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Dopo il tramonto, ogni sera, gli adolescenti si radunano nella piazza sotto le finestre della mia camera al quinto piano. Non sono chiassosi, no: sono solo giovani. E da queste parti, a quanto pare, significa che parlano e cantano; quindi bevono, e riprendono a cantare. Poi si siedono e ridono e cantano nell’oscurità sotto la mia stanza. Questo spiega perché non riesco a dormire. Ma ho bisogno di sonno, perché sono malato.
Due settimane dopo, non sono più malato e non ho problemi per dormire. Presumo che da qualche parte quegli adolescenti staranno ancora ridendo, cantando e bevendo, ma in questo periodo di quarantena non vengono più sotto le mie finestre. Mi mancano.
In una giornata limpida la vista è spettacolosa. A nord sono visibili le cime delle Alpi innevate. A sud, se mi sporgo abbastanza, la Madonnina dorata corona il campanile del Duomo; e, stretto alle sue gonne appena fuori vista, c’è il famoso Teatro alla Scala.
Milano. In un giorno normale un visitatore la troverebbe signorile e vivace, storica e moderna, affaccendata e affollata; una città sempre più prossima all’ideale platonico dell’Europa cosmopolita. Ma molto è cambiato.
Poiché sono arrivato qui solo all’inizio di marzo, integro e sano, non saprei valutare quanto. La notizia che il coronavirus si diffondeva in Lombardia è comparsa sui radar americani solo il giorno prima che lasciassi New York. E, pur con un preavviso così breve, il mio volo notturno sull’Atlantico era quasi vuoto. Senza turbarmi, ho reclinato il sedile e mi sono addormentato.
Atterrando a Milano Malpensa l’indomani mattina, dopo una rapida scansione della temperatura da parte di una coppia di operatori sanitari mascherati, oltrepassai la dogana quasi senza scambiare una parola. Presi un treno, e poco più tardi ero sulla soglia dell’edificio in cui avrei dovuto alloggiare: l’Istituto Leone XIII, una scuola dei gesuiti a nord-ovest del centro di Milano.
Era un martedì mattina, e mi ero preparato agli scenari e ai suoni di un liceo, al brusio di mille ragazzi e ragazze. Niente di tutto ciò. Le scuole, insieme ai musei e agli eventi sportivi e a tutte le occasioni e circostanze che portano le persone a riunirsi in misura significativa, erano state chiuse il giorno prima. Al mio arrivo, la piazza antistante era vuota, le luci dell’ingresso erano spente, un cancello in acciaio nero sbarrava le porte di accesso che, dopo qualche squillo di campanello, mi furono aperte da un prete anziano e distinto.
Ma la città, sebbene ai miei occhi di straniero appaia rallentata, non sembra né senza vita né sovrastata dalla paura. Piuttosto sembra paziente, attenta; come una balena che si è appena immersa dopo essersi riempita i polmoni di aria: sì, alla fine dovrà tirare un nuovo respiro. Ma non ancora.
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Confesso che per me, educato come sono alla nostra risposta americana a crisi del genere, questa pazienza è un enigma. Già una bufera di neve induce noi statunitensi a svuotare gli scaffali dal pane e dal latte. La nostra reazione razionale al panico ci porta a preparare ciò che può essere preparato e a procurarci ciò che possiamo procurarci.
Conosciamo la logica delle circostanze; è incisa nei nostri ricordi più profondamente di qualsiasi canzone ci abbiano cantato le nostre madri: Devo comprarne ancora. Devo proteggere quelli che amo. Devo comprarne ancora. Se resteranno senza, non mi perdonerò mai. Devo comprarne ancora.
Questo non vuol dire che gli americani non siano un popolo generoso: lo siamo. Ma soprattutto siamo pragmatici, e la nostra risposta abituale, anche nei periodi di abbondanza, è costruire granai più grandi in cui immagazzinare il grano.
Essere inserito in questa diversa melodia sociale, per me – gesuita, prete –, è stata una penitenza quaresimale particolarmente adatta.
Qui va diversamente. Non è questione di una maggiore capacità di altruismo o di una miracolosa abbondanza filantropica. Le persone non sono più eroiche, né ci sono più beni reperibili. E chissà, anche Manhattan, dove normalmente abito e dove ora i letti dell’ospedale sono pieni ed è ormeggiata la Usns Comfort, forse sembra diversa.
Ma qui è come se fosse cambiato leggermente quel ritornello familiare che avevo imparato a cantare in risposta al verso della paura. Dalla chiave di do al si minore. Come se sugli spartiti che la città sta eseguendo ci fossero delle istruzioni scritte a mano che fanno: rallentando; più piano.
Devo ripeterlo: essere stato inserito in questa melodia sociale, per me – gesuita, prete –, è stata una penitenza quaresimale particolarmente adatta. È come se Milano, in quarantena, mi avesse chiesto di rinunciare alla versione della nostra risposta americana per timore che l’avrei messa in pratica qui: lo sforzo incessante di controllare, dominare, definire, e quindi sancire ciò che è realmente reale e veramente vero. E così essere sicuro.
A differenza degli italiani che cantano dai balconi a Napoli, a Siena e a Roma, ancora non sono bravo a cantare questa canzone.
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Alla metà del III secolo, san Cipriano fu vescovo di Cartagine, città le cui rovine oggi si trovano sotto un sobborgo di Tunisi. Tranne che per qualche teologo e storico della tarda antichità, il mondo conosce Cipriano soprattutto per una cosa: c’è un morbo che prende il suo nome. Nel corso di circa vent’anni, la «peste di Cipriano» si fece strada nell’Impero romano; dall’Etiopia alla Scozia, devastò le popolazioni delle città e delle campagne; fu tra i fattori che minarono le basi di un Impero che si stava lentamente disintegrando.
Quella peste non porta il nome di Cipriano perché egli ne fu responsabile, e nemmeno perché vi pose fine, ma perché ne scrisse. Conosciamo qualcosa dei suoi effetti grazie al suo De mortalitate, un sermone scritto per confortare i fedeli nel bel mezzo dell’epidemia.
È grazie alla sua opera che sappiamo, per esempio, come quella malattia insorgesse con una febbre altissima, che iniziava, come egli ha scritto, «nelle più intime profondità» e ardeva all’esterno, causando «ferite alla gola». Così sappiamo che sconvolgeva l’intestino a tal punto che non si poteva trattenere alcun nutrimento e che gli occhi «bruciavano per la forza del sangue» che pulsava nel corpo. Dal suo breve panegirico apprendiamo come molti di coloro che contrassero il morbo ne rimasero assordati, accecati o paralizzati.
Ed è la succinta descrizione di Cipriano che ha permesso agli storici dell’epidemiologia di ipotizzare che la sua peste fosse, con ogni probabilità, una qualche forma di febbre emorragica virale – un filovirus come l’Ebola – o un virus altamente contagioso che causava patologie respiratorie acute. Come il nostro Covid-19.
E proprio come noi oggi stiamo scoprendo che i confini nazionali non sono sufficienti a contenere la minaccia di una pandemia come questa, così quegli antichi cristiani appresero che la malattia non faceva distinzioni di credo. Soffrivano né più né meno dei loro vicini. E, come gli uomini di ogni epoca, volevano sapere perché.
In effetti Cipriano non rispose a tale domanda. Piuttosto che tentare di dare una spiegazione a quelle persone – con cui aveva trascorso la vita, al cui fianco aveva lavorato, con cui aveva mangiato, e aveva dormito porta a porta, e si erano disposte davanti a lui nel santo sacrificio –, il vescovo invece ricordò loro che speravano nella vita eterna e chiese di cercare in un altro modo il significato della loro sofferenza in questo mondo.
Come gli uomini di ogni epoca, essi volevano sapere perché.
Cipriano rispose incitandoli a considerare non la causa del morbo, ma la risposta che gli davano. Ecco le sue parole: «Insomma, fratelli carissimi, […] come potrebbe essere necessario che questa pestilenza o epidemia che appare orribile e mortale metta a nudo la nostra identità e scruti i comportamenti del genere umano? Essa, la peste, serve se coloro che sono sani aiutano gli infermi; se i congiunti amano pietosamente i loro parenti, se i padroni sentono compassione dei loro servitori malati; se i medici non trascurano i malati che invocano la loro opera»[1].
Cipriano chiese al popolo di Cartagine di considerare che quell’epidemia portava con sé delle domande: chi sta bene si prende cura dei malati? I medici accudiscono i loro pazienti? I ricchi mostrano compassione per i poveri?
Nei giorni del declino dell’Impero romano, Cipriano invitava le persone spaventate dagli effetti di una terribile peste ad avvicinarsi alla sofferenza, a sfidare la vicinanza del pericolo, a mettersi a rischio per gli altri.
Oggi vediamo e onoriamo ancora quel genere di scelte negli operatori sanitari, nei commessi dei negozi di alimentari e in tutti coloro che sono in prima linea nella nostra pandemia. Essi ci insegnano, come Cipriano, che dobbiamo domandarci di continuo se abbiamo il coraggio di avvicinarci a coloro che soffrono. E che non possiamo farne a meno.
* * *
In quelle mie due prime settimane a Milano, prima che il distanziamento sociale diventasse disciplina sociale, ho fatto del mio meglio per impostare le mie giornate. E poiché la mia ricerca – una delle due ragioni per cui ero venuto in Italia, oltre che per studiare la lingua – era andata a gambe all’aria, iniziai a riprendere le mie abitudini di Manhattan. Mi svegliavo, mi vestivo, bevevo un «caffè lungo», assurdamente piccolo, prodotto da una macchina alta quasi quanto me e trascorrevo qualche tempo nella cappella prima di rientrare nella mia stanza per frequentare lezioni di italiano, che a quel punto, come in tanti altri casi, avvenivano per videochat.
Cipriano invitava le persone spaventate dagli effetti di una terribile peste ad avvicinarsi alla sofferenza, a sfidare la vicinanza del pericolo, a mettersi a rischio per gli altri.
Poi, nei pomeriggi, con la mente che ancora mi ribolliva di «non capisco» e «sbagliato» e dei mille significati della particella «ci», camminavo per la città. Allora era silenziosa, ma non ansiosa. Diradata, ma non vuota. C’era ancora il gelato, e le chiese erano visitabili; i cani venivano portati a spasso, e gli anziani giocavano a bocce nel parco.
Dopo, tornavo a casa nella scuola vuota, mi scuotevo la pioggia dalle spalle per andare a celebrare la Messa e poi cenare con la comunità dei gesuiti. Avremmo avuto da mangiare pasta e prosciutto; avremmo bevuto vino bianco, e forse un po’ di grappa come digestivo. Per lo più trascorrevo quei pasti in silenzio, facendo del mio meglio per seguire il rapido crepitio di parole che mi circondava, fino a quando il superiore della comunità, p. Giancarlo Bagatti, attento e paziente, mi chiedeva della mia giornata. Da uomo cortese qual era, senza neanche accorgersene, rallentava il ritmo perché potessi cogliere il significato delle sue parole: «Che cosa hai fatto oggi?».
Padre Bagatti ha l’anima di un gentiluomo italiano. Quasi ottantenne, sembra di vent’anni più giovane. Sorride spesso, stringe la sigaretta fra tre dita, propone sempre un brindisi prima di bere il primo sorso di vino. Era stato lui ad aprire il cancello della scuola rispondendo al mio nervoso scampanellare di quella prima mattina, venendomi incontro con il clergyman nero, classico, impeccabile. I suoi folti capelli bianchi erano pettinati all’indietro con un ciuffo in risalto, e un soprabito di lana gli pendeva dalle spalle. Quando allungò la mano e strinse delicatamente la mia in segno di saluto, fu come se fossi sceso da un aereo per ritrovarmi dentro The Irishman.
Faccio del mio meglio, ogni volta che me lo chiede, per rispondere alla sua domanda sulla mia giornata. Una sera, con il mio vocabolario da bambino, ho cercato di descrivere senza riuscirci che cosa avessi provato nell’inginocchiarmi davanti al corpo di sant’Ambrogio che giace sotto l’altare nella basilica che porta il suo nome. Un’altra volta mi sono sforzato di riferire l’esperienza di stare in silenzio davanti al battistero ottagonale dove, nella Veglia pasquale dell’anno 387, sant’Agostino e il suo cuore eternamente inquieto furono immersi, dallo stesso Ambrogio, nelle acque lustrali. All’epoca non conoscevo la parola italiana per tears («lacrime»).
Padre Bagatti ascolta con tranquilla attenzione, colmando le lacune dei miei sforzi linguistici con qualche parola tempestiva e, poiché è un gentiluomo, corregge soltanto i miei errori grammaticali più stridenti. Vive a Milano da decenni; è stato superiore della comunità del Leone XIII quando era composta da più di 20 gesuiti; adesso ce ne sono soltanto quattro.
Ci sono alcune cose che possiamo condividere pur rimanendo soli. Una sera, dopo aver finito di parlare, ho appreso quanto la città fosse cambiata, non solo in quei decenni, ma in quelle settimane. Ha raccontato una storia che gli pareva un enigma. Durante la sua passeggiata di quel pomeriggio – ha detto – si era imbattuto in pochi altri che facevano altrettanto. Quando accadeva, adattando le sue abituali maniere soltanto alla distanza fisica da mantenere, li salutava. Ma quei passanti, invece di rispondere con piacere, erano rimasti scossi dal fatto di sentirsi salutare, quasi sconvolti. Dando soltanto un accenno di replica, ciascuno se ne era andato rapidamente per la sua strada.
Padre Bagatti è ancora dispiaciuto anche a ripensarci. Stringe le labbra, e gli angoli della bocca si irrigidiscono mentre ripercorre quei momenti nella memoria, come davanti a una scatola rompicapo che si rifiuta di aprirsi. Passa un momento. Bevo un sorso di vino. Ci sediamo insieme. E poi, parlando un po’ a noi e un po’ a se stesso, chiede: «Perché erano così spaventati?».
Ci sono alcune cose che possiamo condividere pur rimanendo soli. Il genere di ferita reciproca che provano solo gli amanti, per esempio. O il risentimento. O l’ansia. Eppure c’è una differenza, ci dicono gli psicologi, tra ansia e paura. La paura ha un oggetto su cui concentrarsi: il rumore nell’oscurità; l’arma nella mano. L’ansia, invece, non ce l’ha. La paura si riferisce a qualcosa; l’ansia è la nostra risposta a minacce sconosciute.
Sicuramente deve suonare strano aver trascorso una vita intera per poi vedere che non la vicinanza, ma la distanza diventa l’atto di coraggio necessario a contenere questa pandemia. Ma anche se non siamo sicuri di quando finirà, la crisi che stiamo attraversando non è del tutto sconosciuta. Stiamo iniziando a costruirci una comprensione di questa pandemia, un oggetto su cui concentrarci. Le abbiamo dato un nome, e ci sono numerosi contagiati. Abbiamo formulato valutazioni delle minacce, individuato conseguenze economiche e fattori di rischio stratificati per età. Dovremmo essere in grado di passare dall’ansia isolata alla risposta condivisa.
Ma poi ci sono gli scaffali vuoti. E i due metri necessari fra tutti, sempre. P. Bagatti è ben consapevole della necessità della distanza fisica. Mi ha detto, sia a parole sia con i fatti, che ora fa le sue passeggiate quotidiane sul terrazzo della scuola invece che nella città. Si rende conto, obbedisce.
Ma sicuramente deve suonare strano aver trascorso una vita intera per poi vedere che non la vicinanza, ma la distanza diventa l’atto di coraggio necessario a contenere questa pandemia. Tanto più quando la distanza necessaria si traduce in una risposta frettolosa e spaventata al saluto di un vecchio, in una separazione più mentale che fisica. Sembra il colmo dell’ironia, nella nostra epoca da soli-insieme, che questa pandemia ci richieda, per il bene altrui come per il nostro, di evitare la vicinanza degli estranei.
Dopo qualche istante, p. Bagatti alza la testa. Il sorriso gli è tornato negli occhi. Si guarda intorno, alza il bicchiere; offre un brindisi. Dice: «Chi vivrà, vedrà». È un vecchio proverbio italiano, che si può rendere approssimativamente con «Lo dirà il tempo» o «Aspetta e vedrai». E va più o meno bene usarlo in questo senso, semmai ci si trovi ad avere bisogno di un proverbio italiano. Ma, come sempre, nella traduzione va perduto un frammento di significato. Perché le parole non dicono che «lo dirà il tempo», ma «chi vivrà vedrà», lo vedrà chi sarà vivo.
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San Carlo Borromeo, il cui corpo giace all’interno dell’urna con il frontale in cristallo in una piccola cappella sotto la cupola del Duomo, fu cardinale arcivescovo di Milano alla metà del XVI secolo. È celebre per così tanti motivi – instancabile riformatore, fondatore di scuole, organizzatore della sessione conclusiva del Concilio di Trento – che è facile trascurare l’esistenza di un morbo che porta il suo nome.
La peste di san Carlo arrivò a Milano nell’estate del 1576 e si protrasse fino all’inizio del 1578. Nel corso dell’anno e mezzo in cui dilagò per la città, sconvolse la vita civile, paralizzò il commercio e si prese la vita di oltre 17.000 persone. La maggior parte di esse erano poveri, ovviamente, poiché il governatore e la nobiltà cittadina erano fuggiti non appena le vittime avevano iniziato ad accumularsi nella Ca’ Granda, l’ospedale (oggi, quello stesso ospedale è di nuovo pieno di malati. È l’ospedale di cui si è letto, quello che si è visto nei notiziari. È uno dei migliori d’Europa).
Mentre la maggior parte delle autorità milanesi si era defilata, fu Borromeo a tentare di riportare l’ordine in città. Il suo talento organizzativo lo indusse a decretare la quarantena, a prescrivere la pulizia delle strade urbane e a fare in modo che gli affamati ricevessero cibo. Egli riscrisse il proprio testamento, designando la Ca’ Granda come unico beneficiario. Ma per quanto queste azioni pragmatiche fossero necessarie, Borromeo era determinato a offrire alla città anche una risposta religiosa. Quindi predispose tre grandi processioni, tre atti di penitenza pubblica e collettiva, che avrebbero supplicato la clemenza di Dio, ma avrebbero anche rinnovato la solidarietà tra la popolazione atterrita.
Furono eventi straordinari. A partire dal Duomo, nel cuore della città, migliaia di milanesi si avviarono insieme per le strade, recitando salmi penitenziali mentre procedevano. Camminando a piedi nudi e portando al collo il cappio di un criminale condannato, lo stesso Borromeo guidò ognuna di tali processioni, portando nelle mani uno dei Sacri Chiodi che, secondo la leggenda, sant’Elena, madre di Costantino, aveva estratto dalla Vera Croce. E sebbene tutti i resoconti storiografici che ci sono pervenuti non manchino di evidenziare lo spettacolo del cardinale vestito di sacco, l’aspetto più impressionante fu il suono di quel pellegrinaggio. Infatti, mentre avanzavano, cantavano.
Cantavano una litania, un canto semplice e ripetitivo, che implorava l’intercessione dei santi. Sancta Maria, intonava il cantore. Ora pro nobis, rispondeva il popolo. E poi veniva pronunciato il nome di un altro santo: Ambrogio, o Monica, o Agostino, e l’ora pro nobis risuonava di nuovo per le strade. E così via.
Esistono canti semplici, litanie, essenziali e ripetitive, quasi democratiche nella loro capacità di includere tutte le voci. Come può fare soltanto un canto semplice, le litanie ci riuniscono in un’azione comune; ci spingono verso qualcosa, come un padre in piedi dietro di noi su un’altalena. Ecco perché si cantano ancora oggi, per esempio nella Veglia pasquale, o nell’ordinazione dei sacerdoti o nei battesimi, vale a dire in tutte le occasioni in cui la Chiesa intera, – i vivi e i morti, in terra come in cielo – si trova riunita.
Quelle processioni, indubbiamente, erano potenti. Ma anche nel XVI secolo, molto prima che gli esseri umani comprendessero che sono i germi a causare le epidemie, si erano resi conto che il contagio poteva essere controllato solo a distanza. Ecco perché Borromeo ben presto sospese le processioni. Mandò la gente a casa; chiese di mettersi al riparo.
Ma se le processioni si interruppero, per le litanie non fu così. Invece l’arcivescovo stampò e distribuì piccoli opuscoli che le contenevano, in modo che, per tutta la durata della quarantena, potessero servire alle persone isolate come strumento per trovare qualche tipo di comunità. Fu così che nella Milano in quarantena, per quasi un anno e mezzo, ogni tanto, a distanza di poche ore, risuonavano le campane delle chiese e la gente si affacciava alle finestre e alle porte. E cantava.
«Pensi V. R.», ha scritto Paolo Bisciola, descrivendo quei mesi di pestilenza nella sua Relatione verissima del progresso della peste di Milano (1577), «che non s’udiva altro, andando per Milano, se non cantare».
* * *
Sono andato a vedere il corpo di san Carlo nella cappella sotto l’altare maggiore del Duomo un giovedì pomeriggio, due giorni prima che mi salisse la febbre. La sera del sabato successivo mi sono coricato con quella sensazione di svuotamento e di sudore che ci induce a pregare i nostri corpi di non farci ammalare. Domenica mattina ho saputo come stavano le cose.
Alla Messa mattutina, grazie a Dio, eravamo presenti solo in tre. Mi sono rannicchiato in fondo alla piccola cappella della casa e ho stretto i denti per impedire che battessero. Presiedeva p. Bagatti; la sua casula viola e dorata mi feriva gli occhi, riflettendo la luce del sole sorgente. Non ho preso il calice.
Rimanere isolato nella mia camera, in quei giorni, non era un grande sacrificio. Con il senno di poi, e per amore di quegli uomini anziani che mi avevano accolto così bene, avrei voluto aver cominciato a farlo due giorni prima.
Lunedì chiamo un amico. Si tratta di un medico, specialista in malattie infettive in un grande ospedale universitario americano. Ma, più ancora, è una di quelle persone rare, che siamo in pochi fortunati a contare fra gli amici, davanti alle quali non c’è bisogno di essere forti. Gli dico che cosa sta succedendo, scarico su di lui il peso morto della mia ansia. E lui – tutto cuore, tutto cuore – mi sostiene. «Anche là a Milano – mi dice –, anche se sei là, probabilmente non hai il coronavirus. E anche se ce l’hai, sei giovane, sei in salute: te la caverai. Prendi qualche farmaco. Riposa. Chiamami, se qualcosa cambia. Ma probabilmente non ce l’hai».
Ascoltandolo, tiro un respiro. E poi un altro, più profondo. E chiedo: «Che cosa devo fare nel frattempo?».
Conosco quest’uomo da vent’anni. Avevamo diciannove anni e facevamo le cose che fanno i diciannovenni. Adesso, nel rispondere alla mia domanda, la sua voce è morbida, diretta, calma. «Ecco che cosa devi fare – risponde –. Resta nella tua camera. Non importa se hai il coronavirus. Resta nella tua camera. Tu te la caverai, ma non sei tu a essere in pericolo. Resta nella tua camera».
Annuisco per acconsentire, prima di ricordare che non può vedermi. Gli dico ad alta voce che seguirò le sue istruzioni.
Viene fuori che non è così difficile obbedire a quanto mi è stato richiesto. La cosa con cui stiamo lottando insieme non è il coraggio di mantenere le distanze: stiamo imparando a condividere ben di più. Ma anche l’ansia condivisa finisce in isolamento.
«Resta in camera tua» non è esattamente una litania, ma non è nemmeno così diverso. Ci dice che cosa fare e ci indica una direzione. E sappiamo ripeterlo, come un mantra, a noi stessi. Ma, almeno finora, è solo una chiamata che non ha ancora una risposta.
È il canto che manca. Forse abbiamo dimenticato come si fa. Forse non ci è ancora stato insegnato.
Fuori dalle finestre della mia stanza ci sono decine di appartamenti; molti hanno piccoli balconi. Le loro ringhiere di ferro si sono coperte del verde d’inizio primavera o sono dipinte di bianco intenso, per accentuare il contrasto con i tetti di tegole. In molte città gli italiani, come forse si è visto, cantano gli uni per gli altri proprio da questi balconi.
Mi piacerebbe dire che li ho sentiti cantare dai balconi che vedo dalla mia stanza. No, non è successo. Invece ho sentito le ambulanze per le strade vuote: il suono delle cure portate a coloro che soffrono.
Sono il suono dell’aiuto. Tuttavia, le sirene non sono ora pro nobis.
* * *
Domenica successiva. Mezzogiorno. La mia febbre è scesa. Tutti gli altri in casa, grazie a Dio, stanno ancora bene.
Milano è grigia e silenziosa. Vado alla mia finestra per guardare la città che non posso toccare. Dall’altra parte della piazza, dove cantavano gli adolescenti, c’è un ragazzino – avrà al massimo 12 anni – che esce sul balcone con la sorella. Ha una tromba dorata. La guarda, sorride; la porta alle labbra.
Il suono rotola attraverso la piazza vuota sottostante. Si riverbera tra gli edifici muti. Non è bravo, non ancora. Ma nessuno rifiuta il suo dono. Non si presentano a sgridarlo dita nervose. È un suono inconfondibile, vita. Chi vivrà, vedrà.
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PANDEMIA BLUES
An American Jesuit called Patrick Gilger arrived in Milan immediately after the entry into force of the quarantine decree from Covid-19. He had travelled there to realize his project to learn Italian and complete his thesis work, which has since been prevented. Even though he could not explore lively and sophisticated Milan, he could still be taught. Italy itself – with its people and its history, in the way the city moves and people interact – became his teacher, and which asked of him to unlearn his American response to crises and taught him another way; an answer learned over the centuries.
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[1]. Cipriano, «La pestilenza», in Cipriano – Paolino da Nola – Uranio, Poesia e teologia della morte, Roma, Città Nuova, 1997, 33.