
All’interno della comunità cattolica, negli ultimi anni, c’è stato un vivace dibattito attorno al quesito se i cristiani debbano sempre preferire risposte non violente alle ingiustizie, o se piuttosto la reazione armata sia talvolta una maniera legittima di reagire a gravi torti subiti. In questo dibattito, da un lato si pongono coloro che nella non violenza vedono un’esigenza del discepolato cristiano; dall’altro, si schierano quanti continuano a sostenere quel concetto di «guerra giusta» che è stato centrale nella tradizione cattolica fin dai tempi di sant’Agostino. Ne derivano importanti questioni politiche e teologiche.
Alla base del dibattito ci sono gli interrogativi sull’effettiva efficacia della non violenza nel resistere all’ingiustizia. Gli atti non violenti possono assicurare la pace e la giustizia che si propongono? Possono farlo con successo in qualsiasi circostanza? Oppure, purtroppo, per ottenere la giustizia in modo efficace è talvolta necessario fare ricorso alla forza?
A dire il vero, in questa discussione l’efficacia della resistenza non violenta all’ingiustizia non è l’unica preoccupazione: sono in ballo anche importanti questioni teologiche ed etiche. Dalla Bibbia apprendiamo l’importanza, per una vita cristiana autentica, di evitare il ricorso alla violenza. Il comandamento biblico «Non uccidere» vincola tutti i cristiani, e anzi tutti gli uomini, cristiani o
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