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Un secolo fa, nel novembre 1921, in occasione del III Congresso dei Fasci italiani di combattimento[1], che si tenne a Roma nel teatro dell’Augusteo, veniva ufficialmente fondato il Partito nazionale fascista. Un evento che fu appena notato (e commentato) dalla stampa ufficiale, ma che avrebbe avuto un ruolo centrale nella storia nazionale dei successivi 20 anni e anche dopo. Fino a quel momento il movimento creato da Benito Mussolini a Milano il 23 marzo 1919 si era presentato all’opinione pubblica come un «antipartito», creatore di nuove istanze politiche. Era fondato su una «anti-ideologia» che idolatrava il mito della forza e dell’azione come motore della storia, nella tradizione dello spontaneismo sovversivo, che aveva presieduto la fondazione dei primi Fasci[2].
Alla fine del 1921 il fascismo era diventato, soprattutto nel Nord della Penisola, un fenomeno di massa, fondato sull’organizzazione squadristica. Anzi, il nuovo statuto del Partito nazionale fascista, redatto a dicembre dello stesso anno, consacrò lo squadrismo quale istituzione essenziale del nuovo partito[3]. Il progetto ideologico-politico di cui questo partito si faceva portatore «aveva perduto le componenti di improvvisazione e casualità a mano a mano che si allontanava dallo spirito anarchico ed eversivo degli inizi per far propri i valori d’ordine e di tradizione»[4], che a quel tempo erano i pilastri di ogni vera azione politica nazionale. In realtà, da tempo il movimento fascista aveva cominciato a cambiare pelle e ad assumere sempre di più tratti ideologici (cioè politici) orientati in direzione antisocialista e antipopolare, al fine di guadagnare consensi tra i tanti elettori scontenti dell’azione dei nuovi partiti di massa. Da fenomeno prevalentemente «urbano» e «giovanilista», il fascismo era diventato un fenomeno «rurale» e «nazionale», una forza, cioè, che raccoglieva adesioni ormai anche nei settori della piccola e media borghesia intellettuale e impiegatizia, e come «partito armato» diventava sempre più funzionale agli interessi degli industriali e degli agrari, preoccupati di ristabilire l’ordine – gravemente turbato nei due anni precedenti – nelle fabbriche e nelle campagne.
Trasformando il movimento fascista in partito politico Mussolini perseguiva un duplice obiettivo: da un lato, rafforzava l’autorità della direzione nazionale, con i suoi organismi centrali, controllati da uomini da lui stesso nominati, eliminando i particolarismi dei vari indisciplinati e riottosi ras locali[5]; dall’altro, conferiva all’insieme «eterogeneo dei fascismi delle origini» un’organizzazione stabile, basata sui princìpi di gerarchia, di autorità e di disciplina, suscettibile di divenire lo strumento per la conquista del potere, come di fatto avvenne poco dopo.
In questa sede non intendiamo ripercorrere le vicende della nascita e della formazione del movimento fascista e neppure la controversa storia del «Ventennio», sulla quale esiste una nutrita letteratura storica: ci interessa soltanto analizzare la posizione dei cattolici italiani, e soprattutto delle gerarchie vaticane, in quel particolare periodo, riguardo all’avanzata nazionale del movimento-partito fascista. Sorprende che le posizioni assunte dalla Santa Sede, e in particolare dalla Segreteria di Stato, sulle vicende riguardanti il «fascismo delle origini» e sulla stessa fondazione del Partito nazionale fascista fossero ispirate a sostanziale tolleranza, e in ogni caso, come appare dalla stampa filo-vaticana – in particolare da La Civiltà Cattolica, che, allora come oggi, veniva rivista dalla Segreteria di Stato[6] –, a una sorta di «sospensione di giudizio politico», come se il fascismo fosse un fenomeno passeggero, legato a fatti di delinquenza locale (da condannare, naturalmente, sul piano morale) e frutto della durezza dei tempi. Il fenomeno, insomma, fu sottovalutato, e da alcuni ecclesiastici persino considerato necessario per combattere il dilagare, nelle città e nelle campagne, della peste socialista e comunista. Questo fatto pesò molto sul successivo atteggiamento che la gerarchia cattolica italiana ebbe nei confronti del fascismo al potere e della creazione dello Stato totalitario.
Ma per comprendere la posizione del mondo cattolico e della Santa Sede riguardo alle vicende di cui stiamo trattando è necessario inquadrare i fatti nel loro contesto storico a partire dalla crisi del governo Giolitti e dalle elezioni politiche del maggio 1921, quando per la prima volta i fascisti, sia pure in numero limitato, entrarono in Parlamento.
Le elezioni politiche del maggio 1921
Nell’aprile 1921 Giovanni Giolitti chiese al re Vittorio Emanuele III, con l’accordo della maggior parte dei suoi ministri, lo scioglimento delle Camere e fece indire nuove elezioni politiche per il 15 maggio successivo. L’obiettivo era quello di indebolire in Parlamento sia i socialisti sia i popolari, che nelle elezioni del 1919 – le prime dopo la Grande guerra – avevano ottenuto una strepitosa vittoria, esautorando la vecchia classe politica liberale, la quale però, attraverso la fiducia a essa accordata dalla Corona, continuava a tenere in mano le leve dello Stato. Giolitti intendeva creare un blocco d’ordine conservatore, capace di frenare le richieste riformatrici che venivano dai partiti di massa e che rendevano difficile l’azione di governo. I popolari naturalmente rifiutarono di partecipare al «blocco» – costituito, oltre che dal partito di Giolitti, dai democratici, dai salandrini e, per la prima volta, dai fascisti – e decisero di presentarsi alle elezioni con liste proprie[7].
A circa tre settimane dalle elezioni, La Civiltà Cattolica pubblicò un importante articolo, scritto dal direttore della rivista, p. Enrico Rosa, nel quale si esaminava la situazione politica del Paese. Esso era intitolato «I torti dei partiti e il dovere dei cattolici». L’articolo divideva i partiti dello schieramento politico in tre categorie: i sovversivi, i liberali e i popolari. Nella prima categoria rientravano i socialisti, i comunisti e i movimenti anarchici. L’elemento che accomunava tutti questi partiti – secondo l’articolista – era lo spirito rivoluzionario, che era tutta la ragione della loro esistenza, cioè «il rovesciamento della monarchia non solo, ma di tutto l’ordinamento presente della società, la violenza insomma della rivoluzione a cui deve servire il bene pubblico: quindi l’ambito trionfo dell’irreligione e dell’immoralità, che è parte precipua del loro comune programma di partito»[8].
La critica si incentrava poi sull’azione parlamentare dei socialisti, i quali, invece di promuovere riforme per il bene del popolo, «da loro tanto decantato», avrebbero unicamente promosso due proposte di legge: una a loro esclusivo vantaggio, cioè l’aumento dell’indennità parlamentare; l’altra a vantaggio dei «viziosi e dei gaudenti», cioè il divorzio.
Gran parte del torto nella gestione della cosa pubblica – continuava La Civiltà Cattolica – è però da attribuire ai molteplici partiti liberali, cioè a radicali, moderati, costituzionali, democratici, nazionalisti e fascisti. Da notare che l’articolista includeva il fascismo non tra i partiti rivoluzionari (nonostante la sua ascendenza dal socialismo massimalista), ma tra quelli liberali. Esso infatti sarebbe il prodotto «violento e autoritario» della crisi del liberalismo, l’altra faccia insomma di un sistema corrotto, soltanto in apparenza «libertario», che vuole a tutti i costi e in tutti i modi conservare il potere e bloccare lo sviluppo democratico del sistema politico. Il partito fascista era presentato non soltanto come una sorta di «bastone» liberale per tenere a freno i socialisti e i sovversivi, ma anche come un movimento politico e di pensiero intrinsecamente malvagio e anticristiano.
Questi partiti si presentano come gli ultimi epigoni della rivoluzione liberale (ormai in crisi), di cui adottano lo stesso sistema di valori, utilizzando però, nella loro azione in difesa dell’ordine costituito, gli stessi sistemi violenti dei socialisti, figli degeneri della stessa madre. Tanto più che «ai nuovi venuti dalla baraonda rivoluzionaria del fascismo il liberalismo si guarda bene dal richiedere qualsiasi rinuncia ai loro principi di violenza e di morale nuova, quantunque affatto sovversiva della società»[9].
Infine l’articolista trattava dei popolari, «che non crediamo che si possano mettere al paragone coi partiti che neppure implicitamente riconoscono i principi cristiani». Essi sono impegnati a fare un lodevole «esame di coscienza» sull’indirizzo politico seguito fino a questo momento (ritenuto dalla Santa Sede troppo progressista). Tale dovrà essere il compito di un nuovo Congresso nazionale, che dovrebbe avere come fine «la purificazione e non la distruzione del partito». Esso farebbe chiarezza su molti punti, per indirizzare meglio il compito dei cattolici in politica, «sebbene il partito non voglia dirsi cattolico, né debba confondersi con l’azione cattolica e molto meno con l’operato della gerarchia cattolica»[10].
Venendo poi a trattare delle prossime elezioni politiche, l’articolista si chiedeva come dovevano orientarsi in materia elettorale i cattolici italiani. L’indicazione che egli dava loro su questo punto era chiara: dovranno scegliere quella lista che fra tutte porti «i nomi più degni» per un cattolico, e all’interno di essa votare per i più «sicuri sul piano morale e religioso». A tale riguardo si ricordavano le indicazioni che Pio X nel 1905 aveva dato ai cattolici spagnoli in materia elettorale: «I cattolici – aveva scritto il Papa – debbono con ogni industria sforzarsi a far riuscire nelle elezioni, siano municipali o nazionali, coloro che, giusta la circostanza di ciascuna elezione, dei tempi e dei luoghi, sembra che meglio debbano provvedere, nel loro governo, ai vantaggi della religione e della patria»[11].
La parola d’ordine che la Santa Sede dava in quel momento agli elettori cattolici, attraverso le pagine della rivista dei gesuiti, era che essi continuassero a votare per il Ppi, scegliendo però, all’interno delle sue liste, quei candidati più sensibili alle questioni di carattere religioso[12]. Questo era il punto di vista del Papa, che non desiderava che il partito dei cattolici si scindesse al suo interno, o che le sue forze si disperdessero in alleanze politiche diverse, e non era favorevole alla formazione di un «partito guelfo», cioè apertamente cattolico, accanto a quello «popolare». Questo indirizzo politico fu poi ribadito dalla maggioranza del partito nel Congresso di Venezia di quell’anno.
Fascismo di difesa e fascismo di violenza
Alcuni giorni prima delle elezioni politiche del 15 maggio 1921 la rivista dei gesuiti tornò a parlare della competizione elettorale in corso: questa volta però non per commentare o valutare il programma politico dei singoli partiti, ma per denunciare le violenze che durante la campagna elettorale erano state compiute da alcuni partiti, in particolare dai socialisti e dai fascisti. In un breve articolo di cronaca, titolato «Fascismo di difesa, fascismo di violenza, fascismo di setta», la rivista si soffermò a valutare, per la prima volta in modo specifico, il movimento fascista, già da tempo organizzatosi in movimento politico e presente come tale nel listone dei «partiti d’ordine».
La distinzione tra «fascismo di difesa» e «fascismo di violenza» (o di setta) è la prima apparsa sulle pagine de La Civiltà Cattolica. Sempre di più – scriveva l’articolista – si fa manifesto, per confessione degli stessi capi del fascismo, che il movimento, sorto dapprima per reazione contro le prepotenze dei socialisti e dei comunisti, e quindi per ragioni di legittima difesa nazionale – e questo sarebbe «il fascismo di difesa» –, spesso oltrepassa il limite della giusta misura, «peccando di quella stessa arbitraria violenza giustamente rinfacciata ai sovversivi e raddoppiando la confusione invece di servire all’ordine e alla pubblica tranquillità»[13]; e questo sarebbe «il fascismo di violenza» (o di setta).
In verità, durante la campagna elettorale il fascismo, forte di potenti protezioni a livello sia centrale sia locale, manifestava sempre più il suo vero volto violento e autoritario, e denunciava senza pudore la sua istintiva avversione per la democrazia e per i metodi di lotta politica democratica[14]. «Né l’uso né l’abuso della prepotenza – affermava La Civiltà Cattolica – si restringe ai casi personali: in più di una delle loro “spedizioni” pubbliche si vedono prendere a norma non la giusta difesa, ma il loro maltalento e lo sfogo del loro pazzesco impulso»[15].
La distinzione tra fascismo di difesa e fascismo di violenza aveva una finalità esclusivamente descrittiva e non implicava alcun giudizio di carattere ideologico-politico sul fenomeno analizzato, nel senso cioè che esisterebbe, come alcuni affermavano, un fascismo buono e uno cattivo. Va ricordato anche che la rivista non poteva in nessun modo ritenere affidabile un movimento che si dichiarava apertamente anticristiano e nemico dei «preti in gonnella o senza gonnella», come venivano definiti gli attivisti dell’azione cattolica o del Ppi[16].
Le elezioni del 15 maggio 1921, come era prevedibile, non modificarono di molto l’equilibrio delle forze rappresentate nel Parlamento appena sciolto: il crollo dei partiti liberali veniva riconfermato; i socialisti, invece, perdevano qualche seggio (ne ebbero 122, ma i comunisti ne ottennero 16), mentre i popolari ne guadagnavano qualche altro (ebbero 107 deputati, pari al 20,7% dei voti); per la prima volta entrarono a Montecitorio 35 deputati fascisti – fra i quali Benito Mussolini –, eletti nelle liste del blocco, oltre ai 10 nazionalisti. E questo, come la storia insegna, non fu una cosa di poco conto. Il nuovo governo, formato da Ivanoe Bonomi, non poté fare a meno, come era accaduto precedentemente, della collaborazione dei popolari, che non avevano permesso un reincarico a Giolitti. Ad essi per la prima volta venne affidato un ministero importante, quello della Giustizia.
La nomina di Giulio Rodinò a guardasigilli scatenò tra i liberali una bufera, che pose in pericolo la stessa sopravvivenza del governo appena formato; non si voleva che quel ministero chiave passasse in mano a un cattolico. «Ci volle – dichiarò Sturzo – la minaccia ufficiale del partito che, se Bonomi fosse caduto, i popolari non avrebbero partecipato ad altro ministero, a far superare quel difficile momento e tenere a freno i malcontenti»[17]. Ai popolari furono dati anche altri due ministeri: quello dei Lavori Pubblici (Micheli) e quello dell’Agricoltura (Mauri), nonché diversi sottosegretariati. Il Ppi partecipò con uomini propri a tutti i governi – alcuni dei quali durarono per brevissimo tempo – che si succedettero fino al ministero Mussolini, dal quale i ministri popolari uscirono dopo pochi mesi.
Il Congresso dei fascisti all’Augusteo di Roma
Dal 7 al 10 novembre 1921, come si è detto, si svolse a Roma all’Augusteo il III Congresso dei Fasci di combattimento[18]. Questo Congresso, che fu aperto neppure un mese dopo quello dei popolari a Venezia (20-23 ottobre)[19], «doveva venir contrassegnato – è stato giustamente osservato – per le baruffe tra congressisti e socialisti con le quali si alternarono tornate e passeggiate; e finalmente doveva chiudersi tra le angosce di una piccola guerra civile». Il vero protagonista del Congresso fu Mussolini, «salutato fin dal suo apparire come un trionfatore; ebbe la soddisfazione di veder prevalere le sue idee massimamente quelle della costituzione dei fasci a partito politico»[20].
La relazione sullo stato del movimento fu fatta da Umberto Passella, il quale descrisse, numeri alla mano, i progressi che il movimento dei fasci aveva fatto in soli tre anni di vita: al primo Congresso di Firenze avevano preso parte 22 fasci in rappresentanza di 17.000 iscritti, mentre a quello di Milano i fasci erano saliti a 56 con 30.000 iscritti, «oggi i fasci sono 2.200 con oltre 300.000». Il fascismo quindi in un solo anno aveva decuplicato il numero degli iscritti al movimento. Questo fu avvertito da molti – soprattutto socialisti e popolari – come un fatto inquietante e pericoloso per il Paese. Veniva spiegato facendo riferimento alla debolezza e mancanza di autorità dello Stato democratico, che preferiva lasciar fare ai violenti anziché intervenire tempestivamente per arginare il contrasto sociale con una proposta politica forte. Vi erano poi alcune forze politiche, come i comunisti, che si facevano assertori della politica del «tanto peggio».
Le questioni più importanti che il Congresso discusse furono fondamentalmente due. La prima riguardò il «patto di pacificazione» o di desistenza, stipulato qualche tempo prima da Mussolini con i socialisti, al fine di contenere la «guerra civile» in atto tra le due fazioni. Con questo patto Mussolini si presentava agli italiani come il «pacificatore nazionale», l’uomo nuovo capace di mettere ordine nel Paese e riportare lo scontro sociale entro limiti accettabili da un regime democratico-parlamentare. Quando il relatore parlò del patto di pacificazione, l’assemblea iniziò a rumoreggiare, «dimostrando l’umore battagliero e la disapprovazione per il trattato»[21].
Il Pellizzari sostenne che bisognava discutere sull’opportunità o meno di mantenere in vigore l’accordo. Questo era anche il parere di altri relatori. Secondo Grandi, bisognava o parlarne subito o mai più. Dopo la difesa che Mussolini fece dell’accordo, il Congresso, volente o nolente, votò per la sua accettazione. Mussolini non poteva permettersi uno smacco così grande, quale sarebbe stato, davanti al Paese, il rigetto del patto, proprio nel momento in cui egli si poneva come arbitro della situazione politica e garante della pace nazionale. L’aria che si respirava nel Congresso era però tutt’altro che volta alla pacificazione. Alla domanda retorica dell’onorevole Roberto Farinacci su che cosa dovessero fare 35 fascisti contro 500 deputati di altri partiti politici, molti congressisti risposero arditamente: «Bombe a mano ci vogliono!»[22]. Questo era il partito che Mussolini ci accingeva a costituire.
La seconda questione di cui si parlò nel Congresso fu appunto quella riguardante la costituzione del fascismo in partito politico nazionale. La proposta fu perorata con decisione da Mussolini stesso – ormai deciso a entrare nell’agone politico nazionale e pronto a lottare alla pari con gli altri partiti politici – e fu accolta con entusiasmo dall’assemblea. Almeno su questo punto non ci furono nel Congresso dissensi di rilievo.
La cronaca de La Civiltà Cattolica sul Congresso – come anche quella apparsa su L’Osservatore Romano – passò invece sotto silenzio le parole che Mussolini indirizzò ai cattolici. Egli promise in materia religiosa «piena libertà alla Chiesa cattolica nell’esercizio del suo ministero spirituale, [nonché la] soluzione del dissidio con la Santa Sede». Più di uno certamente, anche tra i presenti al Congresso, si meravigliò nell’udire tali parole, dette da colui che fino a poco tempo prima riteneva la lotta anticlericale una delle priorità del movimento fascista. Nel suo discorso Mussolini dedicò anche attenzione al partito popolare: «Indubbiamente – disse – un partito potente perché si appoggia a trentamila parrocchie ed ha un’organizzazione politica disciplinata che scimmiotta il fascismo»; ha il sostegno di banche e giornali e «il prestigio che lo fa ritenere espressione del mondo cattolico»[23].
La Santa Sede e la stampa cattolica in generale mantennero sulle inattese aperture di Mussolini verso la questione religiosa un prudente silenzio: prima di lanciarsi in una qualche considerazione da parte della gerarchia, si cercò di prendere tempo e di verificare in base ai fatti l’attendibilità delle parole pronunciate in un contesto molto particolare dal capo del fascismo.
Dopo le elezioni del 1921, Mussolini concentrò la sua polemica contro il Ppi, ritenendolo (strategicamente) filo-socialista, escludendo però, a differenza di come aveva fatto precedentemente, ogni critica contro la Chiesa ufficiale. In questo modo egli cercava di sottrarre al popolarismo la rappresentatività politica del mondo cattolico e di guadagnarsi la simpatia della gerarchia ecclesiastica[24]. Questa tattica alla fine risultò vincente – in particolare quando il fascismo divenne regime di Stato –, non senza provocare però all’interno del mondo cattolico dolorose lacerazioni.
A un secolo esatto da questi fatti, e dopo la dolorosa esperienza del «Ventennio», della guerra civile e di occupazione, sorprende che ci siano italiani che considerano il fascismo come un «esperimento politico» positivo, e in ogni caso «necessario» sul piano storico, e spesso guardano con simpatia e ammirazione al suo fondatore Benito Mussolini.
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THE FOUNDATION OF THE NATIONAL FASCIST PARTY AND ITALIAN CATHOLICS
A century ago, in November 1921, at the 3rd Congress of the Fasci italiani di combattimento, held in Rome at the Augusteo Theatre, the National Fascist Party was officially founded. The event was barely noticed by the official press, but played a central role in subsequent national history. A century after these events, and after the painful experience of the “Ventennio,” the civil war and the occupation, it is surprising that there are Italians who consider Fascism a positive “political experiment” and often look to its founder Benito Mussolini with affection.
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[1]. Cfr S. Lupo, «Fasci italiani di combattimento», in Dizionario del fascismo, Torino, Einaudi, 2002, 511-515.
[2]. Cfr Dizionario dei fascismi. Personaggi, partiti, culture e istituzioni in Europa dalla grande guerra a oggi, Milano, Bompiani, 2002, 473.
[3]. Cfr E. Gentile, Storia del partito fascista. Movimento e milizia. 1919-1922, Roma – Bari, Laterza, 2021, 46.
[4]. Cfr Dizionario dei fascismi…, cit., 473.
[5]. Superati i dissensi interni, Mussolini riuscì ad accentrare i poteri nelle proprie mani e in quelle dei suoi più stretti collaboratori. Gli scontri tra le diverse anime del fascismo – ricordiamo che nell’agosto di quell’anno Mussolini si dimise per pochi giorni dal Comitato centrale – testimoniavano come egli non esercitasse ancora un’indiscussa autorità carismatica sul movimento. L’istituzionalizzazione dei Fasci e la nascita del Partito nazionale fascista, con il netto predominio della cosiddetta «corrente milanese», portò al ridimensionamento di alcuni ras locali, come Farinacci, che solo in alcuni casi riuscirono a mantenere il loro potere a livello locale. Cfr F. Tacchi, Fascismo, Firenze, Giunti, 2000, 46.
[6]. In quegli anni, come anche successivamente, le posizioni vaticane in materia politica erano espresse attraverso La Civiltà Cattolica, in quanto organo non ufficiale della Santa Sede e quindi più libero nel manifestare le sue posizioni.
[7]. Cfr G. Sale, Popolari e destra cattolica al tempo di Benedetto XV, Milano, Jaca Book, 98 s.
[8]. E. Rosa, «I torti dei partiti e il dovere dei cattolici», in Civ. Catt. 1921 II 195.
[9] . Ivi, 201.
[10]. Ivi, 204.
[11]. Ivi, 207.
[12]. Si veda, a tale proposito, la direttiva privata inviata dalla Segreteria di Stato ai vescovi italiani nelle precedenti elezioni del 1919, in AAEESS, Italia, 346, 40 s; e J. F. Pollard, Il papa sconosciuto. Benedetto XV e la ricerca della pace, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 2001, 199.
[13]. «Cose italiane», in Civ. Catt. 1921 II 371.
[14]. Cfr R. De Felice, Mussolini il fascista, Torino, Einaudi, 1966, 202 s; E. Gentile, Storia del partito fascista…, cit.; S. Lupo, Il fascismo. La politica in un regime totalitario, Milano, Feltrinelli, 2013, 54; Id., «Fasci italiani di combattimento», in Dizionario del fascismo, cit., 511-515.
[15]. «Cose italiane», in Civ. Catt. 1921 II 372.
[16]. Lo scrittore concludeva il suo articolo affermando: «Non è però soltanto la mancanza di misura e di ragionevole difesa che si deve rimproverare a molti atti del movimento fascista nazionale, che finiranno per renderlo tanto odioso quanto il suo antagonista bolscevico e internazionale. Da qualche tempo, giudicando di aver rintuzzato e confuso le organizzazioni socialiste, esso va estendendo la sua azione aggressiva contro ogni altro partito per dominare dispoticamente la piazza, sostituendo la tirannia tricolore al terrore rosso. E in questa specie di evoluzione vediamo allargarsi un’infiltrazione anticlericale, cioè antireligiosa, che prima i dirigenti del movimento avevano lasciato nell’ombra» (ivi).
[17]. Il Popolo nuovo, 6 luglio 1921.
[18]. R. De Felice, Mussolini il fascista, cit., 224 s; E. Gentile, Storia del partito fascista…, cit., 358 s; P. Milza, Mussolini, Roma, Carocci, 1999, 318.
[19]. Il III Congresso dei popolari a Venezia aveva escluso ogni accordo politico e parlamentare con i socialisti (come chiedeva l’ala sinistra del partito, capeggiata da Migliori). Sebbene avesse escluso anche la possibilità di una collaborazione con i fascisti e con i nazionalisti, «il suo esito – scrive Emilio Gentile – giovava comunque alla politica di Mussolini, il quale, ancora prima dell’apertura del Congresso, aveva previsto che l’intransigenza socialista [definita nel Congresso di Milano del 10-15 ottobre dello stesso anno] avrebbe indebolito la corrente collaborazionista del PPI, mentre offriva al fascismo “la possibilità di vivere in rapporti di buon vicinato” con la destra popolare» (E. Gentile, Storia del partito fascista…, cit., 355).
[20]. «Cose italiane», in Civ. Catt. 1921 IV 461.
[21]. Ivi, 462.
[22]. Ivi.
[23]. Mussolini continuò dicendo che i popolari, in ogni caso, erano un partito dilaniato da lotte interne, diviso tra la componente di sinistra di Migliori, che il fascismo doveva combattere, e una destra, che poteva riconciliarsi con la nazione e a certe condizioni dialogare con il fascismo (cfr E. Gentile, Storia del partito fascista…, cit., 369). Importante è anche ciò che Mussolini disse riguardo ai liberali. Sebbene si professasse liberale in economia, il fascismo aborriva il liberalismo politico e il sistema democratico: «Attorno a noi – disse Mussolini – si raggrupperanno i frammenti degli altri partiti costituzionali. Noi assorbiremo i liberali e il liberalismo, perché con il metodo della violenza abbiamo sepolto tutti i metodi precedenti» (ivi, 370).
[24]. Cfr G. De Rosa, Il Partito Popolare Italiano, Roma – Bari, Laterza, 1988, 112.