al nostro problema postmoderno. Una via percorribile non solo per politici e scienziati, ma per tutti gli uomini di buona volontà. Dopotutto, quei poeti non sono tecnici del settore, ma, per quanto unici nel dare voce a «ciò che fu spesso pensato ma mai espresso tanto bene»[1], rappresentano l’uomo comune.
Il primo è William Shakespeare. A cominciare dal dramma storico (o piuttosto, come è definito nel frontespizio, la tragedia) di Riccardo II, in una scena del quale il giovane re, appena rientrato da un’inutile spedizione in Irlanda, approda sulla costa inglese (o meglio, gallese), si inginocchia sul nudo suolo e raccoglie una manciata di terra tra le sue mani regali, dicendo: Cara Terra, io ti saluto con la mano […]. Come una madre lontana per lungo tempo gioca scioccamente, nel rivedere il suo bimbo, con lacrime e sorrisi, così piangendo, sorridendo, io saluto te, mia Terra, e ti favorisco con le mie regali mani.
È questo un re un po’ bizzarro, si potrebbe pensare, e poco adatto a governare l’Inghilterra. Infatti egli è anche troppo pronto ad accettare la sconfitta inflittagli dal cugino usurpatore Bolingbroke, presto incoronato come Enrico IV. Si può quasi dire che egli si adatti maggiormente alla nostra epoca che alla propria, in quanto ci svela che l’attuale problema ecologico va affrontato come un rapporto d’amore, non solo verso il prossimo, ma anche verso tutte le «creature, grandi e piccole»[2].
Il Riccardo shakespeariano non è il solo a provare affetto per la terra (affetto che egli certamente condivideva con il suo autore). Dalla figura di quell’antico re possiamo passare al poeta gesuita vittoriano Gerard Manley Hopkins. Anch’egli, infatti, comincia la poesia Ribblesdale (che descrive la valle del fiume Ribble, il quale scorre accanto al seminario gesuita di Stonyhurst) con queste parole: Terra, dolce Terra, dolce paesaggio. E prosegue così la sua lode: Non puoi che essere, e lo sai fare bene. Anche qui, si ha l’impressione di avere a che fare con una personalità quantomeno bizzarra. Non solo Hopkins loda la Terra e il fiume per il loro semplice esistere, ma esprime anche la propria compassione verso entrambi, quasi scusandosi per i problemi creati dall’uomo, che egli definisce dear and dogged, «caro e ostinato». In questo, Hopkins pare riecheggiare il poeta della Natura per eccellenza, il romantico William Wordsworth, il quale lamentava sia «cosa l’Uomo ha fatto dell’Uomo», sia «cosa l’Uomo ha fatto della Natura», nel suo eccessivo concentrarsi su se stesso.
Non è soltanto in Ribblesdale che Hopkins esprime la sua preoccupazione per la Natura. Un giorno, rientrato a Oxford e avviatosi in una delle sue passeggiate preferite lungo il fiume verso Binsey, egli trova che, per qualche strano motivo, i suoi cari pioppi — non pioppi comuni, ma pioppi tremuli — sono stati abbattuti. Ed eleva così il suo lamento: I miei cari pioppi, le cui gabbie ariose attenuavano, / attenuavano o pacavano nelle foglie il sole sobbalzante, / abbattuti, abbattuti, sono abbattuti! È tanto in pena per loro, e per se stesso, da piangere fino a consumarsi, usando parole ispirate a quelle di Macduff quando viene a sapere del terribile eccidio della moglie e dei figlioletti da parte di Macbeth (4.3). Prosegue poi, in termini più generali: O, se solo sapessimo quel che facciamo / quando scaviamo o tranciamo / abbattiamo e straziamo il verde che cresce!
È questo, in breve, il modo in cui gli esseri umani di questa nostra età postmoderna dovrebbero lamentare quello che gli affaristi, con l’aiuto dei loro amici politici e scienziati, hanno fatto del nostro caro pianeta Terra.
Tre drammi di diseredati
Tornando ora a Shakespeare, possiamo vedere che egli si fa profeta dell’ecologia non soltanto in quella fugace battuta del Riccardo II, ma anche in altri tre drammi, come poeta dei diseredati. Quale legame potrà mai esserci tra l’ecologia e la perdita di un’eredità? Ebbene, tra i tanti problemi odierni, non è sufficiente concentrare l’attenzione solo su quello ecologico, ma è necessario ampliare le vedute e considerare anche quello più pressante dei profughi nel mondo degli uomini: problema per cui né i politici, né gli scienziati del nostro mondo hanno ancora trovato una soluzione.
Si trattava di un problema non indifferente anche ai tempi di Shakespeare. Consideriamo allora il Riccardo II. Dopo essere stato formalmente deposto a Westminster Hall, mentre è condotto prigioniero alla Torre di Londra, Riccardo incontra la sua regina in lacrime. Ora che ha perso tutto, le dice: Vai in Francia / e chiuditi in qualche istituto religioso. / Le nostre vite sante devono guadagnarsi la corona di un mondo nuovo (5.1). La menzione di un «mondo nuovo» in un contesto di deposizione e di spoliazione di tutto è posta in interessante contrasto con l’accezione opposta a cui ricorre Lord Fitzwater, proprio durante la deposizione di Riccardo, il quale afferma la sua determinazione a «prosperare in questo mondo nuovo», sotto l’usurpatore Enrico IV (4.1).
Da questo dramma storico, tagliando trasversalmente attraverso la divisione delle tre categorie proposta dai curatori del First Folio[3], passiamo alla commedia Come vi piace, che parla di due nobili fratelli: il duca usurpatore, Federico; e il vecchio duca, violentemente esiliato nella foresta di Arden e privato persino del nome. È costui a presentare ai suoi «allegri compari», nonché al pubblico e ai lettori, un altro (e insieme lo stesso) «mondo nuovo». Egli si rivolge così ai suoi uomini, e al pubblico: Ora, compagni miei, e fratelli d’esilio, noi non risentiamo qui che della pena di Adamo, la differenza delle stagioni. E aggiunge: Dolci sono gli usi delle avversità, che permettono loro di trovare, persino nella foresta e in pieno inverno, lingue negli alberi, libri nei torrenti che scorrono, sermoni nei sassi e del bene in ogni cosa (2.1).
Quando erano nel mondo, anch’essi avevano contato, come Adamo ed Eva dopo la cacciata dall’Eden, sul frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, cioè sulla conoscenza che conduce al potere: conoscenza offerta, ai tempi di Shakespeare, da Francis Bacon e dalla sua scuola. Ora, invece, nella foresta, anche e soprattutto in mezzo alle avversità, essi sono in cammino verso l’altro albero che stava nell’Eden, quello della Vita, vale a dire l’albero della Croce.
Sia il Riccardo II sia Come vi piace preparano lettori e spettatori al terzo, e più importante, dramma di deprivazione, il capolavoro Re Lear. Non sono pochi i critici agnostici, nella piccolezza del loro pregiudizio, che hanno inquadrato — o piuttosto liquidato — quest’opera grandiosa come un tipico esempio di teatro dell’assurdo. Il significato profondo sta, invece, in due deprivazioni: quella con cui quel dispotico vecchio re disereda l’unica figlia buona, Cordelia, in favore della due figlie malvagie; e quella, che da essa deriva, in cui egli è a sua volta privato di tutto.
Come rileva giustamente la crudele Regan, il padre non conosceva se stesso che superficialmente (1.1). Poco dopo, di fronte al comportamento sfrontato dell’altra figlia infedele, Lear chiede: Chi è che può dirmi chi sono io? (1.4). Il seguito del dramma può essere letto come una risposta a questa domanda, a cominciare dall’interiezione del Matto, «l’ombra di Lear», continuando con il momento in cui, nell’infuriare della tempesta, il mendicante matto salta fuori dal suo riparo e dice: L’uomo senza comodità non è altro che un povero, spoglio animale biforcuto come te (3.4).
In particolare, Lear raggiunge la piena conoscenza di sé quando si ritrova faccia a faccia con l’altra metà di se stesso, la buona Cordelia (Coeur de Lear, «Cuore di Lear»). Anche quando, poco dopo, ella viene impiccata in prigione ed egli rientra sul palco portandone il corpo tra le braccia, ciò non è assurdo, bensì si carica di connotazioni religiose, se consideriamo questa scena (come fa il duca di Albany con la sua esclamazione: «O guardate, guardate!») come una replica della figura della Pietà.
La poesia dell’Infanzia
Dalle opere shakespeariane, divenute classici scolastici e non solo in Inghilterra, si può ora passare alle pagine della antologia vittoriana Golden Treasury, straripante di poesie mandate a memoria da generazioni e generazioni di studenti. Tra esse emerge un altro poeta di nome William, il romantico Wordsworth. Tra i suoi numerosi pezzi contenuti nella famosa antologia, un posto di onore spetta alla cosiddetta Ode d’immortalità, o, per darne il titolo completo, Ode sulle intimazioni d’immortalità dai ricordi di prima infanzia.
Dopotutto, Wordsworth è noto per antonomasia non solo come il poeta della Natura, ma anche come il poeta dell’Infanzia. Tra tutti gli esseri umani, egli asserisce, i più vicini alla Natura sono proprio i bambini. Poi, purtroppo, le ombre della prigione cominciano a chiudersi / sul ragazzino in crescita (st. 5). Nella prima strofa, il poeta rimpiange il tempo in cui i prati, il bosco, il ruscello / e ogni spettacolo quotidiano / mi parevano / avvolti da una luce celestiale, / la gloria, la freschezza di un sogno. Egli si rivolge dunque al Bambino più o meno come il re-poeta shakespeariano, Riccardo, si era rivolto alla Terra: Tu, miglior filosofo, che ancora conservi / la tua eredità, tu, occhio tra i ciechi, / che, sordo e silente, leggi l’abisso eterno / pervaso per sempre dalla Mente eterna; e giunge a chiamarlo «Profeta potente!». Che gran poeta, si potrebbe esclamare! Grande almeno quanto il Bambino che egli celebra.
In tutto questo, Wordsworth non è solo: si è infatti ispirato al poeta secentesco Henry Vaughan, che compare anch’egli nel Golden Treasury. Tra i suoi tanti pezzi antologizzati, il più famoso è senz’altro quello intitolato Retreat, incentrato sul desiderio di tornare all’infanzia: Beati quei giorni passati in cui / risplendevo nella mia angelica infanzia! / Prima di comprendere questo luogo / scelto per la mia seconda corsa, / o prima che io stesso insegnassi alla mia anima a desiderare altro / che un bianco pensiero celestiale. Egli manifesta il suo desiderio struggente di tornare indietro / e di nuovo percorrere l’antico sentiero!
È infine doveroso ricordare l’amico e collega poeta di Wordsworth, Samuel Taylor Coleridge, e la sua lunga Ballata del vecchio marinaio, che si conclude con queste parole: Prega bene chi ama molto / sia gli uomini, sia gli uccelli, sia gli animali. / Prega bene chi ama molto / tutte le creature, grandi e piccole, / perché il nostro caro Dio che ci ama / tutto ha creato e tutto ama.
Poesia come teologia
Passiamo ora al Novecento, cominciando dal periodo che T. S. Eliot, nel suo francese unico, chiamò «gli anni dell’entre deux guerres» (East Coker). È in questo periodo, infatti, che si collocano altri due singolari poeti ecologici. Il primo di essi è già stato da noi menzionato come uno dei due profeti dell’ecologia, quello, cioè, che si rivolse alla Terra come «cara e dolce». Ma non è solo alla Terra che Hopkins si rivolge nelle sue opere. Per sua fortuna, egli non riuscì a far pubblicare nemmeno una poesia mentre era in vita, giacché fu soltanto una trentina di anni dopo che il suo amico e compagno di università, Robert Bridges, poeta laureato, riuscì a far uscire la sua opera completa per l’Oxford University Press, nel 1918.
La fortuna di Hopkins sta nel fatto che egli non fu costretto ad adattare il proprio stile alla ristrettezza di vedute di un pubblico vittoriano, ma ebbe il grande vantaggio di trovarsi in una posizione tale da potersi rivolgere a nessun altro che a Dio stesso. Quello che egli definì un sonetto breve, Pied Beauty («Variopinta bellezza»), comincia così: Sia gloria a Dio per tutte le cose maculate!; e termina con: Lodatelo! Era così che tutti gli studenti nelle scuole dei gesuiti dovevano cominciare e finire i temi: con gli acrostici ignaziani AMDG (Ad maiorem Dei gloriam) e LDS (Laus Deo semper).
Il pezzo che apre la raccolta, The Wreck of the Deutschland («Il naufragio del Deutschland») e che ruppe l’autoimposto «eletto silenzio» dell’autore durato sette anni, comincia con una preghiera: Tu che mi dirigi, / Dio! Datore di fiato e di pane, mentre ognuna delle due parti che costituiscono il poemetto si chiude con una dossologia di lode a Dio. Il suo pezzo più frequentemente antologizzato si intitola God’s grandeur («La grandezza di Dio») e comincia con un rimando al Salmo 18/19: Il mondo è carico della grandezza di Dio, continuando con una professione di fede nel fatto che vive la più cara freschezza nella profondità delle creature. Perché? Perché lo Spirito Santo sopra il piegato / mondo aleggia con cuore caldo e con, oh! ali fulgide.
Mentre l’opera hopkinsiana vedeva la luce, appunto nel periodo tra le due guerre, T. S. Eliot cominciava a emergere come il principale poeta-profeta dell’età moderna, soprattutto grazie al famoso poemetto satirico The Waste Land («La terra desolata»), pubblicato, sotto la supervisione dell’amico e collega poeta Ezra Pound, nel 1922. Pochi anni dopo Eliot fu accolto nella Chiesa anglicana, tra i cosiddetti «anglocattolici», dando vita alla sua celebre serie di quattro poemetti meditativi, i Quattro quartetti.
In ognuno di essi il poeta celebra uno dei quattro elementi aristotelici e medievali: l’aria (Burnt Norton, 1935), la terra (East Coker, 1940), l’acqua (Dry Salvages, 1941) e il fuoco (Little Gidding, 1942), guardando indietro, al tempo stesso, a certi fatti e a certi luoghi che la sua mente associava al Seicento e alla nascita, all’interno della Comunione anglicana, della mentalità «anglo-cattolica».
Ma Eliot non è veramente interessato agli eventi e agli uomini del passato, bensì all’eternità, che egli ricerca con insistenza a partire da determinati tempi e luoghi, passando così dal rapporto tra uomo e natura al Dio della natura, in ciò che egli chiamò misticamente «il punto fermo del mondo che gira».
Da una parte, Eliot guardò indietro, a grandi poeti e predicatori del passato del calibro di John Donne e di Lancelot Andrewes; dall’altra, non fu meno interessato a mistici medievali come Giuliana di Norwich e l’anonimo autore della Nube della non conoscenza: con una citazione da ciascuno di essi egli porta l’ultimo dei suoi Quartetti a una conclusione ecologica. Dalle Rivelazioni del divino amore di madre Giuliana prese infatti le parole confortanti di Cristo: Andrà tutto bene e / ogni genere di cosa sarà un bene, mentre dalla Nube prese le parole di invito: Con questo Amore che ci attira e la voce di questa chiamata.
Voci della Natura
Diremo, in conclusione, che non è sufficiente analizzare l’approccio poetico al nostro problema ecologico, né considerare il punto di vista dei poeti a riguardo, per quanto splendidamente essi possano rendere il messaggio della Natura. L’Hopkins di Ribblesdale può benissimo chiedere: E che altro è l’occhio, la lingua, il cuore della terra, e dove, se non nell’uomo caro e ostinato? Lo stesso vale per il filosofo dell’antichità Plotino (ce ne informa Coleridge nella sua Biographia Literaria): «Non è opportuno che tu mi inquieti con continue domande, ma che tu comprenda in silenzio, proprio come me, e lavori senza parlare». Perché c’è un silenzio, nel mondo della Natura, che sarebbe meglio rispettare; ma ci sono anche altre voci, di vario tipo, che sarebbe meglio ascoltare con rispetto.
Innanzitutto, per esempio, c’è il suono del vento tra gli alberi, che risuona nelle orecchie del poeta romantico P. B. Shelley come una lira eolica. Nella sua famosa Ode al vento dell’Ovest, scritta in Toscana, egli prega il vento di trasformarlo nella sua lira eolica, «proprio come lo è il bosco»; parla del «tumulto delle tue potenti armonie», che possono ottenere dalla foresta e da lui stesso, sotto gli alberi, «una profonda melodia autunnale, triste e dolce». C’è poi il vento tempestoso che fischia sulle brughiere dello Yorkshire, come nel famoso romanzo Cime tempestose di Emily Brontë.
Dall’aria possiamo passare al fuoco, mentre crepita e sibila nel camino, avvolgendo il suo combustibile nelle fiamme.
Quanto al suono dell’acqua, esso si può udire nella pioggia che cade «sul luogo sottostante» (come dice Porzia nel Mercante di Venezia shakespeariano). In campagna e soprattutto nei boschi è un suono scrosciante, oppure un allegro ticchettare che si infrange al suolo. Ma gli abitanti delle città non lo notano e, se possono, lo evitano. Quando l’acqua proviene da una sorgente montuosa e scorre nel suo letto tra sassi e rocce, si parla invece di «ruscelli gorgoglianti», la cui acqua è ancora pura prima di entrare nelle valli e di passare accanto ai centri abitati come la Preston di Ribblesdale, per poi finire nel mare e giocare la sua parte nel frangersi delle onde, che il vittoriano Tennyson apostrofa con il suo Break, break, break!
Tutto ciò è ancora a livello degli elementi, ed è necessario ascoltare attentamente per distinguere il suono preciso di ciò che re Lear chiama «pioggia, vento, tuono, fuoco» (come anticipando il giapponese jishin, kaminari, kaji, oyaji, «terremoto, tuono, fuoco, padre»).
Ma se volgiamo l’attenzione dalla vegetazione alla sensazione, e dal mondo vegetale a quello animale, ecco che dal grembo di Madre Natura emerge ogni tipo di suono, a cominciare dalla musica degli insetti. Tra questi, naturalmente, emerge la cicala, il cui verso insistente non è udibile in Inghilterra — se non per i lettori di Virgilio —, ma è molto diffuso in Giappone, e notoriamente tradotto in poesia dal famoso haiku di Matsuo Basho: Shizukasa ya / Iwa ni shimiiru / Semi no koe («Nel silenzio / sprofondando nelle rocce / il grido della cicala»). In Inghilterra, si ha almeno il cri-cri-cri del piccolo grillo domestico.
Dagli insetti che strisciano sulla terra ci innalziamo ora, sulle ali di tutti «gli uccellini che ci sono» — come li chiama Coleridge —, verso il Cielo sopra le nostre teste. Consideriamo specialmente l’allodola, che canta di giorno, e l’usignolo che canta la sera. La prima fu mirabilmente descritta nell’ode di Shelley: Ave a te, o spensierato Spirito! / Uccello non sei mai stata, / tu che dal Cielo, o lì vicino, / riversi la pienezza del tuo cuore / in una profusione / di arte improvvisata. Quanto all’usignolo, è stato descritto non meno mirabilmente da John Keats: Tu silvestre Driade dalle ali leggere / in qualche melodiosa macchia / di verdi faggi e di ombre innumeri, / a piena gola e con agio canti l’estate.
Passiamo ora agli animali della terra, tutti dotati di un loro caratteristico verso, certo ai fini di potersi riconoscere tra loro, oltre che per potersi accoppiare due a due come nell’arca di Noè. Tra essi facciamo un’ultima distinzione: quella tra gli animali della giungla, che solitamente devono proteggersi dai predatori, e gli animali che vivono al sicuro nella «Vecchia Fattoria», con il verso del gallo e della gallina, dell’oca e dell’anatra, del corvo e del passero, del cane e del gatto, dell’asino e del cavallo, della pecora, della mucca e del maiale. Tutte quelle voci vanno ad accrescere quello che il poeta secentesco Henry Vaughan chiamò «il gran rintocco e sinfonia della Natura», lodando il grande Creatore.
E che dire degli esseri umani? Non hanno anch’essi un posto nella sinfonia pastorale? Non potrebbero fare da coro, come in un grande oratorio, se solo aprissero gli occhi e le orecchie e il cuore, in quella che è l’unica soluzione al grande problema ecologico?
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[1]. A. Pope, An Essay on Criticism, London, Lewis, 1711, v. 298.
[2]. S. T. Coleridge, The Rime of the Ancient Mariner, v. 615.
[3]. L’edizione principe dei drammi shakespeariani, del 1623.