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Per Charles Taylor[1], uno dei più importanti intellettuali cattolici contemporanei, la migliore descrizione della realtà culturale odierna passa attraverso l’«autenticità»: si tratta di una vera «cultura dell’autenticità». Con questo termine il filosofo intende la ricerca dell’autorealizzazione personale che, a sua volta, è sorretta dal principio soggettivo dell’essere fedeli a ciò che sinceramente si sente. Dietro questa ricerca si staglia l’ideale morale della «veridicità verso se stessi». Questo ideale, afferma Taylor, non si definisce «in funzione di ciò che desideriamo o di cui abbiamo bisogno, ma offre uno schema di ciò che dovremmo desiderare»[2].
Come conseguenza di ciò si può affermare che, per quanto degradata o camuffata possa essere la ricerca del soggetto immerso in tale cultura (relativismo, individualismo, narcisismo, autoreferenzialità ecc.), l’autenticità poggia su una forza morale che non è compresa né identificata dagli argomenti che la spogliano della sua dignità o la difendono acriticamente o cercano un compromesso saggiamente equilibrato.
Di fronte a questo panorama dell’autenticità con le sue deviazioni, Taylor propone un lavoro di recupero (retrieval), attraverso cui l’ideale morale, sul quale poggia l’«autenticità», possa contribuire al rinnovamento della vita pratica, sociale e politica. Il che implica che l’autenticità inneschi esigenze, oppure sia controproducente.
La vita di fede si trova immersa in questa cultura dell’autenticità. Non è immunizzata rispetto alla cultura, e nemmeno in quarantena. Ciò significa che anch’essa può degradarsi o camuffarsi, disinteressandosi di ogni impegno sociale, vale a dire che può voltare le spalle alla storia in cui è chiamata a essere lievito di liberazione. In altre parole, la fede vissuta e praticata corre il rischio di perdere efficacia e rilevanza sociale e politica.
La riflessione teologica è chiamata a mettere in risalto la relazione tra fede cristiana e impegno nella trasformazione della storia, in modo che la storia diventi un vero e proprio «luogo teologico»: «La prassi sociale si trasforma, gradualmente, nel luogo stesso in cui il cristiano mette in gioco – con altri – il suo destino di uomo e la sua fede nel Signore della storia»[3]. Questo impegno cristiano nella storia ha significato, e significa, entrare e partecipare ovunque vengano difese la vita e la dignità della persona e ovunque il diritto venga reclamato come garanzia di una vita dignitosa[4].
L’impegno nella storia è conseguenza della lettura della parola di Dio – rivolta a noi oggi – alla luce della fede, aiutata dalle discipline che le svelano il passato e le spiegano il presente[5]. Se la parola di Dio si rivolge a noi oggi, ha necessariamente qualcosa da dire alla situazione concreta che viviamo come individui e come società. Quella Parola trasmette un messaggio liberatore rispetto a qualsiasi tipo di dipendenza che riduca o sfiguri l’«immagine e somiglianza» con Dio. È una Parola che cerca di cambiare la realtà, vuole trasformare la morte in vita, la fame in abbondanza, la malattia in salute, la guerra in pace, la prigione in libertà, l’oscurità in luce, il dubbio in fede, la tristezza in gioia. Questa è l’esperienza riportata dalle belle espressioni della preghiera attribuita a san Francesco d’Assisi, nella quale si chiede di essere strumento di ciò che quella parola di Dio cerca di stabilire.
La parola di Dio è una parola pratica, che non torna a Dio senza aver prima operato ciò che desidera (cfr Is 55,10-11). La vita di fede ne è fecondata: germoglia e cresce quando si lascia permeare da essa e accetta la sfida storica di impegnarsi in ogni tipo di lotta per l’umanizzazione del mondo. È proprio questo tipo di impegno con la storia che la «cultura dell’autenticità» sembra mettere a repentaglio.
Accogliamo la riflessione di Taylor come una provocazione per la teologia. Intendiamo «provocazione» nel senso di stimolo o di aiuto o, se si vuole, di pretesto per pensare la fede a partire dal suo contesto, per individuare le sfide e indicare i percorsi da seguire sulla base di una riflessione teologica che alimenta la vita di fede e se ne alimenta. La nostra domanda è se sia possibile, a partire dall’esperienza di fede dell’autenticità, condurre una fruttuosa riflessione teologica che aiuti a rinnovare la vita pratica, valendosi delle esigenze della fede che cerca di incarnare i valori del Regno.
Se riconosciamo, con Taylor, che l’«autenticità» è fondata e motivata da ideali morali, è possibile e urgente sviluppare una riflessione teologica sulla «fede dell’autenticità» per recuperare l’esigenza pratica della fede e contrastare un certo «spiritualismo» che, sotto sotto e nascondendosi dietro una parvenza di ortodossia, rivela un’«avversione per la condizione umana […], per la “filantropia” del Creatore, che si manifesta nel fatto di assumere, nell’incarnazione del Figlio, la creatura, alla quale si autocomunica attraverso il dono dello Spirito»[6].
L’«autenticità» nella cultura contemporanea
Taylor non si ferma alla superficialità della cultura dell’autenticità – o a quelle che egli chiama «le sue deviazioni» – e propone di considerarla anche una cultura della ricerca, dietro la quale si profila l’ideale morale della veridicità verso se stessi e la consapevolezza di una originalità intrasferibile: «Ciascuna delle nostre voci ha qualcosa di proprio da dire»[7].
L’idea che esista una certa maniera di essere umani che è intrasferibile e che può essere soltanto la mia personale forma umana è penetrata profondamente nella coscienza moderna. Il modo concreto di vivere la mia forma umana consisterà nell’essere autentico. Questo modello di umanità lo posso trovare solo dentro di me. Se non fossi autentico, corromperei la mia forma umana, e quell’originalità individuale andrebbe perduta: «Essere vero con me stesso significa essere vero con la mia originalità, e ciò è qualcosa che soltanto io posso distinguere e scoprire. Distinguendolo, sto definendo me stesso. Sto attuando una potenzialità propriamente mia»[8].
Qui sta, secondo Taylor, la forza morale dell’autenticità. Essa stessa è un ideale morale: ideale inteso dal filosofo come «un’immagine di quello che sarebbe un modo di vita migliore o più alto»[9]. Questa immagine offre un modello di ciò che dovremmo desiderare, che non è necessariamente definito da quanto immediatamente desideriamo o di cui ora avvertiamo il bisogno.
È evidente che tale ideale può essere pervertito. Esso può degradarsi o travestirsi nel relativismo, nel narcisismo, nel soggettivismo, nel nichilismo e nell’egoismo. La frontiera che separa l’ideale dalla degradazione è quasi impercettibile: è facile passare dall’autorealizzazione personale all’egoismo o al narcisismo.
La ricerca dell’autorealizzazione, incentrandosi sull’io, può facilmente sottrarsi alle esigenze della società e della natura, e in questo modo può voltare le spalle alla storia e ai vincoli di solidarietà. Questa deviazione viene incentivata dall’ideale di sé ed è rafforzata da una ragione strumentale e burocratica che ci porta a vedere e a considerare tutto da una prospettiva strumentale la cui conseguenza immediata è l’atomismo sociale.
Di fatto, le persone immerse nella cultura dell’autenticità si sviano quando «vogliono incentrare la loro realizzazione sull’individuo, rendendo puramente strumentali le loro affiliazioni, ossia spingono verso un atomismo sociale. Tendono a vedere l’autorealizzazione come ridotta soltanto agli adempimenti nei confronti del proprio io, trascurando o delegittimando le domande che provengono dalla storia, dalla tradizione, dalla società, dalla natura o da Dio; in altri termini, alimentano un antropocentrismo radicale»[10].
Le critiche all’autenticità vertono sui rischi delle possibili deviazioni connesse a questo ideale: narcisismo, relativismo, nichilismo, egoismo. Zygmunt Bauman ha coniato la metafora della fluidità e della liquidità per riferirsi alla negatività della cultura che caratterizza la fase attuale della modernità: «I liquidi, a differenza dei corpi solidi, non mantengono di norma una forma propria. I fluidi, per così dire, non fissano lo spazio e non legano il tempo […], non conservano mai a lungo la propria forma e sono sempre pronti (e inclini) a cambiarla»[11].
In fondo, caratterizzare la cultura e l’ambiente in termini di fluidità è una descrizione che sa di cultura disperata, dove il futuro sembra promettere soltanto livelli sempre più alti di narcisismo[12]. Tuttavia, è proprio questa disperazione del futuro che Taylor descrive come una ricerca. Il modo in cui si manifesta l’autenticità – in cui ognuno cerca di discernere il proprio cammino, di essere vero con se stesso – non è disperazione o degradazione degli ideali morali: tutto questo è l’espressione di una ricerca. Il filosofo canadese riconosce che le analisi culturali manifestano una reale preoccupazione per le gravi conseguenze politiche del cambiamento e sono vere in ciò che ritraggono, ma esprimono apertamente un tono di disprezzo verso la cultura che descrivono, e ciò impedisce loro di vedere l’ideale morale che opera dietro questo fenomeno[13].
Taylor ritiene possibile intavolare un dialogo razionale con le persone calate nella cultura dell’autenticità, le quali, apparentemente, non accettano alcun principio più elevato della propria autorealizzazione. Questa possibilità non è arbitraria, ma si fonda sulla dimensione dialogica che accompagna sempre l’essere umano nel processo di conformazione e di definizione della propria identità. Il dialogo assume la forma di un recupero, che non consiste nel condannare, difendere o assumere una posizione intermedia rispetto all’autenticità, ma nel ritrovare l’ideale su cui essa si fonda come un modo per restaurare la vita pratica.
Per questo è necessario guardare con simpatia all’ideale che anima l’autenticità, e a partire da lì tentare di persuadere le persone, cercando di elevare la qualità della loro prassi e rendendo più chiare le implicazioni dell’ideale a cui aderiscono: «Bisognerebbe che combattessimo per il significato dell’autenticità […], dovremmo cercare di persuadere le persone del fatto che l’autorealizzazione, lungi dall’escludere le relazioni incondizionate e le domande morali che trascendono l’io, in effetti in qualche modo le richiede»[14].
La cultura dell’autenticità, come ogni forma di cultura, è attraversata da tensioni e conflitti, che si manifestano in una varietà e plasticità di tendenze nel modo di vivere l’ideale che la sostiene. Può darsi che le tendenze dominanti siano le forme più degradate di tale ideale, ma le tendenze minoritarie non si possono eliminare. In campo culturale, afferma Taylor, avviene una lotta continua: «Suggerisco che sul tema non cerchiamo la tendenza, quale che sia, alta o bassa, ma che la smettiamo con la tentazione di discernere tendenze irreversibili e vediamo che qui c’è una lotta il cui risultato è continuamente in gioco»[15].
In questo senso, le cose più importanti sono l’esistenza stessa di una pluralità di orientamenti e la consapevolezza che non si dà progresso culturale emarginando una frazione della cultura, bensì recuperando ciò che anima in profondità tutta questa pluralità irriducibile, sia essa predominante o meno. Taylor propone di distinguere il modo (manner) della materia da quello del contenuto (matter or content): «A un livello, [l’ideale dell’autenticità] è chiaramente correlato con il modo di adottare qualsiasi fine o forma di vita. L’autenticità è chiaramente autoreferenziale: questo deve essere il mio orientamento. Ma ciò non significa che a un altro livello il contenuto debba essere autoreferenziale, che i miei obiettivi debbano esprimere o soddisfare i miei desideri o aspirazioni contro qualcosa che vada al di là di essi. Posso trovare la mia autorealizzazione in Dio, o in una causa politica, o nel prendermi cura della terra. Di fatto […] troveremo un’autorealizzazione genuina soltanto in qualcosa di simile, qualcosa che abbia significato indipendentemente da noi o dai nostri desideri»[16].
La possibilità di questo dialogo comporta che si creda in tre ideali controversi. Primo, che l’autenticità sia un ideale valido (contro la critica della cultura che la valuta a partire dalle sue deviazioni). Secondo, che si possa discutere razionalmente su quegli ideali e sulla loro conformità con la pratica (contro un soggettivismo assoluto). Terzo, che questa riflessione abbia conseguenze (esistono possibili esiti)[17].
La fede «dell’autenticità»
Il nuovo credente o il credente calato nella cultura dell’autenticità, specialmente tra le generazioni più giovani[18], vive la sua fede come una vera e propria tensione tra individualismo e gruppi, tra autonomia e dipendenza, tra libertà e maturità affettiva, tra l’uso del linguaggio religioso e gli atteggiamenti quotidiani, tra ciò che si propone di fare e ciò che fa in concreto, tra la costanza e l’incoerenza, tra la routine quotidiana e le nuove esperienze, tra l’immediato e le responsabilità durevoli, tra il passato e il futuro, tra la realtà vicina e la realtà lontana e così via.
La tendenza all’individualismo non esclude, anzi esige, amicizie forti, necessità di appartenere a un gruppo coeso. Si possono invocare solide strutture comunitarie e al tempo stesso pretendere l’assoluto rispetto della libertà individuale. D’altra parte, l’affermazione e la ricerca di una maggiore autonomia e originalità non escludono affatto una certa dipendenza e attrazione verso simboli esteriori uniformanti.
L’accento sull’esteriore come segnale di identità crea un tipo di vita cristiana che si potrebbe definire di «corporativismo»[19]. La corporativizzazione dell’esperienza religiosa è caratterizzata da segni esteriori con i quali l’identità viene oggettivata e affermata (cappellini, penne, magliette con il logo, poster). L’enfasi con cui viene distinto il gruppo è così accentuata che la dimensione cristiana comune resta relegata in un debole secondo piano, ma il fatto che questa sia in secondo piano non vuol dire che scompaia.
Il corporativismo non cerca la conversione, ma l’assunzione di un linguaggio, di uno stile, di un’aria di famiglia, di una identità. All’interno del gruppo, si vive in un ambiente caldo di convivialità effusiva e di generosità, che fanno pensare a un’autentica fratellanza cristiana. Il tema sociale non esiste. Gran parte delle energie vengono dedicate a questioni di ordine affettivo e di maturità personale, ma i problemi sociali non rientrano nelle conversazioni. Le attività che attraggono sono quelle del volontariato a breve durata e a responsabilità limitata. In questo tipo di attività, le persone mettono in pratica l’altruismo, la dedizione, la simpatia, la misericordia e la solidarietà. Si trovano a loro agio con la frammentazione, perché non pensano a cambiare il mondo. Non si definiscono come soggetti coerenti e senza difetti, ma vulnerabili e fragili. Considerano il passato un’eredità molto pesante, e il futuro incerto; la loro fedeltà va al presente e ai momenti controllabili di felicità.
Se accettiamo il celebre proverbio arabo, citato da Guy Debord, secondo il quale «gli uomini assomigliano più al loro tempo che ai loro padri»[20], nonché il fatto che a caratterizzare questa nostra epoca sia per l’appunto l’«autenticità», dobbiamo domandarci se la fede sia possibile in un’epoca in cui la gente non sembra accettare un principio più elevato di quello della propria autorealizzazione, o se, al contrario, la tensione sperimentata nell’esperienza del credente sia la manifestazione di una ricerca che non trova risposta soddisfacente nelle vie ufficiali che le vengono offerte. E se, di conseguenza, per onestà con se stesse, le persone non avvertano la necessità di tracciare da sé il loro cammino.
La fede ha le sue esigenze, viene suscitata in un tempo e in uno spazio, implica soggetti in grado di accoglierla, capacità di rinuncia, abnegazione e dimenticanza di sé, capacità di memoria e di attesa; infine, implica ciò che la definisce: fidarsi dell’Altro, lasciarsi catturare dall’Altro. Questi valori non sembrano avere una particolare risonanza nella nostra «epoca istantanea», in cui la scelta stessa della vita di fede porta con sé la sensazione di poter fare «dietro front», e per la consapevolezza di tale possibilità il compito di mantenere la direzione scoraggia ancora di più[21]. Sembra un rifiuto culturale del «per sempre», del «puntare tutto su una carta sola», ed è in questo ambiente culturale che siamo chiamati a vivere la fede.
Fin dalle origini, il cristianesimo è stato una proposta di vita controculturale, ma ciò non significa abbandonare il mondo (fuga mundi) – come sarebbe facile fraintendere l’ideale della vita monastica –, bensì stare nel mondo senza essere del mondo (cfr Gv 17,15-16). La difficoltà a vivere la fede e a mantenere la direzione non ci può portare a definirne l’impossibilità, per evidente che appaia in tutte le manifestazioni della cultura. In queste condizioni, la vita di fede si presenta come una battaglia che, paradossalmente, non produce vittime collaterali, ma vite autentiche che si possono liberare in maniera permanente e con una garanzia duratura soltanto tramite un profondo radicamento in Colui che chiama.
Rigenerare la vita pratica
Non è difficile identificare nel profilo che abbiamo appena tratteggiato molte delle figure della religione dell’«epoca dell’autenticità». In generale, possiamo affermare che esse si ritrovano, sebbene non esclusivamente, nel fenomeno del pentecostalismo presente in tutte le denominazioni cristiane. Ne segue una domanda implicita: una persona con tali caratteristiche è capace di vivere un progetto di vita che esige la dimenticanza di sé, la responsabilità, la gratuità, la generosità, ma anche la noia e la quotidianità?
Tuttavia i soggetti che vengono descritti nel profilo – o nei profili – dei credenti dell’«epoca dell’autenticità» non necessariamente vi si riconoscono. Questo è un problema fondamentale. I profili tracciati non corrispondono alla percezione che le persone hanno dei propri percorsi. I credenti possono perfino accettare le proprie incoerenze, ma queste non sono attribuibili esclusivamente a loro; la stessa cosa si può dire di qualsiasi gruppo. Non sempre si riesce a far coincidere ciò che si è progettato con il proprio vissuto, non sempre si fa quel che si vuole.
La resistenza manifestata di fronte alle diagnosi che descrivono la propria situazione di credente nasce dalla percezione di un linguaggio negativo e con una forte carica di pregiudizi. È difficile immaginare che qualcuno faccia propria, seriamente, una posizione che a prima vista è squalificante e molte volte è veicolata attraverso un linguaggio contaminato. Da una parte, questa negatività inserita e percepita in un linguaggio ostacola la possibilità di un dialogo in cui un interlocutore non ha nulla da dire se non accettare la diagnosi su di sé ed essere disposto a mettere in pratica i rimedi che gli vengono offerti, se mai gliene vengano offerti. Dall’altra parte, il tono sprezzante del linguaggio rende miope lo sguardo dell’altro interlocutore. Questa miopia gli impedisce di vedere la realtà nella sua dimensione più profonda: egli non riesce a riconoscere che ad animare la diversità di percorsi e la lotta per essere autentici è un forte ideale morale, al di là di quanto possa essere camuffata o corrotta la sua manifestazione[22].
Inoltre, le generazioni della cultura e della fede dell’autenticità hanno la percezione e la sensazione che non siano comprese e – qui sta la difficoltà maggiore – che si voglia negare loro la veridicità di quella lotta personale che ogni individuo conduce per trovare la propria strada. O – che è lo stesso – che si voglia ridurre l’irriducibile originalità di ogni esperienza individuale a un unico modo, o al modo generato da un determinato contesto e condiviso da un determinato gruppo.
È chiaro che il pericolo delle devianze è presente. La vita di fede può degradarsi, può disinteressarsi della storia che essa è chiamata a trasformare. Il lavoro di recupero che Taylor propone cerca di rinnovare la vita pratica. Questo lavoro, applicato alla fede dell’autenticità, può contribuire a far sì che la fede recuperi, in mezzo a questa cultura, la propria efficacia evangelica di essere il sale della terra e la luce del mondo (cfr Mt 5,13). Quali caratteristiche dovrebbe avere tale recupero?
In primo luogo, va riconosciuta l’«autenticità» della ricerca che oggi intraprendono tutte le forme ambientali di religione. Non si tratta di demonizzarle a partire dalle loro eventuali devianze, né di legittimare acriticamente il diritto individuale di ciascuna a trovare la propria strada, ma di riconoscere che è in corso una ricerca vissuta come una tensione: tensione che «proviene dal senso di un ideale che non è pienamente conosciuto nella realtà. E tale tensione può trasformarsi in una lotta, dove le persone cercano di distinguere il difetto dalla pratica e di criticarla»[23].
In molti casi, la risposta ecclesiale a questa ricerca è un moltiplicarsi dell’offerta religiosa. Il proliferare di movimenti in seno alla Chiesa – cosa che di per sé non sarebbe negativa – non di rado sembra rispondere alla logica della sistemazione: più movimenti ci sono, tanto meglio, perché ciò significa che c’è spazio per tutti. Ciascuno può scegliere il movimento che più si adatta al suo modo di essere, alle sue esigenze e alle sue ricerche.
Il principio che opera in questa valutazione della diversità è quello della sistemazione, «avere più persone». Di conseguenza, si finisce per ridurre la fede a uno strumento al servizio delle necessità individuali, attenuandone così il significato. Quando entro nel gruppo, trovo quello che cerco, ma questo non mi cambia, non assumo un impegno coerente con i princìpi del Vangelo. In altre parole, l’appartenenza alla Chiesa, l’essere cristiano non mi impegna nel compito comune ed evangelico di trasformare il mondo; al contrario, sembra che ne fugga.
Affinché questa diversità di movimenti mantenga lo scandalo della vita cristiana, la riflessione teologica, che cerca di vedere la realtà nella sua dimensione più profonda, deve entrare attraverso la via del dialogo e della persuasione, «cercando di persuadere le persone del fatto che l’autorealizzazione, lungi dall’escludere le relazioni incondizionate e le domande morali che trascendono l’io, in effetti in qualche modo le esige. La lotta non dev’essere a favore o contro l’autenticità, ma su di essa, definendone il vero significato»[24].
In secondo luogo, questo riconoscimento passa attraverso la via del discernimento, del guardare con simpatia quelli che cercano, della decontaminazione del linguaggio ecc. La diversità di vie in cui la fede dell’autenticità cerca di esprimersi non significa necessariamente negare il lascito di ciò che è stato fatto storicamente, o svincolarsene, né significa negare la legittimità e l’autenticità dei percorsi compiuti, o rinnegare la tradizione e il peso di un’eredità comune condivisa. Significa piuttosto contrapporsi a tutto ciò che pretende di soppiantare l’autenticità della singolarità di ogni esperienza individuale. Se è vero che la rivelazione cristiana riserva un posto all’esperienza di ciascun individuo, allo stesso modo essa garantisce, per propria natura, senza sfigurarsi, la ricerca che caratterizza la cultura dell’autenticità.
La riflessione teologica che affronta questo lavoro di recupero si presenta come un’opportunità per aprire nuove vie all’ineludibile esigenza della fede che incarna la buona notizia del Regno. Senza questo lavoro, la riflessione teologica si ridurrebbe a una profezia di sciagure, a un disperato lamento, spesso carico di pregiudizi e di disprezzo, per quanto benintenzionate possano essere le diagnosi che descrivono tale fede dell’autenticità come un’esperienza che si sottrae alle sue esigenze. L’appello di papa Francesco è eloquente: «Più che come esperti in diagnosi apocalittiche o giudici oscuri che si compiacciono di individuare ogni pericolo o deviazione, è bene che possano vederci come gioiosi messaggeri di proposte alte, custodi del bene e della bellezza che risplendono in una vita fedele al Vangelo» (Evangelii gaudium, n. 168).
L’unico modo di essere critici senza alterare la ricerca dell’autenticità sarà per noi quello di sforzarci di mostrare come un’autorealizzazione senza altre domande che vadano oltre gli interessi e i desideri individuali («egoismo assoluto») finisca per isolare e atrofizzare l’io e, di conseguenza, non sia conveniente per gli interessi dell’autenticità. In questo modo infrangeremo il «pessimismo culturale»[25] e resisteremo alla tentazione di tendenze irreversibili.
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THE POWER OF AUTHENTICITY. Reflections on culture and faith
Contemporary culture has been described by Charles Taylor as the culture of authenticity. The dominant traits of this «culture» are identifiable by its deviations; for example, narcissism, individualism, and self-centeredness. However, Taylor points to other tendencies that reveal a powerful moral ideal. As a consequence, he proposes a dialogue where the search for this ideal emerges and the commitment to remain true to it if one is to truly experience authenticity. Similarly and from a theological perspective, in this article we propose a dialogue with the believing quest that is immersed in such a culture.
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[1]. Nato in Canada nel 1931, Taylor ha insegnato a Oxford, all’Università di Montréal e alla McGill University, di cui è professore emerito. Oltre che alla storia della filosofia, si è dedicato alla filosofia politica e a quella delle scienze sociali. I suoi contributi più noti riguardano le aree del comunitarismo, del cosmopolitismo e dei rapporti tra religione e modernità, in particolare la tematica della secolarizzazione, di cui è considerato uno degli studiosi più autorevoli. Fra le sue opere, possiamo ricordare: Sources of the Self (1989); A Secular Age (2007); «The Language Animal» (2016). Ha ricevuto molti riconoscimenti e premi internazionali, tra i quali, nel 2019, il Premio Ratzinger. Cfr M. P. Gallagher, «La critica di Charles Taylor alla secolarizzazione», in Civ. Catt. 2008 IV 249-259; G. Mucci, «Identità moderna e cristianesimo in Charles Taylor», ivi 2010 II 141-148; Id., «Un colloquio pubblico tra Charles Taylor e Christoph Schönborn», ivi 2011 II 450-455.
[2]. C. Taylor, The Ethics of Authenticity, Cambridge (Ma) – London, Harvard University Press, 2003, 16.
[3]. G. Gutiérrez, Teología de la liberación. Perspectivas, Salamanca, 1975, 80 (in it. Teologia della liberazione. Prospettive, Brescia, Queriniana, 1981).
[4]. L’impegno cristiano nella storia si è concretizzato e specificato, nella Chiesa e nella riflessione teologica latinoamericana, come «opzione preferenziale per i poveri», richiesta e racchiusa nella fede in Gesù. Questa opzione per i poveri è anche opzione per la cura della casa comune: si cerca di «ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri» (Francesco, Laudato si’ [LS], n. 49).
[5]. Cfr J. L. Segundo, Liberación de la teología, Buenos Aires, Carlos Lolhé, 1975, 12.
[6]. U. Vázquez, «Padecer e saber», in Perspectiva teológica, gennaio-aprile 2016, 16. Lo spiritualismo è una malattia dello spirito, una «pneumopatologia» (cfr G. Parotto, «Pneuma e pneumopatologia nel pensiero di Eric Voegelin», in Politica e religione. 2010-2011, Brescia, Morcelliana, 2012, 233-259). Papa Francesco ha illustrato icasticamente questo concetto come «mondanità spirituale» (cfr Evangelii gaudium, n. 93).
[7]. C. Taylor, The Ethics of Authenticity, cit., 39.
[8]. Ivi, 29.
[9]. Ivi, 16.
[10]. Ivi, 58. Papa Francesco parla di un «antropocentrismo dispotico» e «deviato», che colloca al centro l’essere umano e attribuisce priorità assoluta ai suoi interessi immediati, ignorando, a proprio danno, che tutto è interconnesso (cfr LS 68-69). Cfr E. Rivas, «A esperança como chave de leitura da “Laudato si’”», in A. Murad – E. V. B. Reis – M. A. Rocha (ed.), Tecnociência e ecologia: múltiplos olhares, Belo Horizonte, Lumem Juris, 2019, 29-45.
[11]. Z. Bauman, Modernità liquida, Roma – Bari, Laterza, 2004, VI. Dello stesso autore sono state pubblicate, in traduzione italiana, queste opere: Amore liquido (2003), Vita liquida (2005), Paura liquida (2006), Futuro liquido (2014), Nati liquidi (2017).
[12]. Cfr C. Taylor, The Ethics of Authenticity, cit., 76.
[13]. Taylor fa esplicito riferimento a queste opere: D. Bell, Le contraddizioni culturali del capitalismo, Torino, Einaudi, 1978; C. Lasch, La cultura del narcisismo, Milano, Bompiani, 2001; Id., L’ io minimo, Vicenza, Neri Pozza, 2018; G. Lipovetsky, L’ era del vuoto, Milano, Luni, 2018. Cfr C. Taylor, The Ethics of Authenticity, cit., 14.
[14]. C. Taylor, The Ethics of Authenticity, cit., 72 s.
[15]. Ivi, 79.
[16]. Ivi, 82.
[17]. Cfr ivi, 23.
[18]. Cfr E. Rivas, «La fidelidad a la intemperie. Pensar en fidelidade en la vida religiosa hoy», in CLAR 3 (2007) 9-19; Id., «The Faith of “Authenticity”: Challenges and Prospects for Liberation Theology», in The Heythrop Journal 60 (2019) 871-882.
[19]. Cfr P. Trigo, «Mística y profecía en la vida religiosa», in Iter 15 (2004) 113-117.
[20]. G. Debord, Comments on the Society of the Spectacle, London, Verso, 1990, 13.
[21]. Cfr Z. Bauman, Amore liquido, Roma – Bari, Laterza, 2017.
[22]. Cfr C. Taylor, The Ethics of Authenticity, cit., 15.
[23]. Ivi, 76 s.
[24]. Ivi, 72 s.
[25]. Ivi, 78.