|
From Angels to Aliens, uno studio di Lynn Schofield Clark, ha indagato il modo in cui gli adolescenti cercano le proprie identità spirituali e religiose, attingendo spesso a narrazioni, immagini e personaggi della cultura pop, cioè propri di quelle espressioni artistiche di vario tipo che hanno avuto diffusione di massa a partire dalla seconda metà del Novecento[1]. Gli anni dell’adolescenza, forse più di altri periodi della nostra vita, segnano un momento di esplorazione dell’identità e, al tempo stesso, della propria collocazione all’interno di gruppi di pari.
La studiosa ha notato come gli adolescenti alla ricerca di un senso religioso attingessero alla cultura pop indipendentemente dal loro livello di istruzione religiosa: questi processi esplorativi erano ricorrenti in tutti i vari gruppi di adolescenti oggetto della sua ricerca, che andavano dai «resistenti» (quelli a cui la religione organizzata non interessava, o che addirittura le erano avversi) agli «sperimentatori» (quelli che indagavano un elemento che consideravano un regno soprannaturale) e ai «coinvolti» (quelli che aderivano alla religione organizzata)[2]. Molti materiali utili per questa ricerca le sono stati forniti dalla cultura televisiva, che la studiosa ha esaminato insieme a quegli adolescenti.
Clark ci offre importanti indicazioni sul modo in cui le persone creano narrazioni religiose nella propria vita. Alcune di esse nascono in gruppi collegati a un’esperienza con il sacro o a un vissuto di conversione o a una tradizione.
Senza dubbio le organizzazioni confessionali propongono alcune di quelle che potremmo definire «narrazioni pubbliche» della religione, che danno una certa legittimazione a determinate storie e pratiche, mentre ne delegittimano altre. Resta però il fatto che il singolo individuo si ritiene autorizzato a decidere personalmente che cosa considerare «religioso» o «spirituale», e queste definizioni a volte includono credenze e pratiche che possono stupire chi dà per scontato un collegamento più diretto fra la religione istituzionale e l’identità «religiosa» o «spirituale»[3].
Certamente efficace è quello che Clark definisce il modello della «cultura come strumentario», una sorta di cassetta degli attrezzi, costituita da concetti o idee della cultura «popolare», che ciascuno utilizza come vuole per configurare il proprio io. Uno dei suoi punti di forza è che esso libera le singole persone da una sorta di posizionamento socio-economico, o anche religioso, all’interno della società e sottolinea il fatto che le azioni individuali avvengono «in relazione alle pratiche, o alle abitudini: non soltanto quelle del singolo, ma anche quelle condivise da molti, in quanto coerenti con modi di vedere il mondo che diamo per scontati»[4]. D’altra parte, questo modello può accentuare eccessivamente l’idea che l’individuo sia tutto, dimenticando che la cultura non è separata da noi. «Le narrazioni della cultura popolare, come quelle delle sue religioni, spesso incarnano significati che i loro membri non riescono a esprimere»[5].
I media sono polisemici
Prima di iniziare la fase analitica, la studiosa rinnova il suo monito riguardo ai contesti. Non c’è dubbio che esaminare i rapporti tra espressione pop e credo religioso sia importante, e tuttavia affermare che la prima cambi direttamente il secondo equivale a negare il modo in cui i media tendono a riflettere i valori culturali nell’atto stesso di rappresentarli. Ciò non vuol dire che i media non siano influenti. Dobbiamo però riconoscere che i programmi televisivi e i film sono polisemici, cioè aperti a molti livelli di interpretazione: da quello più ovvio e letterale a quello metaforico e mitico[6]. Lo studio di Clark attesta il fatto che i giovani da lei esaminati – e, per estensione, molte altre persone –, nella ricerca di un significato più ampio della loro esistenza, non esitano ad attingere – anche inconsciamente – alla cultura popolare.
Nel libro Understanding Theology and Popular Culture, Gordon Lynch aggiunge a questa intuizione alcune precisazioni teoretiche[7]. Egli propone quattro grandi aree di sovrapposizione: 1) come la religione si collega con la vita quotidiana; 2) come la cultura popolare svolge funzioni religiose; 3) come le religioni rispondono alla cultura popolare in chiave missiologica; 4) come i gruppi o gli individui religiosi utilizzano «testi» della cultura popolare quali luoghi di riflessione teologica[8].
Lynch fornisce utili informazioni su quanto espresso dal lavoro scientifico in ciascuna di queste aree. Riguardo alla prima, coloro che studiano la religione nella vita quotidiana hanno cercato di guardare ai «modi in cui testi e pratiche culturali popolari hanno influenzato le credenze, le strutture o le prassi di gruppi religiosi»[9]; alle modalità di presenza della religione nella cultura popolare[10]; a «come i gruppi religiosi interagiscono con il più vasto ambito della cultura popolare»[11].
All’interno della seconda area – le funzioni religiose della cultura popolare – Lynch identifica tre ruoli chiave della religione:
- una funzione sociale: la religione offre alle persone un’esperienza comunitaria e le vincola a un ordine sociale di credenze e valori condivisi che fornisce una struttura per la loro vita di tutti i giorni;
- una funzione esistenziale-ermeneutica: la religione offre alle persone un insieme di risorse (per esempio: miti, riti, simboli, credenze, valori e narrazioni) che possono aiutarle a vivere con un senso di identità, con un significato e uno scopo;
- una funzione trascendente: la religione fornisce un mezzo attraverso il quale le persone possono sperimentare «Dio», cioè il numinoso o il trascendente[12].
Questo approccio funzionale, sostiene Lynch, si sovrappone alla cultura pop, perché elementi di quest’ultima (cinema, televisione, arte e, potremmo aggiungere, il mondo della rete digitale) svolgono alcune di queste funzioni per una parte della popolazione.
La terza area indicata da Lynch – la missiologia – implica un movimento che va dalle Chiese verso la cultura popolare: le prime infatti tentano di evangelizzare la seconda attraverso vari tipi di sensibilizzazione[13].
Nella quarta area, Lynch ripercorre la storia delle vie seguite da quanti hanno utilizzato materiali culturali pop come fonte di riflessione teologica[14].
Tre degli approcci teorici di Lynch suggeriscono ambiti in cui la cultura popolare potrebbe svolgere dei ruoli nella formazione della fede: quello di plasmare la cultura in cui vivono i credenti; quello di sovrapporsi alle funzioni della religione; e quello di fornire spazi di riflessione.
Una comprensione al di fuori della teologia
Nella celebre definizione della teologia offerta da sant’Anselmo – «la fede che cerca di comprendere» – possiamo scorgere un metodo generale in cui un individuo parte da una fede e poi giunge a una comprensione più profonda di tale credo. Oltre a illustrare il metodo teologico del suo autore (basato sulle pratiche agostiniane), la definizione descrive anche un atto che ogni credente effettivamente compie a un certo livello, spesso implicitamente: le persone cercano di comprendere le loro credenze, siano esse religiose o secolari.
Clark ha effettivamente documentato questo processo all’interno del gruppo giovanile che ha studiato. In che modo, quindi, le persone cercano questo tipo di comprensione? La studiosa afferma che ogni individuo – in maniera tipica, abituale e di solito teologicamente ingenua – si serve degli elementi che trova a portata di mano, ovvero degli strumenti che la cultura ha preparato per lui. E poiché nessuno di noi esercita questo tentativo di comprendere la fede dal nulla, tutti possiamo trovare abbastanza facilmente espressioni significative di una simile fede che cerca di comprendere. Tuttavia, per chi possiede un profilo teologico più sofisticato, ciò che troviamo presenta due limiti, il secondo dei quali è più grave del primo.
Il primo limite è che la comune comprensione della fede raramente si alimenta o si svolge all’interno di ciò che la comunità accademica e la Chiesa intendono per teologia, ossia testi scritti ed elaborati secondo le regole accademiche o del catechismo. In quella che chiamiamo «teologia popolare» le persone esplorano – e hanno esplorato per secoli – la loro fede sotto ogni forma mediatica a loro disponibile: nell’architettura degli spazi del culto, nelle storie di fede (espresse oralmente), nell’arte, nella musica, nei codici miniati, nelle vetrate, nei graphic novel, nei film, nei programmi radiofonici e televisivi, e oggi anche nei social media.
Il secondo limite della «fede popolare che cerca di comprendere» riguarda le questioni di ortodossia. Ogni espressione di fede richiede di essere interpretata e, come ha documentato Clark, i materiali a nostra disposizione sono polisemici. Le Chiese hanno sviluppato metodi per guidare l’interpretazione e giudicare l’ortodossia delle espressioni di fede: la storia della teologia è costellata di tentativi falliti. Non è detto che la formazione alla fede nel contesto popolare rientri nei limiti del credo ortodosso. A chi spetterà giudicarlo? Il più delle volte la comunità dei credenti tace sulla «teologia popolare», sebbene sia questa a fornirle una base per la riflessione religiosa.
L’immaginaria «signora Murphy» che, secondo il liturgista Aidan Kavanagh, sarebbe «la prima tra i teologi» grazie alla sua devozione e alla sua preghiera, benché carente di formazione teologica formale, offre una prima verifica su un’invenzione sconfinata di idee religiose. Altre verifiche avvengono nell’insegnamento della Chiesa. Tuttavia, anche se la teologia accademica, quella catechetica e quella del seminario si riferiscono alla riflessione sulla fede più astratta o più sviluppata, non è da lì che la maggior parte delle persone prende le mosse per la propria riflessione sulla fede. Molti partono dalla sua dimensione popolare, e quindi noi dovremmo prendere tale dimensione sul serio.
In seguito svilupperemo questi due punti, soffermandoci maggiormente sul primo, ma offrendo anche alcune strategie per affrontare il secondo e per trasformarlo in un processo di formazione della fede.
Processi di formazione della fede
La nozione di «formazione della fede» si riferisce, da un lato, al suo insegnamento formale, alle pratiche spirituali, alla crescita della vita comunitaria e così via (mediante le lezioni, il culto, le omelie, la direzione spirituale, la lettura spirituale o altre attività organizzate); dall’altro, all’appropriazione informale, autodiretta o culturale, della fede. Se la prima forma si svolge nelle aule e nelle chiese, ben riconoscibili sotto il profilo accademico ed ecclesiastico, la seconda avviene in gran parte attraverso la teologia popolare. Quest’ultimo tipo di formazione della fede è ovviamente diverso dal primo, ma ha la stessa importanza delle pratiche dell’insegnamento formale; pertanto, sarebbe un grave errore ignorarlo.
Poiché già altri studiosi si sono dedicati alla formazione della fede più formale, noi qui ci concentreremo sulla seconda prospettiva, ovvero su quella formazione alla fede che passa attraverso la teologia popolare.
La nostra vita è caratterizzata da riflessioni sulla fede. Ogni volta che entriamo in una chiesa, abbiamo sotto gli occhi la testimonianza di come le generazioni che ci hanno preceduto abbiano compreso il loro credo: dagli altari di pietra nelle chiese cattoliche (che indicano il sacrificio della Messa) alle immagini dei santi (che manifestano la comunione dei santi nel Corpo di Cristo). Le persone si raccontano storie di fede: pensiamo ai tempi in cui le nostre nonne spiegavano che «Dio ha un progetto su di te», o a quando i genitori rassicuravano i bambini raccontando che i loro angeli custodi vegliavano su di loro. Ciascuna di queste storie comportava un’affermazione teologica. Troviamo analoghe espressioni di fede negli inni che cantiamo, e persino nella musica popolare che ascoltiamo, nell’arte che ci aiuta a vedere Dio nella natura[15], nel cinema e alla televisione[16], attraverso i social media, e in tanti altri mezzi di comunicazione in cui c’imbattiamo tutti i giorni. Gran parte di questo tipo di formazione della fede avviene inconsciamente: lo apprendiamo dalla cultura che ci circonda, mentre assorbiamo tante altre cose che diamo per scontate.
Possiamo vedere questo processo in atto nel cinema e alla televisione, che probabilmente sono due dei più potenti mezzi di comunicazione attraverso i quali la cultura influisce su di noi. George Gerbner e i suoi colleghi studiosi di scienze della comunicazione hanno proposto la «teoria della coltivazione» per spiegare il modo in cui i media ci influenzano[17]. L’hanno anche sperimentata per oltre 20 anni, verificando come gli individui interpretino il loro mondo in base alle suggestioni della televisione. Essi notano che «la televisione è un sistema centralizzato di narrazione. È parte integrante della nostra vita quotidiana. Gli spettacoli, gli spot pubblicitari, le notizie e altri programmi portano in ogni casa un mondo relativamente coerente di immagini e messaggi comuni»[18]. Alcuni ribattono che questa teoria pretende troppo o che dà per scontato ciò che si propone di dimostrare. Ma essa effettivamente ci offre un modo per capire come le persone imparano a interpretare i loro mondi religiosi.
Questa teoria si può facilmente estendere ai social media. Sebbene non siano un sistema centralizzato come la televisione, essi forniscono una narrazione adatta a ogni utente, dal momento che le persone tendono a scegliersi le loro reti sociali. I social media possono rafforzare le influenze culturali anche più della televisione. In entrambi, comunque, le persone utilizzano spiegazioni «preconfezionate» su come opera il mondo per modellare le proprie credenze.
Possiamo analizzare questo processo forse in modo meno deterministico, pensando al rapporto tra il cinema e la fede. Per molti registi, il loro modo di intendere la fede coinvolge le loro scelte di temi, personaggi e materiali. Fin dalle origini della storia del cinema, molte narrazioni bibliche hanno offerto motivi interessanti di carattere epico e spettacolare, trovando grande risonanza nel pubblico; più di recente, questo si è verificato per il film di Mel Gibson La passione di Cristo (2004). Questo tipo di approccio tende semplicemente a illustrare storie bibliche con interpretazioni teologiche tradizionali. Il film diventa una narrazione visiva che reintroduce nella vita delle persone molti degli aspetti che appaiono negli edifici di culto.
Inoltre, Richard Blake ha sottolineato come la teologia – spesso assorbita fin dall’esperienza religiosa dell’infanzia – impregni quella che lo studioso definisce l’«immaginazione sacramentale» dei registi, quella di cui essi si servono anche quando raccontano storie ordinarie. I mondi che essi creano sono pieni di potenziale teologico.
Scrittori e registi più sofisticati o ambiziosi affrontano la riflessione sulla loro fede da altre prospettive. Per esempio, creano un mondo (teologico) e pongono queste domande: «Che cosa succede se si verificano queste cose?»; «Qual è il comportamento morale delle persone in tale situazione?». Troviamo molti esempi di questo tipo di operazione in diversi film popolari. Ad esempio, il regista americano Clint Eastwood esplora i temi del perdono (nel film Gli spietati, 1992), o della scelta morale (in Million Dollar Baby, 2004), o dell’amore per il prossimo (in Gran Torino, 2008).
Molti commentatori hanno elencato decine di film popolari intrisi di temi teologici. Sono le caratteristiche stesse del cinema a determinare i modi in cui i registi riflettono sulla propria fede, secondo canoni sia narrativi sia esplorativi, invitando il pubblico ad addentrarsi a sua volta in una riflessione sul possibile significato di tali situazioni. Dalle considerazioni degli spettatori sui film, Lynch trae gran parte del materiale per illustrare la sua quarta area di intersezione tra la teologia e la cultura popolare.
Allo stesso modo, anche la televisione offre alle persone opportunità per mettere in discussione o per comprendere la propria fede, ma generalmente lo fa più a lungo termine, consentendo quella «coltivazione» delle credenze indicata da Gerbner.
Come i film, anche le serie televisive creano una sorta di mondo alternativo, un mondo fittizio, e invitano le persone a riflettere su ciò in cui credono a seconda del ruolo svolto da quella fede in vari scenari ideati dagli scrittori e dai produttori. Serie recenti come le statunitensi Lost (2004-10) e The Good Place (2016-20), quella indiana Typewriter (2019), o di più vecchia data, come la statunitense Buffy The Vampire Slayer (1997-2003), non soltanto sollevano questioni sul soprannaturale, sulla responsabilità personale e comunitaria, ma offrono anche risposte a quelle domande che presuppongono una particolare scelta di fede.
Per certi versi questi programmi fanno da commento a testi precedenti, proprio come la Chiesa medievale aveva elaborato commenti sui materiali ricevuti dai Vangeli, drammatizzandoli. Il modello rimane lo stesso: il mezzo di comunicazione offre l’opportunità o la convenienza per un tipo di pensiero che non si può esprimere in un testo scritto.
Così pure, il loro retroterra teologico e la loro formazione spinge i produttori a un approccio e a un’interpretazione particolari. Per Blake, si tratta di un’«immaginazione teologica indelebile», che plasma la nostra riflessione. Per gli ideatori di film e di programmi televisivi le prime esperienze esistenziali nei campi dell’arte, della musica, del culto religioso e delle relazioni familiari forniscono un criterio spesso inconscio per comprendere Dio. D’altra parte, questa prospettiva determinerà come tali registi e tali sceneggiatori descriveranno e creeranno nuovi mondi nei loro media. E questi, a loro volta, potranno indirizzare il pubblico e i giovani verso la teologia.
Clark descrive questo processo in modo molto più dettagliato, attingendo alle interviste fatte agli adolescenti. Pur nella varietà dei riscontri specifici, le persone riflettono sulla loro fede partendo dai contenuti di cui dispongono. Ad esempio, le raffigurazioni degli angeli (online, nelle chiese, nelle immaginette o nei film) le inducono non soltanto ad accettare la realtà degli angeli, ma anche a raffigurarseli in maniere particolari.
La studiosa riferisce che molti adolescenti non religiosi «ritenevano che i media non avessero nulla a che fare con la religione»[19]. Ma ciò non significa che essi non abbiano usato costrutti mediatici per dare un senso ai loro mondi. Le loro esperienze riflettono la descrizione, fatta da Lynch, delle funzioni sociali ed ermeneutiche della cultura e della religione popolare: fornire un’esperienza di comunità e offrire una serie di strumenti o di immagini per dare un senso al proprio mondo.
L’accesso agli elementi costitutivi della teologia pop trova opportunità ancora maggiori nei social media. Tuttavia ciò si verifica meno nelle lunghe forme narrative del cinema e della televisione e più nelle brevi forme dei clip di YouTube, dei meme, della musica popolare e delle idee condivise. Semmai – e su questo argomento si è indagato ancora poco – questo mondo più frammentato presenta una riflessione meno strutturata sulla fede. Ma la funzione propria dei social media rende le persone più propense ad accettare un’ermeneutica online.
La portata stessa e la natura imprescindibile della teologia popolare implicano che essa eserciti un’importante formazione della fede in ogni segmento della cultura. Negli Stati Uniti, con la loro vasta gamma di religioni e la riluttanza a criticarle pubblicamente, la teologia pop tende adesso a esprimere un teismo generalizzato o, forse per l’emergere di gruppi cristiani di alto profilo, una sorta di cristianesimo generalizzato, intriso di eufemismi riguardo alla sofferenza, alla morte e al sacrificio. In un tale mondo, come potrebbe funzionare la formazione della fede legata a un credo specifico, ad esempio il cattolicesimo?
Un approccio dialogico
Poiché la teologia pop offre di rado «teologie» coerenti o sistematiche – e senza dubbio i media attraverso i quali si diffonde non consentono questo tipo di riflessione –, occorre compiere un ulteriore passo perché questo tipo di formazione della fede si traduca in un dialogo con la formazione più tradizionale. Questo passo conduce al confine con le questioni dell’ortodossia. Poiché esso riguarda la formazione della fede, gli insegnanti non dovrebbero partire dagli errori della teologia popolare, o imporre un’attenzione forzata al catechismo; invece, un programma di formazione della fede dovrebbe basarsi su ciò che i giovani hanno già acquisito e offrire loro una struttura. A questo punto si manifestano due compiti: indurre le persone a osservare con spirito critico ciò che assorbono inconsciamente, cioè a tematizzarlo; imparare a esprimere le proprie riflessioni personali sulla fede, ma in dialogo con la fede della Chiesa.
I contenuti della teologia pop rimangono sempre aperti all’interpretazione; quindi, un primo passo consisterà nell’invitare i giovani a esprimere innanzitutto la loro comprensione della realtà di fede. In questo caso la discussione si potrebbe concentrare semplicemente sugli elementi della cultura popolare. Gli insegnanti dovrebbero prendere sul serio tali elementi, dal momento che la cultura racchiude un primo approccio alla fede e manifesta preoccupazioni più vicine al pensiero della gente rispetto al catechismo tradizionale.
Questo approccio dialogico affonda le radici in un’area di comunicazione diversa dagli studi sui media: mira a creare un legame di fiducia e di rispetto reciproci, in quanto sia l’insegnante sia lo studente passano da un’appropriazione inconscia della fede a una consapevole. Queste discussioni trovano un appoggio nella pedagogia religiosa[20] e consentono agli insegnanti di aiutare gli studenti a giungere a una comprensione corretta di quelle aree che essi stessi hanno individuato come meritevoli di riflessione.
Un secondo passo guida gli studenti dal mero assorbimento alla creazione. Finora la maggior parte di essi si è limitata a ricavare immagini e temi dalla cultura popolare e a utilizzarli per dare un senso al proprio mondo. Il processo di formazione della fede deve andare oltre, per aiutare le persone a comprendere sia l’impatto dei contenuti dei media sia come funziona la creazione dei contenuti. Non si tratta di un processo complicato che richieda competenze mediatiche. Ognuno di noi può raccontare storie di fede; può immaginare come esse potrebbero tradursi in forme visive (grafica, video ecc.) o in contesti musicali. La maggior parte di noi ha, a questo proposito, abilità maggiori di quanto si possa immaginare. Se si incoraggiano le persone a utilizzare forme diverse e popolari per esprimere la propria fede, il programma di formazione della fede può rafforzare quelle funzioni chiave individuate da Lynch sia per la cultura pop sia per la teologia: 1) creare una comunità; 2) creare un significato esistenziale o ermeneutico, cioè dare un senso religioso al mondo; 3) offrire un’esperienza del trascendente.
Innanzitutto, dalle discussioni sulla cultura e sulla fede «popolare» scaturisce un più profondo senso della comunità. Inoltre, le persone possono cooperare per esprimere il loro modo di intendere quello in cui credono secondo le diverse forme dei media, e anche questo è un modo per creare un senso di comunità. In secondo luogo, il processo stesso di provare a esprimere la propria fede nei diversi media aiuta chi lo intraprende – lo studente, la classe ecc. – a raggiungere una comprensione più sistematica nell’ambito della fede istituzionale. Così le persone sviluppano processi ermeneutici più organizzati: interpretano la propria esperienza religiosa per gli altri, e lo fanno all’interno della tradizione della Chiesa[21]. Inoltre, il processo creativo insegna loro come offrire una critica della teologia popolare, in quanto ne vivono le sfide in prima persona. Infine, questo processo creativo può aiutare gli individui a sperimentare qualcosa di trascendente, anche solo partecipando alla potenza creatrice di Dio.
L’uso della teologia popolare nella formazione della fede può collegare i suoi due versanti – quello formale e quello informale – sulla base delle esperienze vissute e delle domande di coloro che cercano di comprendere la propria fede.
Copyright © 2020 – La Civiltà Cattolica
Riproduzione riservata
***
“POP” THEOLOGY AND COMMUNICATION
Based on some evidence offered by studies on communication, the Author argues that popular theology – i.e. a theology prompted by pop culture – offers a starting point for theological education and faith formation of many young people. This article commences by taking into consideration certain acquisitions from studies concerning young people; then some theoretical elements are presented; and finally, faith formation is examined in this light, linking it with pop culture.
***
[1]. Cfr L. S. Clark, From Angels to Aliens: Teenagers, the Media, and the Supernatural, Oxford, Oxford University Press, 2003.
[2]. Cfr ivi, 20 s.
[3]. Cfr ivi, 12.
[4]. Ivi.
[5]. Ivi, 13.
[6]. Ivi, 47.
[7]. Cfr G. Lynch, Understanding Theology and Popular Culture, Oxford (UK) – Malden (MA), Blackwell, 2005.
[8]. Cfr ivi, 21.
[9]. Ivi, 22.
[10]. Cfr ivi, 23.
[11]. Ivi, 24.
[12]. Cfr ivi, 28.
[13]. Cfr ivi, 33.
[14]. Cfr ivi, 36.
[15]. Cfr G. T. Goethals, «The Imaged Word: Aesthetics, Fidelity, and New Media Translation», in P. A. Soukup – R. Hodgson (edd.), Fidelity and Translation: Communicating the Bible in New Media, Franklin (WI), Sheed & Ward, 1999, 133-172.
[16]. Cfr R. A. Blake, Afterimage: The Indelible Catholic Imagination of Six American Filmmakers, Chicago, Loyola Press, 2000.
[17]. Cfr G. Gerbner – L. Gross – M. Morgan – N. Signorielli, «Living with Television: The Dynamics of the Cultivation Process», in J. Bryant – D. Zillman (edd.), Perspectives on Media Effects, Hillsdale (NJ), Lawrence Erlbaum, 1986, 17-40.
[18]. Ivi, 18.
[19]. L. S. Clark, From Angels to Aliens…, cit., 20.
[20]. Cfr M. Hess, «A New Culture of Learning: Implications of Digital Culture for Communities of Faith», in Communication Research Trends 32 (2013/3) 13-20.
[21]. Cfr J. Shea, Stories of Faith, Chicago, The Thomas More Press, 1980, 77 s.