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Una volta cessata la Seconda guerra mondiale con la vittoria degli Alleati, la crisi nei rapporti tra le due superpotenze – gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica –, che nel periodo della guerra avevano lottato insieme contro il nazismo, iniziò già nell’aprile del 1945. Il motivo fu l’insediamento di un governo comunista in Polonia, che portò gli americani ad accusare l’Urss di violare gli impegni comuni assunti poco prima a Yalta, dove i «grandi» – i capi dei governi degli Stati Uniti, dell’Unione Sovietica e dell’Inghilterra – si erano spartiti il mondo in aree di influenza.
L’inizio della guerra fredda
La crisi si fece più acuta e pericolosa per gli equilibri strategici globali nella primavera del 1946, quando l’esercito sovietico, contrariamente agli accordi assunti, non «smilitarizzò» entro il mese di marzo – come previsto – la zona di occupazione nord-iraniana – mentre l’altra metà era stata già abbandonata dall’esercito inglese nei termini stabiliti –, con il pretesto di prestare aiuto militare a un gruppo di guerriglieri in lotta con il potere centrale.
In realtà, i motivi che spingevano Stalin a non liberare la zona erano di carattere economico: egli, infatti, intendeva in tal modo assicurarsi la via di accesso al petrolio mediorientale, cosa che gli Stati Uniti non potevano per nessuna ragione permettere. Perciò, quando lo Scià ricorse alle Nazioni Unite per ottenere dall’assise internazionale una dichiarazione contro gli «invasori» russi, il governo statunitense appoggiò tale richiesta. Nonostante le proteste del rappresentante sovietico, Andrej Gromyko – che, in segno di protesta, abbandonò teatralmente l’aula –, Stalin nel maggio 1946 scelse di ritirare le forze militari sovietiche dall’Iran.
La ferma risposta statunitense agli eventi iraniani stava a significare che Washington guardava con preoccupazione alle mire espansionistiche sovietiche sia sui territori del Medio Oriente sia sul Mediterraneo orientale, strategicamente importante per il controllo dell’Europa. Di fatto, Stalin intendeva subentrare all’Inghilterra – che per motivi di politica interna aveva manifestato l’intenzione di «liberare» quella zona di influenza – nel dominio del Mediterraneo[1].
Già nel febbraio 1946 George Kennan, incaricato d’affari presso l’ambasciata statunitense a Mosca, aveva avvertito il Dipartimento di Stato degli Usa con una lunga nota – che passò alla storia come «il lungo telegramma» –, con la quale metteva in guardia il suo governo dal tenere un atteggiamento troppo benevolo o eccessivamente permissivo nei confronti delle richieste sovietiche in materia di politica internazionale. Egli sottolineava la necessità di un «contenimento a lungo termine, paziente ma fermo e vigile, delle tendenze espansionistiche russe»[2]. Stalin, affermava, era intenzionato a espandere l’influenza sovietica su buona parte dei Paesi occidentali e riteneva che non fosse possibile portare avanti sul lungo periodo un’alleanza politica con le potenze imperialistiche, prima fra tutte gli Stati Uniti.
Il termine «contenimento», suggerito da Kennan, venne adottato ben presto dai membri dell’Amministrazione per indicare l’obiettivo principale della politica americana nei suoi rapporti con l’Unione Sovietica. Furono molti, infatti, gli uomini di governo statunitensi e gli stessi consiglieri di Stato che suggerirono al presidente Truman di tenere a freno la brama espansionistica sovietica. Secondo Clark Clifford, aiutante del Presidente alla Casa Bianca, compromessi e concessioni venivano considerati dai sovietici come segni di debolezza politica; bisognava quindi rispondere con durezza e resistere – anche con la forza, se necessario – all’ambizioso progetto stalinista di dominio comunista del mondo e al tentativo – posto in essere dall’Unione Sovietica già subito dopo la fine della guerra – di isolamento politico degli Stati Uniti[3].
Secondo gli osservatori politici inviati dall’Amministrazione statunitense in Europa, per combattere efficacemente il comunismo nei Paesi maggiormente esposti alle infiltrazioni sovietiche era necessario sostenere la ripresa economica, cioè limitare la disoccupazione, tenere sotto controllo l’inflazione, ridare fiducia agli imprenditori, e questo poteva essere realizzato soltanto per mezzo dei dollari americani. In caso contrario, la scarsità di generi alimentari, l’aumento della disoccupazione e dell’inflazione – cioè, il collasso delle economie nazionali – avrebbero consegnato molti Paesi, e tra questi anche l’Italia, in mano ai comunisti[4].
Un piano necessario di intervento economico
Considerata la drammatica situazione dei Paesi europei, distrutti in tutti i sensi dalla guerra, la dirigenza statunitense si rese conto che era necessario intervenire economicamente in soccorso degli alleati. Il 21 febbraio 1947 il presidente Truman si presentò al Congresso – che era in maggioranza repubblicano e che aveva recentemente criticato la politica economica, ritenuta poco austera, del Presidente – per chiedere un’integrazione degli aiuti dell’«Amministrazione delle Nazioni Unite per l’assistenza e la ri-abilitazione» (Unrra) di 350 milioni di dollari, da destinare all’Europa: aiuti che furono eccezionalmente concessi.
Lo stesso giorno il Foreign Office informò il Dipartimento di Stato che a partire dal 31 marzo il governo inglese si sarebbe definitivamente ritirato dalla Grecia e dalla Turchia, sospendendo ogni forma di aiuto economico e militare fino ad allora prestato a tali Paesi. Lo spettro dell’espansione comunista nel Mediterraneo si affacciò minacciosamente alla mente dell’Amministrazione statunitense, la quale temeva un’ingerenza sovietica nella guerra civile che da tempo si stava combattendo in Grecia e che soltanto l’intervento inglese aveva salvato da una svolta filobolscevica.
Questa novità rese ancora più urgente lo stanziamento di nuovi fondi a favore dei Paesi europei minacciati dal comunismo; ciò persuase Truman ad affrontare una seconda volta un Congresso riluttante a concedere nuovi finanziamenti per aiutare Paesi molto lontani dagli Stati Uniti e senza riceverne un vantaggio economico. In quell’occasione (25 febbraio) la perorazione della «causa interventista» fu per il Presidente più facile e convincente: la chiave di volta dell’appello lanciato dall’Amministrazione fu il forte richiamo al pericolo in cui si sarebbero trovati i Paesi dell’Europa orientale, già sottoposti da tempo alla pressione sovietica, nel momento in cui gli inglesi si fossero ritirati. «Noi e soltanto noi – disse nella sua accalorata difesa il sottosegretario Dean Acheson – siamo in grado d’interrompere il gioco dei sovietici»[5].
Per la prima volta il Congresso si rese conto della gravità della situazione internazionale e si mostrò più disponibile a venire incontro alle proposte del Presidente. Questi, a sua volta, seppe giocare bene la carta della campagna anticomunista, proponendo su tale materia una sorta di tregua politica tra democratici – cioè il suo partito – e repubblicani: tutto il Paese doveva sentirsi unito e solidale nella lotta al nuovo nemico degli Stati Uniti, l’Unione Sovietica, formando un fronte «bipartisan» di intervento, costantemente mobilitato in difesa degli interessi americani in Occidente.
Di grande effetto fu il discorso che il presidente Truman tenne al Congresso il 12 marzo. Esso fu avvertito come una sorta di manifesto politico-programmatico del nuovo corso della politica internazionale. Secondo il Presidente, in quel momento quasi ogni nazione doveva decidere tra sistemi di vita alternativi: una scelta che non sempre è libera. Da una parte, un sistema di vita basato sulla democrazia, caratterizzato da istituzioni rappresentative che garantiscono le libertà private e civili dei cittadini; dall’altra, un sistema di vita «basato sulla volontà di una minoranza imposta con la forza sulla maggioranza. Esso si fonda sul controllo della stampa e della radio, sulle elezioni truccate e sulla soppressione delle libertà individuali. Sono convinto che la politica degli Stati Uniti debba essere quella di sostenere i popoli liberi che cercano di opporsi ai tentativi di asservimento da parte di minoranze armate o di pressioni esterne»[6].
Il Congresso si fece convincere dalle parole del Presidente e acconsentì alla sua richiesta di stanziare 400 milioni di dollari – somma relativamente contenuta – per «salvare» la Grecia e la Turchia dal comunismo. Questa evoluzione in senso interventista del Congresso degli Stati Uniti avveniva parallelamente all’andamento negativo della Conferenza di Mosca dei ministri degli Esteri dei quattro Paesi vincitori, alla quale partecipava il segretario di Stato americano Marshall e che si concluse il 25 aprile con un nulla di fatto sulla delicata questione del nuovo assetto da dare alla Germania, a causa delle eccessive pretese sovietiche.
I funzionari del Dipartimento di Stato, intanto, osservavano con grande attenzione le attività politiche dei partiti comunisti in Europa – specialmente in Francia e in Italia –, temendo che fosse imminente un totale collasso economico, a cui sarebbero seguiti il caos politico e la rivoluzione sociale[7].
Nell’aprile 1947 il segretario di Stato Marshall tornò da una visita in Europa con una diagnosi infausta: «Il paziente si aggrava sempre di più, mentre i dottori si consultano sul da farsi». Si rendeva necessario un massiccio programma di aiuti finanziari esterni per stimolare la ripresa economica e alleviare così la grave situazione, in modo da impedire il «contagio» comunista in diversi Paesi europei.
Per contrastare le mire di Stalin sulla Germania e su buona parte dell’Europa orientale, Marshall propose al suo governo di sostenere a tutti i costi la «causa della Germania», aiutandola a inserirsi tra le democrazie occidentali. In caso contrario, si sarebbe fatto il gioco dell’Unione Sovietica, teso a isolare quel Paese e a sottometterlo politicamente. «Senza una ripresa della produzione tedesca – affermò Kennan – non ci può essere una ripresa dell’economia europea»[8].
Così, in breve tempo l’Amministrazione preparò un programma di interventi economici in Europa, incentrato sulla «ripresa» della Germania e sul potenziamento e rafforzamento economico di tutti i Paesi dell’Europa Occidentale. Secondo l’amministrazione Truman, questa era la sola ricetta capace di bloccare l’espansione del comunismo all’interno delle democrazie europee. Essa fu il primo nucleo di quello che, successivamente, verrà definito «Piano di intervento Marshall», che fu annunciato per la prima volta pubblicamente in un discorso informale, tenuto dal Segretario di Stato il 5 giugno all’Università di Harvard. In quell’occasione egli dichiarò: «È logico che gli Stati Uniti facciano tutto quanto è in loro potere per contribuire a restaurare nel mondo quelle condizioni economiche normali, senza le quali non ci può essere stabilità politica né sicurezza di pace».
I finanziamenti necessari al programma di aiuti erano stati stimati in circa 14 miliardi di dollari, e avrebbero richiesto l’approvazione di un Congresso che, sebbene convertito alla causa della lotta al comunismo internazionale, era orientato verso un indirizzo politico di maggiore rigore finanziario. Per vincere i timori del Congresso nei confronti di un finanziamento così massiccio, fu mobilitata anche l’opinione pubblica statunitense attraverso mirate campagne di stampa. Si mise in rilievo l’estrema gravità delle difficoltà economiche dell’Europa e il grave pericolo che ciò costituiva per la stabilità dei governi democratici in tutto quel continente. Appelli calcolati furono anche rivolti all’interesse economico nazionale, sostenendo che le esportazioni statunitensi avrebbero tratto un grande beneficio dalla ripresa economica europea, conquistando nuovi mercati. Ai membri del Congresso, preoccupati per il costo dell’intervento, fu data assicurazione che il governo avrebbe tenuto sotto controllo l’applicazione del programma di intervento e che avrebbe chiesto ai Paesi beneficiari piena collaborazione e trasparenza negli investimenti.
Nonostante il programma avesse lo scopo di bloccare l’avanzata del comunismo in Europa e dare ossigeno ai governi democratici, Marshall sottolineò, almeno all’inizio, che esso era aperto a tutti i Paesi europei, anche a quelli sottoposti a regimi comunisti. «La nostra politica – disse – è diretta non contro qualsiasi Paese o dottrina, ma contro la fame, la povertà, la disperazione, il caos»[9].
Nel giugno del 1947 si tenne a Parigi un incontro tra i rappresentanti statunitensi e quelli dei Paesi che avrebbero beneficiato del programma. La rappresentanza sovietica, capeggiata da Molotov, considerava il Piano Marshall come un’alternativa alle riparazioni tedesche; quando però a Parigi scoprì che il governo statunitense, in cambio dell’aiuto finanziario, esigeva che i beneficiari fornissero informazioni sulle loro economie e assicurassero a funzionari statunitensi il controllo sugli investimenti, abbandonò la Conferenza, accusando gli Stati Uniti di violare la sovranità dei singoli Stati e di voler utilizzare gli aiuti per assoggettare economicamente l’Europa. L’Unione Sovietica costrinse anche gli Stati sui quali aveva influsso politico a rifiutare l’aiuto imperialista americano.
Il Piano fu approvato dal Congresso soltanto nel 1948, anche sotto l’impressione suscitata dal colpo di Stato comunista in Cecoslovacchia, e iniziò a funzionare nella primavera dello stesso anno. Il voto per rendere operativo il Piano Marshall equivaleva a mettere in pratica i princìpi della dottrina Truman: «Dobbiamo essere preparati – disse il Presidente – a pagare il prezzo della pace, o certamente il prezzo della guerra»[10]. In realtà, era già iniziata la guerra tra le due superpotenze per il dominio del mondo: guerra che sarebbe stata combattuta per oltre 50 anni non con gli armamentari bellici tradizionali, ma attraverso le armi più sofisticate della politica, della diplomazia, della dissuasione e della minaccia atomica.
Questa nuova modalità di condurre la guerra nel tempo di pace è stata definita da una storiografia ormai più che consolidata come «guerra fredda»[11]. In effetti tale contrapposizione tra le due superpotenze che nel 1945, assieme alla Francia e all’Inghilterra, avevano vinto la guerra non è ancora finita e continua su altri scenari, anche se con le medesime finalità di dominio. Questa volta, però, esse debbono confrontarsi con altre grandi potenze emergenti, come la Cina e l’India, che aspirano a rivaleggiare con esse nella lotta politica ed economica – almeno per il momento – per il dominio del mondo.
L’Europa si rimise economicamente in moto
L’European Recovery Program – così era denominato il Piano Marshall –, dopo lunga discussione, fu approvato il 3 aprile 1948, quando alcuni Paesi europei, tra cui l’Italia, si preparavano alle prime elezioni politiche democratiche del dopoguerra. I consistenti «aiuti americani» contribuirono certamente al ristabilimento di ordinamenti democratici in Europa e alla ricostruzione di Paesi praticamente allo sfascio. L’economia negli Stati più importanti – Germania, Francia e Italia – iniziò a risollevarsi, e nel giro di pochi anni furono create istituzioni comuni per garantire la circolazione delle materie prime, come l’acciaio e il carbone. In questo modo gli Usa si assicurarono nuovi alleati nella lotta contro la minaccia del comunismo.
Il Piano Marshall distribuì ai diversi Paesi occidentali circa 13,2 miliardi di dollari (pari all’1,1% del Pil americano e al 2,7% dei 16 Paesi riceventi)[12], una cifra a quel tempo enorme anche per l’economia più ricca e avanzata del Pianeta. L’Italia, quarta beneficiaria dell’«aiuto americano», ricevette circa 1,2 miliardi. Il Piano Marshall funzionò; il continente si rimise economicamente in moto e, poco alla volta, entrò in un periodo di prosperità e modernità, e sperimentò forme inedite di cooperazione tra gli Stati. Così nacque la Comunità Europea, divenuta poi l’Unione Europea, con lo scopo manifesto di garantire per il futuro la pace e la cooperazione tra gli Stati – non solo in materia economica –, al fine di far fronte insieme alle gravi emergenze comuni.
Un Piano Marshall per l’emergenza del coronavirus?
La recente emergenza sanitaria del coronavirus rientra certamente in queste gravi emergenze comuni, anche per il fatto che il virus non conosce barriere geografiche e ha colpito indistintamente tutti i Paesi.
Ricordiamo che l’ex presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, il 25 marzo 2020 ha pubblicato, sul Financial Times, un articolo intitolato «Stiamo affrontando una guerra contro il coronavirus e dobbiamo mobilitarci di conseguenza»[13]. Già il titolo sintetizza bene il punto centrale della questione, cioè appoggiare la necessità di una «linea espansiva» per affrontare i gravi contraccolpi economici provocati dall’emergenza del Covid-19.
Intanto, qualche tempo prima, l’Ue aveva «sospeso» il patto di stabilità, in modo da permettere ai vari Paesi di far fronte alla grave emergenza sanitaria. Ma questa misura, sebbene necessaria e tempestiva, appare del tutto insufficiente. Draghi – che di solito appare come un sostenitore della stabilità dei conti pubblici – ritiene che la situazione contingente imponga agli Stati europei di affrontare insieme questa eccezionale emergenza, come se fossimo in guerra. Per assicurare la pace sociale e l’avvenire dell’Ue, «bisogna proteggere la popolazione dalla perdita dei posti di lavoro e difendere la capacità produttiva con immediati sostegni di liquidità».
Il 25 marzo il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, aveva comunicato che i governanti stavano preparando una «strategia di stimolo economico simile al “Piano Marshall”, orientata a mobilitare i fondi dell’Ue nel quadro del bilancio europeo»[14]. Una lettera inviata a Michel da sette leader europei – tra i quali Emmanuel Macron, Giuseppe Conte, Pedro Sánchez e António Costa – chiedeva alle maggiori strutture comunitarie – prima fra tutte la Bce – «risorse senza precedenti» e «decisioni di politica fiscale di analoga audacia», tra le quali «uno strumento di debito comune emesso da una Istituzione dell’Ue»[15].
A questo proposito si è parlato dell’emissione di eurobond, i quali avrebbero dietro di sé la forza di tutta l’economia europea. Tale decisione, se condivisa, mostrerebbe che i Paesi dell’euro si rafforzano a vicenda e, uniti, sarebbero certamente più forti. Ma la Germania – che pure ha stanziato 1.100 miliardi di euro per far fronte al coronavirus –, l’Austria e altri Paesi del Nord Europa si sono opposti a questo indirizzo solidaristico e a ogni strumento di debito comune. La cancelliera Merkel ha fatto sapere che su tale fronte «nulla è cambiato»[16] e che, per contrastare l’emergenza, è favorevole a utilizzare il Fondo salva–Stati (Mes)[17].
José Ángel Gurría Treviño, segretario generale dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), in un’intervista al Corriere della Sera ha affermato che tutti siamo in «guerra» contro un virus che si è immediatamente globalizzato e che tocca tutti i Paesi del mondo. In relazione al piano economico, oltre che a quello sanitario, egli ha dichiarato che «serve qualcosa che abbia l’ambizione di un Piano Marshall e la visione del New Deal: politiche che abbiano il massimo impatto sui settori dell’economia dove si rischiano di perdere centinaia di migliaia, o milioni, di posti. Nel giro di pochi giorni può esserci un’esplosione della disoccupazione. Vanno combattute con la massima forza le conseguenze economiche del lockdown»[18].
Il 2 aprile scorso la Commissione europea ha approvato un piano di «protezione del lavoro», il cosiddetto «Sure», uno strumento di assicurazione anti-licenziamento (o anti-disoccupazione) da mettere a disposizione degli Stati. Si tratta di un prestito fino a 100 miliardi per gli ammortizzatori sociali nei Paesi più colpiti dal Covid-19. La presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha affermato che il bilancio Ue dei prossimi sette anni dovrà essere un vero e proprio «Piano Marshall» contro la crisi. Solo così sarà possibile far ripartire l’economia in tutti i Paesi dell’Unione. Commentando il «Sure», ha sottolineato che il suo scopo è di tenere la gente al lavoro e di consentire alle imprese di restare in attività. E ha aggiunto: «Stiamo unendo le forze per salvare vite e proteggere i mezzi di sussistenza»[19].
In politica spesso, soprattutto negli ultimi tempi, si è invocata l’applicazione di un «nuovo Piano Marshall», per far fronte a diverse criticità globali, come i problemi riguardanti il clima, l’Africa, e ora il coronavirus. Va ricordato, però, che il suddetto Piano Marshall non è una semplice teoria o dottrina politica da applicare – quasi automaticamente – quando sono presenti alcune condizioni, ma un evento storico ben preciso, come abbiamo visto frutto di scelte politiche molto circostanziate, e che in quel momento – cioè subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale – rispondeva innanzitutto agli interessi degli Stati Uniti e anche a quelli dei Paesi europei che ne beneficiarono.
Siamo convinti che oggi soltanto un massiccio «Piano Marshall europeo» – questa volta voluto e finanziato dall’Ue – potrebbe aiutare tutti i Paesi dell’Unione a superare la grave emergenza sanitaria del Covid-19, di cui purtroppo ancora non si vede la fine e che mette a repentaglio la vita di molte persone, soprattutto anziani. Questo provvedimento potrebbe evitare il collasso economico (e la recessione) della maggior parte dei Paesi e salvare la democrazia – messa duramente alla prova in questi ultimi anni dal ritorno di vecchie ideologie e vecchi nazionalismi – e lo stesso futuro dell’Unione Europea[20].
È ciò che papa Francesco ha detto nel Messaggio Urbi et Orbi di Pasqua, invitando l’Europa a dare una prova concreta di solidarietà: «Dopo la Seconda Guerra Mondiale, questo continente è potuto risorgere grazie a un concreto spirito di solidarietà […]. È quanto mai urgente, soprattutto nelle circostanze attuali, che le rivalità non riprendano vigore, ma che tutti si riconoscano parte di un’unica famiglia e si sostengano a vicenda». Oggi, ha continuato il Papa, «l’Unione Europea ha di fronte a sé una sfida epocale, dalla quale dipenderà non solo il suo futuro, ma quello del mondo intero»[21].
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THE MARSHALL PLAN. Will this be a way to deal with the coronavirus crisis?
In recent times the application of a «new Marshall Plan» has been invoked to face several critical global issues, such as climate-change, Africa, or, more recently, the Coronavirus. From a historical perspective, this article retraces the events that led to the enactment of that Plan (April 3, 1948). Without claiming to make analogies with the tragic pandemic we are living through today, yet with the conviction that history always has something to teach us. We are of the opinion that only a massive «European Marshall Plan», launched by the EU, could help all the Member countries to overcome the serious health emergency caused by Covid-19, to avoid the economic collapse of most Countries and, finally, to guarantee the same future of the European Union.
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[1]. Cfr J. Smith, La guerra fredda 1945-1991, Bologna, il Mulino, 2000, 24-26.
[2]. G. F. Kennan, Memoirs 1925-1950, London, Hutchinson, 1968, 359.
[3]. Cfr A. Krock, Memoirs: sixty years on the firing line, New York, Funk & Wagnalls, 1968, 477.
[4]. Cfr G. F. Kennan, Memoirs 1925-1950, cit., 357.
[5]. D. Acheson, Present at the Creation. My Years in the State Department, New York, Norton and Company, 1969, 214.
[6]. L. J. Halle, The Cold War as History, London, Chatto and Windus, 1967, 120.
[7]. Cfr J. Smith, La guerra fredda 1945-1991, cit., 28.
[8]. W. Lafeber, America, Russia, and the Cold War, 1945-1975, New York, Wiley, 1976, 35.
[9]. J. Smith, La guerra fredda 1945-1991, cit., 27.
[10]. D. Yergin, Shattered Peace: The Origins of the Cold War and the National Security State, London, André Deutsch, 1978, 321.
[11]. La lotta al comunismo internazionale intrapresa dall’Amministrazione Truman fu la ragione principale dell’approvazione del National Security Act nel luglio 1947. L’obiettivo primario di questa legge era di migliorare il flusso di informazioni e consigli al Presidente attraverso la creazione del National Security Council (Consiglio per la Sicurezza), con funzione consultiva in politica estera, e della Central Intelligence Agency (Cia), con l’incarico di raccogliere e interpretare le informazioni provenienti dall’estero, nonché di organizzare «operazioni segrete» in ambiti internazionali per tutelare gli interessi statunitensi. Oltre a queste importanti riforme volte alla sicurezza dello Stato, fu anche riorganizzato il sistema di difesa nazionale, accentrando in un solo luogo – chiamato «Pentagono», e situato a poca distanza da Washington – tutti gli uffici preposti alla difesa del Paese.
[12]. Cfr M. Campus, «La mitologia del Piano Marshall», in Il Sole 24 Ore, 12 aprile 2020.
[13]. Cfr «Draghi: we face a war against coronavirus and must mobilise accordingly», in www.ft.com/content/c6d2de3a-6ec5-11ea-89df-41bea055720b
[14]. I. Caizzi, «Draghi: “Siamo in guerra, agiamo insieme”», in Corriere della Sera, 26 marzo 2020.
[15]. Ivi.
[16]. L’Ue promette che il patto di stabilità tornerà in vigore una volta passata l’emergenza sanitaria. Ma come è stato fatto notare, «a quel punto le regole tedesche sembreranno ancora più assurde, perché il debito avrà superato i limiti previsti ovunque» (E. Bonse, «Addio patto di stabilità», in Internazionale, 27 marzo 2020, 17).
[17]. Si tratta di un fondo di 410 miliardi da prestare agli Stati membri che ne hanno bisogno, vincolandoli, però, a condizioni molto pesanti. In questo periodo, tra i leader dell’Ue si sta discutendo su come aiutare – e a quali condizioni – con questo fondo i Paesi in difficoltà per il coronavirus. In una Conferenza stampa del 10 aprile il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha dichiarato ancora una volta che la principale battaglia da portare avanti è quella di un «fondo che va finanziato con gli Eurobond». È necessario – ha detto – che ci sia una «potenza di fuoco» per combattere l’emergenza sanitaria proporzionata alla sfida, e che il fondo debba essere disponibile da subito (cfr C. Lopapa, «Conte boccia ancora il Mes. Lottiamo per gli Eurobond, non firmo accordi inadeguati. E attacca Salvini e Meloni», in la Repubblica, 10 aprile 2020). Sulla questione è anche intervenuto, in un’intervista pubblicata sul Corriere della Sera, il presidente dell’Europarlamento, David Sassoli, affermando che non conviene disdegnare il nuovo Mes a priori. Rispondendo ad alcune insinuazioni delle opposizioni italiane, egli ha spiegato che il Fondo salva-Stati «alla greca» (cioè la famosa «troika») non esiste più: «È stato sospeso». Il Parlamento europeo ha messo in campo un Fondo salva-Stati al quale i Paesi interessati possono accedere liberamente, «senza condizioni aggiuntive e a tassi prossimi alla zero». Inoltre, Sassoli chiede ai capi di Stato e di Governo di essere coraggiosi e di lanciare in tempi brevi un Fondo per la ricostruzione capace di andare sul mercato con i Recovery Bond. «Per uscire dalla crisi – egli afferma – servono oltre 1.500 miliardi» (A. D’Argenio, «Sassoli: “Il nuovo Mes non va respinto a priori. È un Fondo salva-Salute per ospedali e ricerca”», in la Repubblica, 10 aprile 2020).
[18]. F. Fubini, «Coronavirus, Gurría (Ocse): “Questa è l’ora delle scelte. Subito un Piano Marshall e la svolta degli eurobond”», in Corriere della Sera, 25 marzo 2020.
[19]. I. Caizzi, «Ue, sì all’assicurazione anti-licenziamento», ivi, 3 aprile 2020, 15.
[20]. Recentemente dalla Germania sono partite proposte solidaristiche di grande interesse. Il 21 aprile la cancelliera Merkel, alla vigilia del Consiglio europeo, ha chiesto al Bundestag la rapida approvazione del pacchetto di nuovi aiuti veloci da 500 miliardi deciso dall’Eurogruppo. Il giorno successivo, i 27 leader europei hanno approvato un pacchetto di aiuti di 540 miliardi (Mes-Bei-Sure), che saranno operativi dal prossimo 1° giugno, e hanno incaricato la Commissione europea di lavorare nel dettaglio per la creazione di un Recovery Fund che abbia come garanzia il bilancio pluriennale. Un fondo – ha affermato Charles Michel, che ne ha autorizzato l’esecutività – «abbastanza grande da far fronte all’entità della crisi e rivolto ai settori e alle aree geografiche dell’Europa più colpiti». Il presidente del Consiglio italiano, Giuseppe Conte, ha dichiarato: «L’Italia è in prima fila a chiederlo, e devo dire la verità, che la nostra iniziativa con la lettera firmata dagli altri 8 Paesi è stata molto importante, perché uno strumento del genere era assolutamente impensabile fino adesso. È un nuovo strumento che si aggiungerà a quelli già varati, renderà la risposta europea, ci auguriamo, molto più solida, molto più coordinata, molto più efficace» (in www.linkiesta.it/2020/04/coronabond-mes-bei-sure-recovery-consiglio-europeo-conte).