
Il presidente siriano Bashar al Assad, dopo 12 anni di isolamento dalla scena politica internazionale, è stato riammesso, con qualche perplessità, tra i 22 Paesi della Lega araba. Essa, come molte organizzazioni internazionali di questo tipo – tra le quali anche l’Onu –, ha un grande valore simbolico e morale: esserne esclusi rappresenta una condanna. La riammissione di Assad nella Lega coincide con la sua riabilitazione politica, almeno per gran parte dei Paesi arabi, che in tal modo ne riconoscono (implicitamente) anche la vittoria nella lunga e sanguinosa guerra civile che ha devastato il Paese a partire dal 2011 e che in realtà non è ancora conclusa.
È noto che Assad, per mantenersi al potere, in questi anni ha usato metodi brutali. Più di 300.000 cittadini siriani sono morti a causa di attacchi con missili e armi chimiche (come denunciato da inchieste delle Nazioni Unite). Inoltre, l’apparato di sicurezza siriano in questi anni ha catturato decine di migliaia di dissidenti politici, che non erano terroristi. Tutto questo è stato portato avanti metodicamente con l’aiuto degli alleati iraniani e, a partire dal 2015, dei russi, che in Siria hanno sperimentato i metodi di guerra più distruttivi[1].
Il ritorno in scena del
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