Quando un musicista ride, depone il suo strumento e ride, e non si guarda in giro / e non teme, non ha paura della sua semplicità: è un verso di una canzone di Enzo Jannacci che svela parte del suo carattere. Il cantautore milanese, infatti, ha saputo cogliere il lato drammatico della vita, cantandolo con compassione e allegria, custodendolo in un involucro fatto di surrealismo e genialità. Le sue canzoni sono pervase da un sorriso, capace di camuffarsi in risata, che proviene da un contemplare il mondo con la semplicità e l’umiltà di chi ne ha compreso il peso e la gravità, ma lo vuole raccontare in un modo diverso, ironico, sorridente.
Nato nel 1935 a Milano e venuto a mancare 10 anni fa, il 29 marzo 2013, Jannacci ha attraversato, con le sue canzoni dalle influenze jazz, cantautoriali e rock, la scena musicale dalla seconda metà del Novecento agli inizi del nostro secolo. Musicista, cabarettista, pianista, ma anche cardiologo, è riuscito a coniugare la passione per la musica e il lavoro di medico per tutta la vita.
Le canzoni sono fortemente legate al suo luogo di provenienza e all’influenza che ha avuto su di lui il padre Giuseppe, maresciallo dell’Aeronautica militare italiana, che partecipò alla Resistenza durante la Seconda guerra mondiale. Infatti Milano, città amata, compare sin dagli esordi, con il primo album intitolato La Milano di Enzo Jannacci (1964), in cui figurano brani come «Andava a Rogoredo», ma soprattutto in quel dialetto lombardo che accompagnerà sempre molte delle sue canzoni, come le celebri «El portava i scarp del tennis», «Ho visto un re» e «Faceva il palo».
E mentre canta e si esibisce, Jannacci si forma come medico cardiologo, studiando medicina all’Università di Milano, specializzandosi in chirurgia generale, seguendo in Sudafrica il famoso cardiochirurgo Christiaan Barnard e successivamente svolgendo l’attività di medico di famiglia. In realtà, Jannacci ha sempre praticato entrambe le attività, quella artistica e quella medica, con la stessa prospettiva: la vicinanza all’essere umano e alla sua condizione umana.
Così in alcune interviste possiamo leggere: «Ho fatto il medico perché mio padre voleva che imparassi cos’è la sofferenza e a star vicino alla gente»[1]; «Come se per decenni avessi creato e cantato personaggi pieni di poesia, senza rendermi pienamente conto che stavo portando a galla l’anima profonda di questo Paese. Vedi, non erano invenzioni, erano persone vere, erano i poveri diavoli d’Italia. I poveri diavoli sono
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