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La Cina, primo Paese colpito dalla pandemia del Covid-19, è anche la prima nazione a cercare di tornare a una certa normalità. È quindi, e doppiamente, un laboratorio, e ciò che vi avviene è di interesse primario per l’intero Pianeta. Inoltre, le specificità del suo sistema politico e sociale sollevano molte domande su come la pandemia influisce e continuerà a influire sui suoi equilibri interni, ma anche sulla sua posizione internazionale. L’insieme di tali fattori determinerà il modo in cui la società globale negozierà l’uscita dalla pandemia, la gestione a lungo termine dei rischi che essa continuerà a comportare, ma anche le relazioni tra attori nazionali, che gli avvenimenti probabilmente avranno reso ancora più difficili di prima.
La negazione… poi lo scoppio dell’epidemia
Nel mese di dicembre 2019 gli operatori sanitari di Wuhan – una città di 11 milioni di abitanti, capitale della provincia di Hubei – devono affrontare a poco a poco il manifestarsi di una polmonite virale che non risponde alle cure abituali. Notano che molti pazienti lavorano nel mercato alimentare di Huanan, le cui condizioni sanitarie sono a dir poco problematiche. Il 31 dicembre le autorità nazionali avvisano l’ufficio di Pechino dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) del possibile scoppio di un’epidemia. Il 1° gennaio 2020 il mercato viene chiuso, ufficialmente per la ristrutturazione, e l’area viene disinfettata[1].
Il ceppo del nuovo virus viene isolato per la prima volta il 7 gennaio. Intorno al 12 gennaio, il numero di pazienti aumenta in modo notevole. Il giorno seguente, la Thailandia conferma il primo caso identificato al di fuori del territorio cinese. Tuttavia, il comune di Wuhan organizza ancora una festa per 40.000 famiglie il 18 gennaio[2], dando così il via ai festeggiamenti per il capodanno cinese, che quest’anno è caduto il 25 gennaio[3].
Il 30 dicembre l’oftalmologo Li Wenliang, intanto, aveva inviato due messaggi su WeChat per avvertire i suoi compagni di studi di quello che stava succedendo. Essi si diffondono al di là del ristretto gruppo a cui sono indirizzati. L’oftalmologo stesso era stato avvertito dalla dott.ssa Ai Fen, direttrice del pronto soccorso dell’Ospedale centrale di Wuhan, che ha subito compreso la gravità del fenomeno. Il 3 gennaio l’Ufficio di Sicurezza di Wuhan invia a Li Wenliang una lettera di rimostranze e poi gli fa firmare una dichiarazione in cui riconosce di aver diffuso voci infondate e di dover astenersi dal farlo, a rischio di sanzioni più severe. Dopo essere stato colpito, il 10 gennaio, dal virus nell’esercizio della sua professione, Li Wenliang pubblica, il 31 gennaio, un resoconto dei problemi avuti con la polizia: è una svolta nella presa di coscienza sociale del ritardo nel rispondere alla minaccia.
La sua scomparsa, all’età di 34 anni, avvenuta il 7 febbraio, scatena sui social network numerosissime reazioni di dolore e di collera, molte delle quali espresse da personalità di spicco. Travolto dalla bufera, il governo istituisce una commissione d’inchiesta sulla gestione dei primi giorni dell’epidemia. Il giovane oftalmologo riceve una riabilitazione postuma e diventa un eroe comunista, devoto alla causa del popolo[4].
La prima settimana di febbraio è il momento in cui le autorità cinesi sembrano in gran parte disarmate, sia di fronte alla natura della minaccia sia rispetto al modo in cui questa attacca il loro sistema di governance. Ma la loro risposta si va concretizzando.
Isolamento e strumentalizzazione
La varietà dei sintomi clinici e, spesso, la difficoltà della diagnosi contribuiscono a ritardare la presa di coscienza della minaccia, forse come dimostra la prima reazione di ripiegamento da parte delle autorità regionali. Il peso relativo dei fattori che hanno portato dapprima a sottovalutare la minaccia rimane oggetto di discussione. Soltanto il 21 gennaio un medico cinese designato dal governo per valutare la situazione riconosce pubblicamente che il virus si trasmette da persona a persona. A partire dal 23 gennaio, Wuhan è in stato di assedio, i suoi abitanti non possono spostarsi, restano confinati nelle loro case. L’intera provincia di Hubei viene subito isolata dal resto della Cina; la strategia di isolamento diventa poi sistematica, sebbene applicata con regole variabili a seconda delle zone.
L’attuazione del contenimento è facilitata dalla struttura della Cina urbana: un po’ ovunque, residenze di diversa dimensione e status sociale hanno il loro spazio ben delimitato da un recinto; l’ingresso è sorvegliato da guardie; un comitato di quartiere diffonde le istruzioni ufficiali. La maggior parte degli abitanti delle città vive in questa situazione. Negli ultimi anni si è tentato, senza troppa convinzione, di rendere più flessibile il sistema di recinzione, ma esso si è dimostrato molto utile nelle circostanze attuali.
Inizialmente colto alla sprovvista, lo Stato si è poi impegnato a diffondere un’immagine «scientifica» e metodica: quella di un’organizzazione in grado di gestire da sola una crisi che, come è stato riconosciuto da Xi Jinping[5], mette alla prova il modello stesso di governance cinese. Allo stesso tempo, ha trovato un nuovo campo di applicazione per le tecniche di controllo sociale sviluppate metodicamente negli ultimi anni: il riconoscimento facciale aiuta a rintracciare e a identificare i trasgressori; essi vengono inseriti nella lista nera legata al sistema del «credito sociale», che ora è più o meno operativo[6]; vengono usati droni per avvisare le persone sbadate o i refrattari a indossare una mascherina; vengono utilizzati robot muniti di sensori per avvicinarsi alle persone che potrebbero essere infette; e viene introdotto un sistema di codice QR per tenere traccia dei movimenti e per poter entrare nei luoghi pubblici.
Connessa e frammentata, una società nello sgomento
La società cinese si è espressa nel fragile spazio di libertà pianificato attraverso i social network. Spazio essenzialmente privato, e soprattutto frammentato, come accade del resto anche in Occidente: più la società cinese è connessa, più lo scambio è limitato solo tra simili. Un tale clima favorisce certamente le dicerie, e l’origine del virus è uno dei temi preferiti. Attribuito da un gran numero di cinesi a un complotto condotto da batteriologi americani, il Covid-19 viene anche percepito da alcuni come il risultato di macchinazioni o di un errore di manipolazione in un laboratorio di Wuhan. In seguito si è persino sparsa la voce che il virus sarebbe apparso in Italia prima di essere scoperto in Cina. Nella maggior parte dei casi, l’importante è affermare che il virus non è «cinese», e su questo punto la società civile e il governo sono ampiamente d’accordo.
Tuttavia i contrasti generazionali sono evidenti. I più anziani riscoprono i riflessi del reclutamento sociale e politico conosciuto in gioventù. I più giovani sperimentano l’alternanza tra la rabbia di fronte alla mancanza di trasparenza e un’apatia rassegnata. Spettacolare è stato e rimane anche il contrasto tra l’epicentro della crisi – Wuhan e dintorni – e la situazione nel resto della Cina. Allo stesso tempo, anche nelle aree relativamente risparmiate dal virus, è chiaro il divario tra una Cina sviluppata, ricca, dotata di mezzi sufficienti per una reazione a lungo termine, e le regioni più svantaggiate.
Una Cina trasformata dall’epidemia
Gli effetti della pandemia sul sistema sociale e politico cinese agiscono in direzioni opposte. Oggi si manifesta l’orgoglio nazionale di fronte alla vittoria riportata sull’epidemia, mentre la maggior parte degli altri Paesi, soprattutto occidentali, sembra più fragile. Un po’ destabilizzato negli ultimi mesi dal conflitto commerciale con gli Stati Uniti e dalle proteste che hanno scosso per lungo tempo Hong Kong, lo Stato è molto attento a insistere sui «sacrifici» compiuti dalla Cina a favore del resto del mondo: il virus non è «cinese», e la Cina è in prima linea in una lotta che essa stessa sta portando avanti per il resto del Pianeta. Sui social network si vedono numerose persone indignarsi per l’«ingratitudine» mostrata dai Paesi occidentali in risposta all’aiuto che la Cina offre al resto del mondo, e si sviluppa una narrativa nazionalista esacerbata presso alcuni, che talvolta arrivano addirittura a predire o auspicare sviluppi militari. Si tratta principalmente di una «retorica di guerra», che contribuisce a mantenere un clima malsano.
D’altra parte, anche se il desiderio di informazioni più trasparenti, meno manipolate, continuerà a manifestarsi (apertamente o in sordina), la Cina non è davvero pronta a cambiare il suo modello «meritocratico». La governance politica e la legittimità tecnocratica dei dirigenti hanno assunto un’aura «scientifica». Gli interventi diretti della società civile nelle questioni veramente importanti sono diventati ancora più difficili da prevedere. Ma la pandemia porterà a un rafforzamento del controllo sociale e dei sistemi tecno-politici associati. Si potrebbe ovviamente immaginare che la crisi provochi nella leadership forti divisioni.
Tuttavia, anche se la massa dei cittadini tornerà alle preoccupazioni della vita quotidiana, una parte della popolazione rischia di uscire da questa lotta tollerando ancora meno di prima la pressione dello Stato. Se si verificherà un tale fenomeno, la sua intensità non basterà senz’altro per imporre riforme durature; tuttavia dovrebbe essere sufficiente per accrescere tensioni, certamente circoscritte, ma che si manifestavano già prima dell’epidemia.
Il sospetto che continua a regnare intorno alle cifre reali dei decessi avvenuti alimenterà tali tensioni[7], soprattutto a Wuhan e nell’Hubei, dove il trauma rimane estremamente doloroso e dove le autorità, insistendo sui problemi di «stabilità sociale», non hanno consentito alla popolazione di esprimere adeguatamente il loro lutto, limitando le cerimonie funebri a tempi di circa 20 minuti.
Inoltre, crea problemi la ripresa economica. I dati del primo trimestre dell’anno indicano tutti una contrazione molto forte, in un momento in cui il peso eccessivo del debito costituisce già un problema, le esportazioni sono a rischio e una politica di ingenti investimenti pubblici, già utilizzata più volte negli ultimi 12 anni, incontra limiti evidenti. Ora, un forte aumento della disoccupazione sarebbe molto destabilizzante. È probabile che, nonostante i suoi pericoli, venga subito intrapresa una politica di investimenti pubblici, ma è difficile che possa durare a lungo. L’incoraggiamento ai consumi delle famiglie e quello dato al riorientamento delle imprese cinesi verso il mercato nazionale sono e saranno ancor più accresciuti. Qualora ciò non bastasse, il malcontento latente si concentrerebbe sul reddito e sull’occupazione. Un altro motivo d’inquietudine è il livello del mercato immobiliare, nel quale numerosi cittadini hanno investito molto.
La Cina di fronte al mondo
La Cina sarà in grado di svolgere un ruolo positivo nella riflessione e nelle riforme globali che si spera possano essere avviate una volta che l’epidemia sarà almeno in gran parte controllata? A livello tecnico, certamente essa contribuirà alle ricerche fitosanitarie, si preoccuperà di eliminare i mercati di animali vivi, che sono stati la causa di diverse epidemie negli ultimi vent’anni, e fornirà assistenza finanziaria o tecnica a Paesi scelti con cura in base a obiettivi strategici. Ma si troverà sicuramente in forte tensione con gran parte della comunità internazionale quando si tratterà di rileggere gli eventi, e vi si sta già preparando attivamente. Essa elogerà senza alcun dubbio il suo modello meritocratico, l’importanza degli strumenti digitali nel controllo delle popolazioni, e criticherà la presunta debolezza dei modelli democratici[8].
In altri termini, c’è pericolo che la crisi del coronavirus sia l’occasione per la Cina di espandere ulteriormente quello che l’analista di Singapore Eric Teo definiva già nel 2004 «un nuovo sistema tributario»[9]. Il classico sistema tributario, che si era affermato durante la dinastia Qing, concedeva favori agli Stati che si riconoscevano dipendenti dalla Cina. Tali favori oggi possono includere investimenti, acquisti preferenziali, aiuti tecnici, supporti diplomatici e così via, a condizione che lo Stato ricevente si allinei a livello diplomatico con Pechino. Nel primo decennio di questo secolo, il sistema era ancora in gran parte limitato all’ambito regionale della Cina; oggi si è diffuso in tutto il mondo. Le «nuove vie della seta» hanno reso sistematico l’uso di tale strumento, e saranno molti i Paesi che, a causa dello shock economico e sanitario, richiederanno questo tipo di sostegno[10].
Inoltre, i valori che oggi si vogliono rivalutare in seguito alla pandemia – sobrietà, trasparenza, solidarietà della società civile – non sono inscritti nel Dna del modello di sviluppo scelto dalla Cina. Le discussioni sull’ordine mondiale da costruire saranno difficili, probabilmente infruttuose.
Se la Cina conserverà un atteggiamento che fa dell’attacco la migliore difesa, il dialogo che deve iniziare rischia di non andare molto lontano. Alcune domande non scompariranno facilmente: quelle sull’origine del virus e sulla sua gestione dei primi giorni; quelle sulla veridicità delle stime fornite durante il periodo del confinamento di Wuhan; quelle sul modo in cui la Cina affronta le conseguenze della pandemia per impegnarsi in una gestione clientelare dei suoi interessi Paese per Paese, o decide piuttosto di intraprendere un cammino più globale e generoso. La Cina deve comprendere che il modo in cui affronterà tali questioni influenzerà radicalmente le sue relazioni con l’Europa e il resto del mondo.
Eppure sarebbe pericoloso e irresponsabile pretendere di ostracizzare questo Paese. La ricerca di possibili punti di convergenza e cooperazione è assolutamente essenziale, come pure non si deve rinunciare a «dire la verità». Pur rimanendo molto lucida nella valutazione dei fattori che abbiamo appena indicato, l’Europa dovrà cercare di avviare con la Cina e con gli altri attori globali un processo che rifondi le basi della cooperazione internazionale di fronte ai pericoli che minacciano l’umanità, comprese le pandemie. Questo processo esigerà che la verità sia cercata ed espressa, ma richiederà anche di guardare al futuro, di coltivare un senso di responsabilità condivisa e di trarre tutte le conseguenze da un fatto la cui realtà è entrata nella nostra carne: l’umanità è davvero accomunata da uno stesso destino.
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CHINA AND COVID-19
China occupies a crucial place in the current crisis, for it was the first Country hit by the pandemic, and the first Country to come out of containment. The way it responds and will react to the situation, as well as the various suspicions that weigh upon the Country, will determine the contours of the new global landscape that emerges. The unknowns remain numerous. This article offers a summary of the established facts; of those that remain debated; and, above all, of the challenges that await us. The need to uncover the truth and the duty to ensure the solidarity of the “community of destiny” that unites humanity will be able to coexist with difficulty. Public opinion and those responsible in Europe and throughout the world are called upon to make a more demanding discernment than any other collective discernment that has happened in the past.
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[1]. Non è certo, tuttavia, che questo mercato sia stato la fonte primaria del virus. Alcuni specialisti in malattie infettive ipotizzano che i primi casi siano stati registrati tra settembre e novembre a Wuhan, ma fuori del mercato. Di recente sono state rilanciate ipotesi sul possibile errore di un Centro di ricerca epidemiologica a Wuhan: due dispacci del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti del gennaio 2018 avevano espresso le loro paure per le condizioni di sicurezza del laboratorio, che aveva beneficiato di «una sovvenzione americana» (cfr J. Rogin, «State Department cables warned of safety issues at Wuhan lab studying bat coronaviruses», in Washington Post, 14 aprile). Questa informazione non dimostra che il virus provenga da questo o da un altro luogo, e nessuna ipotesi è stata verificata con certezza.
[2]. Cfr news.sina.com.cn/, 21 gennaio 2020.
[3]. Il governo cinese ha comunicato così la sua interpretazione dello sviluppo dell’epidemia: Xinhua, «China publishes timeline on COVID-19 information sharing, int’l cooperation», 7 aprile 2020, in www.xinhuanet.com
[4]. Il 2 aprile il Partito ha assegnato a Li Wenliang il titolo di «martire», insieme a molti altri operatori sanitari deceduti.
[5]. Dichiarazione del 25 gennaio, trasmessa da China Central Television (CCTV); Xinhua, «Xi stresses law-based infection prevention, control», in Xinhuanet, 5 febbraio 2020, in www.xinhuanet.com
[6]. Xinhua, «China blacklists individuals for concealing symptoms, violating quarantine», 13 febbraio 2020, in www.xinhuanet.com/. Essere ostracizzati dal sistema significa, ad esempio, non poter acquistare un biglietto del treno o ottenere un credito bancario; si corre anche il rischio di una stigmatizzazione pubblica, un sistema operante in Cina già prima dell’epidemia.
[7]. Le prime domande pubbliche sul numero esatto di morti a Wuhan sono state formulate da un giornale cinese, Caixin, in un articolo del 26 marzo, che faceva riferimento al conteggio delle bare poste in ciascuno degli otto crematori della città. La Cina ha poi rivisto la sua stima del numero di morti a Wuhan durante la pandemia il 17 aprile, aumentandola del 50 per cento. Nel nuovo conto ufficiale, infatti, le autorità spiegano di aver incrociato dati acquisiti nei registri degli ospedali, informazioni fornite da stazioni di polizia ed elenchi di agenzie funebri. Il totale dei decessi ricondotti al coronavirus è stato così innalzato a 3.869.
[8] . Quest’ultima critica sarà in parte provocata dal fatto che due democrazie asiatiche sono state tra i Paesi che finora hanno gestito meglio l’epidemia: la Corea del Sud e Taiwan.
[9] . Eric Teo Chu Cheow, «Paying tribute to Beijing: An ancient model for China’s new power». in International Herald Tribune, 21 gennaio 2004. Cfr Id., «China as the Center of Asian Economic Integration», in China Brief, 22 luglio 2004.
[10]. Cfr «China’s post-covid propaganda push», in The Economist, 16 aprile 2020.