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L’11 gennaio 2016 Papa Francesco, come di consueto, ha incontrato il Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede per la presentazione degli auguri per il nuovo anno. Durante questo incontro è emersa con forza la prospettiva della misericordia, evocata dal Pontefice nel suo discorso otto volte. Francesco ha visto in questo Giubileo «l’occasione di dialogo e riconciliazione volto all’edificazione del bene comune». Ma ha anche affermato chiaramente: «La misericordia è stata come il “filo conduttore” che ha guidato i miei viaggi apostolici già nel corso dell’anno passato».
In che senso, dunque, si può affermare che la misericordia ha un valore politico? In che modo essa va intesa come una forma dell’agire politico e diplomatico? Cercheremo qui, dunque, di descrivere i tratti di questa diplomazia della misericordia all’interno di un’intelligenza geopolitica che Bergoglio sta mostrando nello svolgersi del suo ministero petrino e, come egli stesso ha adesso confermato, nelle traiettorie dei suoi viaggi apostolici.
La misericordia cambia il senso del tempo e dei processi storici
Dio agisce nella vita delle persone, ma anche dentro i processi storici dei popoli e delle nazioni, pure i più complessi e intricati. Così la misericordia di Dio si inserisce all’interno delle vicende di questo mondo: delle società, dei gruppi umani, delle famiglie e dei singoli[1].
Nella sua prima ampia intervista del 2013, pubblicata su Civiltà Cattolica e in volume, il Papa disse che «Dio si manifesta in una rivelazione storica, nel tempo. Il tempo inizia i processi, lo spazio li cristallizza. Dio si trova nel tempo, nei processi in corso. Non bisogna privilegiare gli spazi di potere rispetto ai tempi, anche lunghi, dei processi. Noi dobbiamo avviare processi più che occupare spazi. Dio si manifesta nel tempo ed è presente nei processi della storia. Questo fa privilegiare le azioni che generano dinamiche nuove. E richiede pazienza, attesa»[2]. «Il tempo è messaggero di Dio» aveva scritto san Pietro Favre (cfr EG 171). Anche la misericordia, per Bergoglio, si distende nel tempo, orientando «le persone verso processi di riconciliazione»[3]. Come dunque agisce la forza della misericordia nel tempo?
Nella sua omelia della Messa del 1° gennaio 2016, 49a Giornata Mondiale della Pace, Francesco ha proposto una riflessione sul significato del tempo e della storia. Citando Gal 4,4, letto nella liturgia del giorno, ha ricordato che Gesù nacque «quando venne la pienezza del tempo». Ma, afferma il Papa, se guardiamo agli eventi della storia, comprendiamo che la «pienezza del tempo» coincide con la condizione di mancanza di libertà del popolo eletto. Quello non era certo il tempo migliore. Conclude il Pontefice: «Non è dunque alla sfera geopolitica che si deve guardare per definire il culmine del tempo». Per Bergoglio, «la pienezza del tempo, dunque, è la presenza di Dio in prima persona nella nostra storia», non un insieme di fattori umani favorevoli. E questa presenza gloriosa si manifesta nella nostra «drammatica esperienza storica».
La pienezza del tempo «sembra sgretolarsi di fronte alle molteplici forme di ingiustizia e di violenza che feriscono quotidianamente l’umanità». Il Papa enumera queste forme in una mesta litania: sopraffazione, arroganza, malvagità, violenza, odio, guerra, fame, persecuzione… Dunque, «un fiume di miseria, alimentato dal peccato, sembra contraddire la pienezza del tempo realizzata da Cristo». Eppure — prosegue Francesco, con un balzo nel discorso —, «questo fiume in piena non può nulla contro l’oceano di misericordia che inonda il nostro mondo. Siamo chiamati tutti a immergerci in questo oceano».
L’immagine dunque è quella di un oceano di misericordia che inonda il mondo, sovrastando il fiume di miseria che lo attraversa. Le immagini fluide sono suggestive. Il rigido alveo di un fiume fangoso è come cancellato da un’inondazione dilagante e inarrestabile d’acqua fresca di sorgente. La presenza misericordiosa di Dio può mutare un tempo di miseria nella «pienezza del tempo». Questa dunque è la potenza della misericordia: mutare il significato dei processi storici, sciogliendone le fangosità e travolgendone i detriti. «Misericordia, questa parola cambia tutto. È il meglio che noi possiamo sentire: cambia il mondo», ha detto il Papa[4].
Non considerare nulla come definitivamente «perduto»
Proprio in questo senso la misericordia, con il suo impatto sul significato teologico della storia, può avere anche un valore politico. Lo hanno compreso in molti, anche fuori dal perimetro ecclesiale. «Questo insegnamento — ha scritto Eugenio Scalfari — non è soltanto religioso, è anche culturale e perfino politico. Non a caso sono molte le persone, non solo nella nostra Italia ma in Europa e in tutto l’Occidente, che giudicano Francesco anche come uno spirito profetico che incide sulla politica, quella alta che si fonda sullo spirito civico e il bene di una Comunità»[5].
Lo ha ben compreso anche il Capo di Stato della transizione della Repubblica Centrafricana, la signora Samba-Panza. Le sue parole di benvenuto al Papa nella città di Bangui, ferita da una guerra civile che ha insanguinato le sue strade, sono forse le prime parole di un Capo di Stato che riconoscono esplicitamente e in un discorso ufficiale il valore politico della parola spirituale «misericordia». Il dono atteso da questa visita del Pontefice — ha detto, tra l’altro — è che il Paese «ritrovi il cammino di una nuova spiritualità saldamente radicata nella tolleranza, nell’amore per il prossimo, nel rispetto della dignità umana e delle autorità stabilite».
La misericordia politica di Bergoglio ha una forte radice teologica, evidentemente, e si fonda su una radice essenziale: il volto di Dio. In fondo, il Giubileo della Misericordia consiste in un nuovo annuncio di Dio ed esprime l’impegno a riaprire in termini non soltanto astratti, ma esistenziali, la questione di Dio, su chi è Dio. Dire che Dio è onnipotente ed eterno significa — come ci ha insegnato san Tommaso — che lo è nella sua misericordia[6]. È ciò che il Papa ha detto durante l’Udienza al Corpo diplomatico presso la Santa Sede, l’11 gennaio 2016: «Il mistero dell’Incarnazione ci mostra il vero volto di Dio, per il quale potenza non significa forza e distruzione, bensì amore; giustizia non significa vendetta, bensì misericordia». Il volto di Dio misericordioso fonda un modo di affrontare l’impegno politico; per questo Francesco ne ha parlato agli ambasciatori.
Concretamente, postulare questa misericordia onnipotente significa pensare la riconciliazione nello scacchiere mondiale come un obiettivo praticabile. Per questo Francesco ha chiesto al Congresso degli Stati Uniti di «superare le storiche differenze legate a dolorosi episodi del passato». E per questo ha chiarito al Corpo diplomatico, nel suo discorso del 2016, che «l’apertura della Porta Santa della Cattedrale di Bangui ha voluto essere un segno di incoraggiamento ad alzare lo sguardo, a riprendere il cammino e a ritrovare le ragioni del dialogo». Il segno della Porta dunque ha avuto per il Papa un chiaro significato politico, soprattutto se lo collochiamo in un Paese che stava vivendo una sorta di guerra civile quale la Repubblica Centrafricana[7]. Questa visione geopolitica comprende l’attenzione alle ferite dolorose che segnano l’umanità nel presente. In quest’ottica vanno intesi i frequenti e accorati appelli contro le violenze nei confronti sia dei cristiani sia di coloro che appartengono ad altre religioni ed etnie.
Che cosa significa la misericordia come categoria politica? In estrema sintesi, possiamo dire: non considerare mai niente e nessuno come definitivamente «perduto» nei rapporti tra nazioni, popoli e Stati. Questo è il nucleo del suo significato politico. Per questo ha scritto Francesco: «È auspicabile che anche il linguaggio della politica e della diplomazia si lasci ispirare dalla misericordia, che nulla dà mai per perduto»[8]. La misericordia riorienta le acque del corso della storia e apre gli argini del determinismo. Questa apertura è ben resa simbolicamente dall’apertura di migliaia e migliaia di Porte Sante nel mondo.
Proprio questa fluidità è il motivo che fa comprendere perché Papa Francesco non sposi mai i meccanismi interpretativi rigidi per affrontare le situazioni e le crisi internazionali. La dinamica della misericordia obbliga — anche concettualmente — a quello che Papa Francesco ha definito nella nostra conversazione del 2013 «pensiero incompleto» o «pensiero aperto»[9].
Una geopolitica «incompleta» e «aperta»
Quali sono le conseguenze di questo pensiero aperto? Per comprenderlo, ne possiamo descrivere alcuni tratti.
«Mai più la guerra! Mai più la guerra!», e «Guerra chiama guerra, violenza chiama violenza!», aveva esclamato Francesco durante l’ Angelus del 1° settembre 2013 a proposito della situazione siriana. Pochi giorni dopo, scrivendo al presidente Putin in occasione del vertice del G20 a San Pietroburgo, Francesco ha affermato: «Duole constatare che troppi interessi di parte hanno prevalso da quando è iniziato il conflitto siriano, impedendo di trovare una soluzione che evitasse l’inutile massacro a cui stiamo assistendo». E così ai leader degli Stati del G20 ha rivolto «un sentito appello perché aiutino a trovare vie per superare le diverse contrapposizioni e abbandonino ogni vana pretesa di una soluzione militare». E ancora, nell’Angelus dell’8 settembre: «Questa guerra di là, quest’altra di là — perché dappertutto ci sono guerre — è davvero una guerra per problemi o è una guerra commerciale per vendere queste armi nel commercio illegale? Questi sono i nemici da combattere, uniti e con coerenza». Le parole di decostruzione e smascheramento della guerra sono state accompagnate da una grande veglia di digiuno per la pace che ha avuto vasta eco internazionale e ha contribuito a fermare i bombardamenti che si stavano preparando.
Oggi, davanti al conflitto intra-islamico tra sunniti e sciiti, che trova anche in Siria un luogo di scontro, queste parole sono quanto mai attuali come messa in guardia davanti al rischio di dover stare al gioco di chi contrappone Riad e Teheran, schierandosi da una parte o dall’altra. Il quadro è estremamente complesso, reso ancora più tale dall’approssimarsi delle elezioni americane e dalle tensioni tra Ankara e Mosca. Ma, per eliminare il cosiddetto «Stato Islamico», servirebbe che sunniti, sciiti, Russia e Occidente facessero causa comune. In sostanza, la posizione voluta dal Papa consiste nel non dare torti e ragioni, perché alla radice comunque c’è una lotta di potere per la supremazia regionale, definita dal Papa «vana pretesa». Non c’è dunque da immaginare uno schieramento per ragioni morali, ma si impone la necessità di vedere il quadro da un’ottica differente.
Sempre in questo quadro va inserito l’impegno per considerare l’Iran come possibile interlocutore non emarginabile[10]. In questo quadro va intesa anche la porta aperta con la Russia di Putin, che è stato ricevuto due volte in Vaticano, nel novembre del 2013 e nel giugno del 2015. Come pure il desiderio di un ponte diplomatico con la Cina di Xi Jinping, oltre quello «aereo» fortemente simbolico e assicurato dal permesso di sorvolo del territorio della Repubblica Popolare già accordato al Pontefice tre volte. Proprio in volo, per due volte il Papa ha espresso sia il desiderio di andare in Cina sia il desiderio di ripristinare rapporti diplomatici e di amicizia. «La Cina — ha detto rientrando dagli Stati Uniti — è una grande nazione, che apporta al mondo una grande cultura e tante cose buone. […] Io amo il popolo cinese; gli voglio bene. Mi auguro che ci siano le possibilità di avere buoni rapporti, buoni rapporti. Abbiamo contatti, ne parliamo… Andare avanti. Per me avere un Paese amico come la Cina, che ha tanta cultura e tanta possibilità di fare bene, sarebbe una gioia».
Va ricordata anche l’importante azione che ha portato a riavvicinare Cuba al continente nordamericano: sia Barack Obama — incontrato in Vaticano nel marzo del 2014 e poi durante il viaggio apostolico negli Stati Uniti nel 2015 — sia Raúl Castro — ricevuto in Vaticano nel maggio del 2015 e poi durante il viaggio apostolico a Cuba quattro mesi dopo — hanno ringraziato pubblicamente il Pontefice per il ruolo svolto[11]. La Santa Sede, inoltre, sta contribuendo alla riuscita del processo di pace fra il governo della Colombia, le Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc) e l’Esercito di Liberazione nazionale (Eln).
La Santa Sede ha stabilito o vuole stabilire rapporti diretti e fluidi con le superpotenze, senza voler entrare in reti precostituite di alleanze e influenze. E questo in un quadro internazionale molto diverso da quello vissuto fino a pochi anni fa e che richiede — in particolare per il Medio Oriente — soluzioni ben diverse da quelle già sperimentate in passato. Francesco lo ha capito, tra l’altro decidendo il viaggio a Sarajevo e verificando la precarietà degli accordi di Dayton. Nel suo incontro con il Corpo diplomatico, ha affermato che la situazione di quella città e della Bosnia Erzegovina «riveste uno speciale significato» non solamente per l’Europa, ma anche «per il mondo intero».
Questa dinamica libera e fluida della diplomazia di Francesco si è verificata in maniera peculiare anche negli Stati Uniti, dove i suoi discorsi non hanno offerto alcuna sponda per confermare l’identificazione del cattolicesimo con le categorie politiche di «conservatori» e «progressisti», o etiche quali pro-life contro pro-choice, o etniche, come, ad esempio, i latinos in opposizione agli irlandesi o ai wasp (bianchi, anglosassoni, protestanti). Papa Francesco ha dunque voluto impedire la possibilità di misurare l’impatto dei cattolici sulla società in termini di influenza e di potere. E — sempre negli Stati Uniti, ma anche in Italia, parlando al V Convegno nazionale della Chiesa italiana[12] — ha evitato accuratamente di appiattire il religioso sul politico e viceversa, non dando alcuna legittimazione per definire una legge dello Stato intrinsece malum né intrinsece bonum. Bergoglio infatti sposa in pieno la critica agostiniana a una religione intesa come «parte essenziale di tutta la costruzione simbolica e immaginaria» che sostiene «la società attraverso un potere sacralizzato»[13].
La misericordia smonta la macchina narrativa dei fondamentalismi
Questa rapida carrellata di posizioni è sufficiente per comprendere come per Francesco la misericordia si delinei politicamente in libertà fluida di movimento, in non accettazione di schieramenti rigidi, in agilità nel costruire ponti fra terre e posizioni distanti. Tutto questo mette in moto logiche imprevedibili, proprie di una visione poliedrica e multipolare. In politica, per Bergoglio, come per Dostoevskij in Memorie dal sottosuolo, che lui tanto ama, non è detto che «due-per-due-quattro», ma potrebbe essere anche «due-per-due-cinque»[14]. La logica qui è flessibile, elastica.
Davanti all’orrore — la Shoah, gli attentati di Parigi… —, la prima reazione di Francesco è quella dello sgomento, non dello schieramento. Anzi, egli tende a evitare radicalmente la logica binaria che divide il mondo in vittime e carnefici. Ricordiamo le parole nel suo discorso durante la visita al Memoriale dello Yad Vashem, a Gerusalemme il 26 maggio 2014, nel quale si è rivolto all’uomo in quanto tale senza alcuna connotazione di vittima o carnefice: «Questo abisso non può essere solo opera tua, delle tue mani, del tuo cuore. Chi ti ha corrotto? Chi ti ha sfigurato? Chi ti ha contagiato la presunzione di impadronirsi del bene e del male?».
In una telefonata a Lucio Brunelli, direttore di TV2000, dopo gli attentati di Parigi del 13 novembre 2015, Francesco ha detto: «Sono commosso e addolorato. Non capisco, ma queste cose sono difficili da capire, fatte da esseri umani. Per questo sono commosso, addolorato e prego». Queste frasi hanno un senso preciso, soprattutto se consideriamo anche il tono di voce con cui il Papa le ha pronunciate: non l’invettiva, ma lo sgomento. Innanzitutto, esse esprimono la condanna più forte possibile, perché riconoscono l’irriducibilità a pensiero chiaro e distinto di ciò che è accaduto nella sua radicale non-umanità. Ma inoltre si comprende bene che il Papa si lascia interrogare senza addomesticare la domanda con letture troppo ovvie.
Il fatto che il Pontefice si scagli contro i trafficanti di armi, senza cadere nella tentazione di identificare una religione con il fondamentalismo, significa che egli mette in campo tutti i fattori politici ed economici che portano a vivere situazioni di crisi. Aveva scritto nell’Enciclica Laudato si’: «Si richiede dalla politica una maggiore attenzione per prevenire e risolvere le cause che possono dare origine a nuovi conflitti». Ma ha anche aggiunto la triste constatazione che «il potere collegato con la finanza è quello che più resiste a tale sforzo, e i disegni politici spesso non hanno ampiezza di vedute» (n. 57). «Se la politica dev’essere veramente al servizio della persona umana — ha ribadito ai membri del Congresso degli Stati Uniti —, ne consegue che non può essere sottomessa al servizio dell’economia e della finanza».
La nota rivista di geopolitica Limes ha commentato acutamente: «Papa Francesco e i suoi collaboratori non offrono benedizioni alle idee e alle strategie che da decenni continuano ad attestare i deficit di comprensione o la malafede delle leadership politiche e intellettuali d’Occidente davanti alle convulsioni mediorientali. Non c’è un parola di Francesco che possa essere strumentalizzata dalle folate antimmigrati che cercano un traino nell’allarme sul terrorismo»[15]. E ancora: «L’insistita predicazione bergogliana sul martirio non si mescola con le campagne dei circoli occidentali che strumentalizzano disgrazie e persecuzioni dei cristiani d’Oriente per fomentare sentimenti islamofobici generalizzati»[16].
A ben riflettere, si comprende che con il suo atteggiamento il Papa svuota dall’interno la macchina narrativa del «califfato», fondata su un millenarismo settario che prepara all’apocalisse e che per questo inneggia alla morte con toni sacrificali, da scontro finale. Per questo la prospettiva di una guerra di terra mossa da eserciti occidentali inviati a combattere i miliziani di un sedicente «Stato islamico» sarebbe il segno atteso che la profezia inizia a compiersi. Quanto di più desiderabile per quella narrativa apocalittica, dunque. Per questo il Papa è molto lontano dai teorici dello «scontro di civiltà».
Ma, di riflesso, così egli svuota di senso anche il millenarismo apocalittico che intende denominarsi «cristiano» e che si pone come giustificazione della guerra contro quello che viene definito in termini religiosi ed etici l’«asse del Male»[17]. Francesco intende smontare questa doppia narrativa dello scontro finale dall’amaro gusto religioso, che nutre la narrativa del terrore e alimenta l’immaginario di jiahidisti e di neo-crociati. Il fondamentalismo non è il prodotto dell’esperienza religiosa, ma una concezione povera e strumentale di essa. Quando parla delle sofferenze e delle atrocità, il Papa non fa distinzione tra i cristiani e «gli altri», anzi si riferisce a «uomini e donne, minoranze religiose, non tutte cristiane, e tutti sono uguali davanti di Dio». Così ha fatto nel volo di ritorno dalla Corea.
Favre, Przywara, Dostoevskij: alle radici della visione bergogliana
Più in generale, l’analisi di Bergoglio è capace di tenere insieme tutti gli elementi di un quadro politico, senza cadere, ad esempio, nella demagogia populista del terrore travestita da difesa delle «radici cristiane», che di fatto invece le strumentalizza. In questo senso Francesco oppone una forte resistenza alla fascinazione per il cattolicesimo inteso come garanzia politica, «ultimo impero», erede di gloriose vestigia, pilastro di argine al declino, davanti alla crisi delle leadership globali nel mondo occidentale[18].
Bergoglio — in questo è un acuto lettore del grande teologo gesuita Erich Przywara, maestro di Hans Urs von Balthasar — postula la fine dell’epoca costantiniana, rifiutando radicalmente l’idea dell’attuazione del regno di Dio sulla terra, che era stata alla base del Sacro Romano Impero e di tutte le forme politiche e istituzionali similari fino alla dimensione del «partito». Se così inteso, infatti, il «popolo eletto» entrerebbe in un intricato intreccio di dimensioni religiose, istituzionali e politiche che gli farebbero perdere la consapevolezza della sua diakonia universale e lo contrapporrebbero a chi è lontano, a chi non gli appartiene, cioè il «nemico»[19].
Con Przywara, Bergoglio riconosce — proprio come è affermato nella Lettera agli Ebrei (13,12) — che i cristiani devono «uscire fuori dall’accampamento per portare l’oltraggio di Cristo»[20]. La Chiesa deve essere in uscita e mai essere una entità chiusa ed escludente. Si tratta di seguire Cristo fuori delle mura della città santa, dove egli muore come un maledetto per poter raccogliere l’umanità intera, anche quella che si crede maledetta e abbandonata da Dio (cfr Gal 3,13).
In questa lotta all’imperialismo e all’integralismo di qualunque segno, Francesco è estremo, e giunge, in maniera provocatoriamente evangelica, a chiamare gli stessi terroristi con un’espressione densa insieme di condanna e compassione: «povera gente criminale»[21]. In filigrana, vediamo sempre il peccatore — in questo caso il terrorista — come il «figlio prodigo» e mai come una sorta d’incarnazione diabolica. Fino all’affermazione davvero singolare per cui fermare l’aggressore ingiusto è sì un diritto dell’umanità, ma è anche postulato come «un diritto dell’aggressore», cioè il diritto «di essere fermato per non fare del male». In tal modo si vede la realtà da una prospettiva duplice, che include e non esclude il nemico e il suo maggior bene. L’amore tipico del cristiano non è solamente quello per il «prossimo», ma quello per il «nemico». Quando si arriva a guardare l’uomo che commette l’orrore con una qualche forma di pietas, trionfa in maniera umanamente inspiegabile — e forse anche «scandalosa» — quella che invece è proprio la forza intima del Vangelo di Cristo: l’amore per il nemico. Questo è il trionfo della misericordia.
Senza questo, il Vangelo rischierebbe di diventare un discorso edificante, non certo rivoluzionario. Quando Francesco si riferisce a questa «povera gente criminale», non parla di «guerra», e tanto meno di «guerra di religioni», ma di «terrorismo». Quindi è vero che «la lotta contro il terrorismo si può fare in tanti modi, con le armi, con il coraggio, con la preghiera. Ma l’approccio del Papa a camminare insieme come fratelli è quello che può avere più ampia rispondenza e più duraturi effetti politici»[22]. È la scelta di Cristo davanti al Grande Inquisitore, così come ce la presenta Dostoevskij nei Fratelli Karamazov: un bacio sulle «labbra esangui» di chi gli annuncia la condanna a morte; un bacio che non fa mutare idea, ma che fa tremare le labbra e che «brucia il cuore»[23].
La «geopolitica» bergogliana intende sciogliere i nodi, fluidificandoli con l’unzione del balsamo evangelico, cioè della misericordia, o almeno ci prova, immaginando una convivenza umana e un’azione politica che parli il linguaggio della riconciliazione con il nemico, senza escluderlo. È proprio questa strategia della misericordia a essere la più osteggiata da jihadisti e «teocon» radicali. Ma lo è anche da posizioni «illuministe», che scaricano le colpe — anche in forme satiriche, come è avvenuto in Francia — direttamente su Dio e sulla religione in generale, e non sui reali colpevoli che hanno un nome e un cognome e che usano il nome di Dio. E invece sono molti a trovare nella loro fede non un carburante all’odio, ma l’energia e il coraggio del perdono.
La traiettoria dei viaggi bergogliani rivela bene la visione politica descritta: è una traiettoria di misericordia. Essa, infatti, considera criterio prioritario permettere al Papa di toccare con mano ferite aperte, compiere gesti di valore «terapeutico». Francesco tocca le barriere come fossero la testa di un malato[24]. Vuole toccare le terre ferite ad una ad una, almeno nominandole — come ha fatto prima di dare la benedizione urbi et orbi il 1° gennaio 2016 —, non vuole fare un discorso generale e astratto valido sempre e comunque. Per questo egli ha toccato la ferita del muro di Betlemme, sul quale ha poggiato la testa in preghiera. Lo ha detto al Congresso degli Stati Uniti: la nostra «dev’essere una risposta di speranza e di guarigione, di pace e di giustizia. Ci è chiesto di fare appello al coraggio e all’intelligenza per risolvere le molte crisi economiche e geopolitiche di oggi».
Così è avvenuto anche quando Francesco ha visitato la Corea senza parlare di Nord e Sud, ma di Paese unito da una «lingua madre». Per questo ha visitato Sarajevo, come si è detto, ma anche l’Albania e Lampedusa, «Porta d’Europa» alla quale ha significativamente donato il Crocifisso ricevuto in dono a Cuba da Raúl Castro. Per questo ha sorvolato il mare che separa e unisce Cuba e Stati Uniti. Il Papa non poteva non toccare queste ferite aperte, dove la misericordia deve declinarsi in chiave politica. E vorrebbe toccarne molte di più, se fosse possibile. Per questo ha voluto assolutamente visitare Bangui, nonostante le forti pressioni diplomatiche e giornalistiche esercitate su di lui e sulla macchina organizzativa.
Il dialogo mosso dalla misericordia non significa innanzitutto discutere insieme sulle idee e sulle posizioni, ma fare qualcosa insieme e innanzitutto «stare» insieme, immergere tutto nella preghiera. Possiamo ritrovare le radici spirituali di questa visione in un gesuita molto caro a Bergoglio e da lui canonizzato: Pietro Favre (1506-1546). Come scrive egli stesso nel suo diario spirituale, un giorno ha sentito di pregare per otto persone insieme «senza pensare ai loro difetti. Erano il Sommo Pontefice, l’Imperatore, il re di Francia, il re d’Inghilterra, Lutero, il Turco, Buccero e Filippo Melantone» (Memorie spirituali, n. 25, 19 novembre 1541). Favre metteva tutti nella sua preghiera. E, oltre alle figure religiose e al Papa Paolo III, troviamo tutti i grandi attori politici del suo tempo: Carlo V, Enrico VIII, ma anche Francesco I e Solimano II, firmatari dell’alleanza franco-ottomana, che causò grande scandalo nel mondo cristiano dell’epoca, e che durò per più di 250 anni. Favre visse il clima fluido e burrascoso della prima metà del Cinquecento e viveva un’unità interiore profonda dovuta alla sua fede nella misericordia di Dio. Così incarnò un’apertura mentale e spirituale nei confronti delle sfide dell’epoca, religiose e politiche. Possiamo cogliere in Papa Francesco la medesima ispirazione di Favre.
Vi è infine una sorta di «estetica» della riconciliazione e dell’armonia religiosa che porta a trovare un linguaggio comune. Oggi c’è bisogno non soltanto di concetti, ma anche di immagini nuove. Abbiamo bisogno di un nuovo immaginario di pace. Il Papa e l’imam che sono insieme sulla papamobile per le strade del quartiere più pericoloso di Bangui costruiscono un’immagine di pace frutto anche dell’amicizia personale che lega l’imam Omar Kobine Layama e l’arcivescovo mons. Dieudonné Nzapalainga. È da questo «stare» e «fare» che è possibile «dire», parlare insieme.
Oltre il «pacifismo»
Ecco dunque che il Papa intende farsi «costruttore di ponti» e vuole invitare altri a fare altrettanto, a essere «pontefici». Francesco lo aveva detto nel suo primo discorso al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede (22 marzo 2013): «Uno dei titoli del Vescovo di Roma è Pontefice, cioè colui che costruisce ponti, con Dio e tra gli uomini. Desidero proprio che il dialogo tra noi aiuti a costruire ponti fra tutti gli uomini, così che ognuno possa trovare nell’altro non un nemico, non un concorrente, ma un fratello da accogliere ed abbracciare! Le mie stesse origini poi mi spingono a lavorare per edificare ponti. Infatti, come sapete, la mia famiglia è di origini italiane; e così in me è sempre vivo questo dialogo tra luoghi e culture fra loro distanti, tra un capo del mondo e l’altro, oggi sempre più vicini, interdipendenti, bisognosi di incontrarsi e di creare spazi reali di autentica fraternità».
La prima barriera da superare con un ponte è l’indifferenza, che separa ancora più dell’odio. L’ indifferenza è il vero opposto della misericordia. Scoprire il vero volto di Dio, il volto del Misericordioso, significa scoprire i legami di connessione, dipendenza, solidarietà che ci uniscono tutti. Dunque, significa sciogliere il nodo che ci rende chiusi verso gli altri sia nella dimensione spirituale sia in quella sociale e politica. È proprio la misericordia l’«arma» di Papa Francesco per la pace nel mondo.
E qui, infatti, ritroviamo il nucleo del Messaggio per la 49a Giornata Mondiale della Pace: «Ci sono molteplici ragioni per credere nella capacità dell’umanità di agire insieme in solidarietà, nel riconoscimento della propria interconnessione e interdipendenza, avendo a cuore i membri più fragili e la salvaguardia del bene comune. Questo atteggiamento di corresponsabilità solidale è alla radice della vocazione fondamentale alla fratellanza e alla vita comune»[25].
Proprio il testo di questo Messaggio fa comprendere un punto centrale del modo di intendere l’impegno per la pace proprio di Bergoglio. La sua esperienza e la sua intelligenza della storia gli impediscono di essere un «pacifista» astratto e ideologico. Egli sa bene che la pace «pura» non esiste e che l’uomo deve sempre affrontare i conflitti, magari «accarezzandoli», come egli ha più volte affermato. Ma il conflitto è ineliminabile nella dinamica dei rapporti umani, e dunque anche in quelli internazionali. Anzi, la stessa pace «comporta una vera e propria lotta»[26] di conquista.
La pace, per Bergoglio, significa agire sui quadranti più delicati della politica internazionale in nome degli «scarti», dei più deboli. Parlando al Congresso degli Stati Uniti, lo ha detto con parole chiare: «Una società politica dura nel tempo quando si sforza, come vocazione, di soddisfare i bisogni comuni, stimolando la crescita di tutti i suoi membri, specialmente quelli in situazione di maggiore vulnerabilità o rischio. L’attività legislativa è sempre basata sulla cura delle persone».
Dentro queste sue parole c’è una meditazione molto profonda sul discorso sul giudizio finale del capitolo 25 del Vangelo di Matteo, uno dei brani che da sempre stanno al cuore del magistero di Francesco, assieme al capitolo 2 della Lettera ai Filippesi: «La misericordia è l’amore che vive la miseria dell’altro come se fosse la propria»[27]. Le iniziative di «pace», in un mondo che vive una drammatica «terza guerra mondiale a pezzi» — oltre 30 pezzi nel globo —, devono essere sempre collegate ai due grandi temi sociali che preoccupano maggiormente il Papa: la pace sociale e l’inclusione sociale dei poveri[28]. I conflitti armati hanno in questi temi sociali la loro radice. Per questo il discorso di Francesco al Corpo diplomatico del 2016 si è concentrato sul tema della migrazione, che produce situazioni di «scarto» e di «debolezza». Il Papa ha chiesto di «stabilire progetti a medio e lungo termine che vadano oltre la risposta di emergenza. Essi dovrebbero, da un lato, aiutare effettivamente l’integrazione dei migranti nei Paesi di accoglienza e, dall’altro, favorire lo sviluppo dei Paesi di provenienza con politiche solidali, che però non sottomettano gli aiuti a strategie e pratiche ideologicamente estranee o contrarie alle culture dei popoli cui sono indirizzate».
Francesco, dunque, non intende proporre una «pace» intesa come «tranquillità» a costo di far calare il silenzio sulle ingiustizie e la difesa dei poveri. La potenza escatologica della sua visione impedisce al Pontefice di proporre tantomeno una «falsa neutralità che ostacola la condivisione»[29]. Riprendendo la Populorum progressio del beato Paolo VI, egli esprime la convinzione che «una pace che non sorga come frutto dello sviluppo integrale di tutti, non avrà nemmeno futuro e sarà sempre seme di nuovi conflitti e di varie forme di violenza» (EG 219).
Ecco dunque che emerge un nome politico per la misericordia: solidarietà, intesa come impegno e responsabilità per il bene comune nel nostro mondo globalizzato. Francesco ha avvertito il Corpo diplomatico (11 gennaio 2016): non si possono «pensare nell’attuale congiuntura soluzioni perseguite in modo individualistico dai singoli Stati, poiché le conseguenze delle scelte di ciascuno ricadono inevitabilmente sull’intera Comunità internazionale». Da questa consapevolezza nasce l’appello ai responsabili degli Stati, che sono «chiamati a rinnovare le loro relazioni con gli altri popoli, permettendo a tutti una effettiva partecipazione e inclusione alla vita della comunità internazionale, affinché si realizzi la fraternità anche all’interno della famiglia delle nazioni». Nell’Evangelii gaudium il Papa non ha esitato a evocare solennemente il giudizio della storia su questi responsabili (cfr EG 224).
Da qui, infine, un invito ulteriore: «Desidero rivolgere un triplice appello ad astenersi dal trascinare gli altri popoli in conflitti o guerre che ne distruggono non solo le ricchezze materiali, culturali e sociali, ma anche — e per lungo tempo — l’integrità morale e spirituale; alla cancellazione o alla gestione sostenibile del debito internazionale degli Stati più poveri; all’adozione di politiche di cooperazione che, anziché piegarsi alla dittatura di alcune ideologie, siano rispettose dei valori delle popolazioni locali e che, in ogni caso, non siano lesive del diritto fondamentale ed inalienabile dei nascituri alla vita». In questi tre punti riconosciamo come la misericordia possa concretamente tradursi in forma politica.
Se vogliamo, è possibile ritrovare anche le virtù fondamentali necessarie per i responsabili delle nazioni. Le riconosciamo tra quelle che il Papa ha proposto alla Curia romana in occasione degli auguri natalizi del 2015: «impavidità e prontezza». Occorre infatti essere impavidi, cioè non lasciarsi impaurire di fronte alle difficoltà, e agire con audacia e determinazione; ed è necessario anche essere pronti per agire con libertà e agilità, senza farsi dominare dall’ambizione.
La misericordia, atto politico per eccellenza
Sono numerose le voci di pastori che hanno fatto appello a considerare le conseguenze politiche della misericordia, sapendo che «essere uomo “capace di misericordia” oggi significa accettare il rischio della carità politica, sottoposta per sua natura alla lacerazione delle scelte difficili, alla fatica delle decisioni non da tutti comprese, al disturbo delle contraddizioni e delle conflittualità sistematiche, al margine più largo dell’errore sempre in agguato»[30].
Il cardinale Luis Antonio Tagle, arcivescovo di Manila, guardando alla situazione del suo Paese, dice chiaramente: «Nella nostra Nazione occorre riportare la misericordia in politica»[31]. Il valore politico della misericordia come lo intende Francesco è stato ben inteso, soprattutto nelle frontiere calde del mondo. Il Patriarca latino di Gerusalemme Fouad Twal, nel suo messaggio di Natale, ha posto davanti a sé la Terra Santa, presa ancora una volta «nel circolo infernale e sanguinoso della violenza». Secondo lui, occorre «trovare quali sono le cause e le radici di questo flagello, e affrontarle. Bisogna lottare contro la povertà e l’ingiustizia, che possono costituire un terreno favorevole al terrorismo e, contemporaneamente, occorre promuovere l’educazione alla tolleranza e all’accettazione dell’altro». A questo titolo, proprio la «via della misericordia» rappresenta una risposta carica di suggestioni, anche sul piano sociale e geopolitico. «La misericordia — sottolinea il Patriarca Twal — non si limita alle relazioni individuali, ma riguarda anche tutti i settori della vita pubblica». E «quando la misericordia diventa una componente dell’azione pubblica, allora riesce a condurre il mondo dalla sfera degli interessi egoistici a quella dei valori umani». Per questo — fa notare il Patriarca — «la misericordia è atto politico per eccellenza, a condizione di considerare la politica nel suo senso più nobile, cioè la presa in carico della famiglia umana»[32].
Ma, se andiamo indietro nel tempo, si deve ricordare che il 21 dicembre 1986 il vescovo di Molfetta, mons. Tonino Bello — del quale è stata introdotta la causa di beatificazione —, rivolgendosi a un gruppo di operatori della politica riuniti per un incontro di spiritualità, ricordò che Giorgio La Pira invitava a pregare contemplando il mappamondo. E proseguì affermando: «L’asse su cui voi politici potete esprimere il dovere della misericordia ha due poli». Essi sono; «Dio, il cielo», da una parte; e «l’uomo, la terra», dall’altra. Un cristiano che si impegna in politica e che «non fa sintesi partendo da questi due punti di fuga, non potrà essere “uomo di misericordia”» e, d’altra parte, «tutto può fare meno che il politico»[33].
Politica e diplomazia gravide di carica profetica ed escatologica
Dobbiamo prendere sul serio queste parole e maturare la convinzione che questo Anno Santo della Misericordia non è e non deve essere considerato un’iniziativa limitata ai credenti cattolici, né è una pratica spirituale legata esclusivamente alla dimensione interiore. «La politica — diceva La Pira — è l’attività religiosa più alta dopo quella dell’unione intima con Dio. Perché è la guida dei popoli, una responsabilità immensa, un severissimo servizio»[34].
Proprio la potenza, anzi l’onnipotenza fluida e pervasiva dell’oceano della misericordia tramuta quest’Anno giubilare in un momento favorevole e umile di incontro dal valore politico, proprio quando il mondo assiste al delirio del terrore tragicamente rivestito di parole dal significato religioso. Oggi più che mai c’è bisogno di una politica e di una diplomazia gravide di carica profetica ed escatologica (cfr Mt 25), convinte che il fiume in piena della miseria umana non può nulla contro l’oceano della misericordia. Perché il vero nome di Dio per tutti gli uomini sulla faccia della terra è «il Misericordioso».
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[1]. La Chiesa stessa descritta da Francesco è pienamente inserita nella città dell’uomo, delimitata dalle pareti flessibili e permeabili della tenda di un «ospedale da campo» (Papa Francesco, La mia porta è sempre aperta. Una conversazione con Antonio Spadaro, Milano, Rizzoli, 2013, 58).
[2]. Ivi, 96; corsivo nostro.
[3]. Papa Francesco, Messaggio per la 50a Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali 2016. Per una riflessione più approfondita sulla dimensione temporale della «misericordia» per Bergoglio rinviamo alla nostra analisi: «Misericordia, il tempo di Dio», in Papa Francesco, La misericordia è una carezza. Vivere il Giubileo nella realtà di ogni giorno, Milano, Rizzoli, 2015, 5-44.
[4]. Papa Francesco, Angelus, 17 marzo 2013.
[5]. E. Scalfari, «Misericordia: l’arma di Papa Francesco per la pace nel mondo», in la Repubblica, 24 dicembre 2015.
[6]. Tommaso d’Aquino, s., Summa Theologiae, II-II, q. 30, a. 4. Cfr Papa Francesco, Misericordiae vultus, n. 6.
[7]. Cfr A. Spadaro, «“Dio è più forte”. Il viaggio di Papa Francesco in Africa», in Civ. Catt. 2016 I 67-86.
[8]. Papa Francesco, Messaggio per la 50a Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali 2016.
[9]. Papa Francesco, La mia porta è sempre aperta…, cit., 31.
[10]. Ricordiamo, tra l’altro, che il Presidente iraniano, Hassan Rohani, è stato ricevuto in udienza dal Santo Padre il 26 gennaio 2016. Egli aveva ascoltato con rispetto Francesco e ha scritto sul suo account twitter: «Islam e il cristianesimo hanno bisogno di dialogo più che mai oggi, in quanto alla base dei conflitti fra le religioni vi è soprattutto l’ignoranza e la scarsa conoscenza reciproca».
[11]. Cfr P. de Charentenay, «Fine della “guerra fredda” tra Cuba e Usa», in Civ. Catt. 2015 I 451-463.
[12]. Cfr G. Salvini, «“In Gesù Cristo il nuovo umanesimo”. Il V Convegno ecclesiale nazionale di Firenze», in Civ. Catt. 2015 I 578-587.
[13]. J. M. Bergoglio, Scegliere la vita. Proposte per tempi difficili, Milano, Bompiani, 2013, 14.
[14]. F. Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, Milano, Rizzoli, 2000, 57.
[15]. G. Valente, «La guerra asimmetrica di Papa Francesco», in Limes, novembre 2015, 126.
[16]. Ivi.
[17]. Cfr ivi, 129.
[18]. Cfr M. Faggioli, Papa Francesco e la Chiesa-Mondo, Roma, Armando, 2014, 77-79.
[19]. Cfr E. Przywara, L’idea d’Europa. La «crisi» di ogni politica «cristiana», Trapani, Il pozzo di Giacobbe, 2013.
[20]. Ivi, 122 s.
[21]. Espressione usata da Francesco nell’incontro con i rifugiati e i giovani disabili presso la chiesa cattolica latina di Betania, il 24 maggio 2014.
[22]. E. Scalfari, «Misericordia…», cit.
[23]. Sappiamo, per altro, che Dostoevskij è al centro di riflessioni di importanti giuristi quali Gustavo Zagrebelsky.
[24]. Cfr A. Spadaro – O. Abboud – A. Skorka, Oltre il muro. Dialogo tra un musulmano, un rabbino e un cristiano, Milano, Rizzoli, 2014, 42.
[25]. Papa Francesco, Messaggio per la 49a Giornata Mondiale della Pace 2016, n. 2.
[26]. Id., Angelus, 1° gennaio 2016.
[27]. Così leggiamo in un volume che, in edizione spagnola, era presente nella biblioteca personale di mons. Bergoglio: B. Bro, Dios necesita pecadores. El libro del perdón, Buenos Aires, Carlos Lohlé, 1972.
[28]. Cfr L. Capuzzi, «La Guerra mondiale a pezzi: ecco dove», in Avvenire, 13 settembre 2014; F. Peloso, «Papa Francesco il diplomatico, la priorità è porre fine ai conflitti», in Vatican Insider, 3 gennaio 2016.
[29]. Papa Francesco, Omelia della Messa del 1° gennaio 2016.
[30]. T. Bello, «Capaci di misericordia», in http://www.paxchristi.it/?p=748
[31]. P. Affatato, «Tagle: “Misericordia in politica e in economia”», in Vatican Insider, 13 dicembre 2015; corsivo nostro.
[32]. Intervista diffusa dall’agenzia Fides, 16 dicembre 2015; corsivo nostro.
[33]. T. Bello, «Capaci di misericordia», cit.; corsivo nostro.
[34]. Citato ivi.