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Nella letteratura ebraica, ispirata alla Bibbia, il racconto è concepito come una forma di esistenza[1], perciò è usato con particolare attenzione e predilezione. Basti ricordare Franz Kafka. Tra gli autori contemporanei della letteratura narrativa Joseph Roth occupa un posto di rilievo. Con un linguaggio chiaro, immediato, colorito, percorso da flussi poetici e da pensieri profondi, ha saputo raccontare la dissoluzione storica, politica e morale della civiltà danubiana, e la disgregazione dell’ebraismo orientale. Ma il suo raccontare non si esaurisce in una pura rievocazione storica, sia pure precisa e affascinante, bensì addita significati che trascendono il dato storico e lo trasfigurano. Di questo classico della letteratura del Novecento, dopo un profilo biografico, analizzeremo le opere nelle quali egli ha espresso il suo pensiero, il suo rimpianto, la sua nostalgia.
Una vita bruciata dall’alcool
Joseph Roth nacque nel 1894 a Schwabendorf, presso Brody (Galizia orientale), da madre ebrea russa e da padre austriaco, commerciante di legname, che in seguito a un dissesto finanziario si allontanò da casa e morì — almeno così si dice — in un manicomio di Amsterdam. L’infanzia di Joseph fu pertanto grigia e solitaria, trascorsa nella casa del nonno materno, rabbino. Studiò filosofia e letteratura tedesca prima a Leopoli, poi a Vienna. Allo scoppio della prima guerra mondiale si arruolò come volontario; fatto prigioniero dai russi, trascorse parecchio tempo nei campi di prigionia.
Rientrato in Austria, dal 1918 lavorò come giornalista prima a Vienna, poi a Berlino. Nel 1923 iniziò la collaborazione con la Frankfurter Zeitung riscuotendo prestigio e notorietà. L’attività giornalistica gli permise di viaggiare per l’Europa e di distrarsi dalla penosa vicenda del suo matrimonio. Aveva sposato una ragazza affascinante, risultata poi malata di mente, tanto da dover essere ricoverata in manicomio. Per Roth fu una tragedia che lo indusse a una vita disordinata: senza patria, senza famiglia, senza ancoraggi.
La sua intensa attività giornalistica fu presto accompagnata dalla pubblicazione di racconti e di romanzi che lo collocano tra i mostri sacri della letteratura novecentesca. Nel 1933, per l’affermarsi dell’antisemitismo e del nazionalismo, si trasferì a Parigi. L’assassinio del cancelliere austriaco Dolfuss e la conseguente annessione dell’Austria alla Germania nazista convinsero lo scrittore della tragedia che presto avrebbe sconvolto l’Europa. Cercò di affogare la disperazione nell’alcool. Morì improvvisamente il 27 maggio 1939, quarantacinquenne, all’uscita di un caffè, in seguito a un attacco di delirium tremens.
Un tempo di disperazione e di smarrimento
La bibliografia di Joseph Roth è vasta e ispirata a temi fortemente avvertiti. Tra questi il più ricorrente è il crollo dell’Impero austro-ungarico che comportò una frantumazione di valori, di modi di vivere, di pacifiche convivenze. Tramontava la civiltà viennese e l’esistenza dei villaggi ebrei — gli shtetl —, impregnati di saggezza biblica, patriarcale e contadina. Le opere di Roth, pubblicate tra il 1923 e il 1929, sono ispirate a questo evento. Ricordiamo, fra le altre — Hotel Savoy, La ribellione, Ebrei erranti, Fuga senza fine. Secondo Italo A. Chiusano, sono tra le cose migliori di Roth soprattutto per l’impronta impressionistica. «Il che significa colori stridenti, alternanza secca di tenero e di lacerante, sonorità stridule e impreviste, affastellamento all’apparenza casuale di episodi e di impressioni, linea narrativa spezzata o addirittura sbriciolata anziché continua»[2].
Protagonista di Hotel Savoy[3] (1924) è Daniel Dan, ufficiale austriaco, figlio di ebrei russi, aspirante scrittore. Vero ebreo errante, senza patria, diretto verso Occidente, si ferma nell’hotel più lussuoso di Varsavia, il Savoy. In esso si trovano personaggi di ogni ceto e qualità, in attesa di un evento funesto che li disperda ai quattro venti. Un incendio apocalittico riduce il Savoy a un mucchio di macerie con la conseguente dispersione dei suoi clienti. È il simbolo di un mondo che brucia, distruggendo uomini e cose.
Il disorientamento, il vuoto esistenziale e il sentimento della vanità del tutto, avvertiti dai reduci della guerra, sono espressi in quadri scarni e impietosi, nel romanzo Fuga senza fine [4] (1927), in parte autobiografico. Ecco l’inizio:
«Nell’agosto dell’anno 1916 il tenente dell’esercito austriaco Franz Tunda cadde prigioniero dell’armata russa. Fu portato in un campo, situato alcune verste a nord di Irkustk. Riuscì a fuggire grazie all’aiuto di un polacco siberiano. Nella remota, triste e solitaria cascina del polacco, ai margini della taiga, l’ufficiale rimase fino alla primavera del 1919».
Nella cascina Franz Tunda ha la percezione del suo essere: «Un giovane senza nome, senza fama, senza rango, senza titolo, senza denaro e senza lavoro, senza patria e senza diritti» (p. 58). I tre anni vissuti in Siberia, fuori dal mondo, quasi un sepolto vivo, hanno fatto di lui un uomo-ombra, svuotato di prospettive, in balia del destino.
Alla fine della guerra decide di partire. Attraversa la Siberia, raggiunge l’Ucraina: presso Kiev, scambiato per una spia, è legato e chiuso in una stalla; sviene, si sveglia e si vede circondato da guardie rivoluzionarie e tra queste una ragazza che lo interroga, ne intuisce la estrazione borghese e ne diventa l’amante. Si chiama Natasha Alexandrovna, ventitreenne, rivoluzionaria convinta. Anche Tunda diventa rivoluzionario. Ma dopo un certo tempo i due si lasciano: lei non accetta un amore fedele e duraturo, lui è disincantato della rivoluzione e di Natasha. Non riesce a dimenticare Irene, la fidanzata di un tempo, appartenente all’alta borghesia. Dove sarà ora? Riuscirà a incontrarla?
A Mosca conosce Alja, una ragazza bella ma strana. La sposa e con lei vive a Baku «in una precarietà senza fine», con la sensazione «di essere diventato molto estraneo a questo mondo». Crede all’arbitrarietà delle proprie decisioni, dimenticando invece «i passi del destino» al di sopra del nostro convulso agitarsi (cfr p. 83). Senza sapere perché, abbandona la Russia e la moglie, e torna a Vienna. Scrive all’amico Joseph Roth: «Il vento mi sospinge e non temo la rovina». Quale rovina può temere un individuo come lui portato via dal destino come una foglia dal vento?
Da Vienna riprende le peregrinazioni attraverso la Germania fino ad approdare a una città sul Reno dove abita suo fratello Georg, direttore di orchestra. Un approdo penoso perché Franz è ridotto sul lastrico. Ma tra lui e Georg c’è soltanto incomprensione, freddezza, anzi disprezzo. E la fuga senza fine continua, fino a Parigi. Aveva saputo che Irene era in questa città. Era possibile incontrarla? Era rimasta la ragazza di un tempo o si era amalgamata tra le signore che giocano a golf e ballano il charleston? Un bel giorno vede una signora, magra, bionda e vestita di grigio, i fianchi sottili e leggiadri. È Irene. Lei non lo riconosce. Neanche lui la riconosce.
Che cosa farà Tunda? Accettando l’invito dell’amico polacco, potrebbe far ritorno nella cascina ai margini della taiga. Preferisce restare a Parigi. «Qui, gli sembrava, era il suo posto e la sua rovina. Viveva dell’odore del marcio, e si nutriva dello stantio, respirava la polvere delle case fatiscenti e ascoltava con delizia il canto dei tarli […]. Si trovava sulla piazza della Madeleine, al centro della capitale del mondo e non sapeva cosa doveva fare. Non aveva lavoro, non aveva amore, non aveva desiderio, non aveva speranza, non aveva ambizione e nemmeno egoismo. Così superfluo come lui non c’era nessuno al mondo». Sono le ultime battute del romanzo.
Franz Tunda è un personaggio emblematico della crisi seguita alla prima guerra mondiale. Svuotati di certezze metafisiche e religiose, si inciampa nel vuoto esistenziale di traguardi e di desideri. Questa situazione conduce alla passività e suggerisce che il caso — o il destino — resta la sola legge storica e individuale.
Dinanzi alla cripta dei Cappuccini
La Cripta dei Cappuccini [5], sotto vari aspetti, è l’«io dico seguitando» della Fuga senza fine. Qui la fuga di Franz Tunda perde di significato e approda al nulla; nella Cripta dei Cappuccini il nulla assume il volto della morte verso la quale tutto converge e si dissolve. Si potrebbe dire che la morte, così spesso ricordata e intravista, sia protagonista del romanzo: «La morte incrociava già le sue mani ossute sopra i calici dai quali noi bevevamo, lieti e puerili» (p. 40). Questa frase — ripetuta più volte — è come un ritornello che sintetizza il senso ultimo del romanzo.
La Cripta dei Cappuccini, pubblicato nel 1938, a Parigi, dove Roth era esule da cinque anni, è un’«orazione funebre» per l’epilogo dell’Impero austro-ungarico. Questo colosso politico era sorto dopo la ristrutturazione dell’Impero austriaco nel 1867 e si era consolidato nei vari Stati sotto il regno di Francesco Giuseppe. Il romanzo inizia con la descrizione della vita galante della gioventù nella mitica Vienna degli anni precedenti la prima guerra mondiale. Esemplare di questa gioventù dorata è Francesco Fernando von Trotta, ventenne, di famiglia nobile. Ecco come si presenta:
«Era di moda allora, poco prima della grande guera, una beffarda arroganza, una fatua professione di cosiddetto “decadentismo”, di stanchezza immensa, mezzo simulata, e di noia senza motivo. In questa atmosfera passai i miei anni migliori. In questa atmosfera i sentimenti avevano a malapena posto, le passioni erano rigorosamente vietate, i miei amici avevano piccole, anzi insignificanti “liaisons”, donne che si deponevano, talvolta persino si prestavano come pastrani; donne che si dimenticavano come ombrelli o si abbandonavano di proposito come fagotti molesti a cui si evita di guardare per paura che ci possano essere riconsegnati» (p. 24).
La vita di questi decadenti, trascorsa in quei vecchi caffè viennesi impregnati del «potente spirito della vecchia monarchia», è interrotta dal proclama dell’imperatore Francesco Giuseppe: «Ai miei popoli». La guerra è dichiarata, 1914. Il giovane Trotta, che deve partire, nota: «Mi parve, allora, che la guerra venisse più che a proposito. Nel momento in cui fu lì, inevitabile, davanti a me, capii subito […] che perfino una morte assurda era preferibile a una vita assurda» (p. 59). L’assurdità della sua vita viennese gli è rivelata anche dal cugino Joseph Branco, contadino e caldarrostaio sloveno, e da Manes Reisiger, vetturino ebreo. Una vita, la loro, fatta di lavoro umile, di fedeltà alla famiglia e di accettazione della loro condizione. Trotta chiede di essere assegnato al reggimento di fanteria del cugino e dell’amico ebreo: «Volevo morire insieme a loro, e non con dei ballerini di valzer».
Nella Galizia orientale, i tre amici sono catturati dall’esercito russo: «Così, ingloriosamente, finì la nostra prima battaglia». Un folle andare di sei mesi li porta all’interno della Siberia dove trovano rifugio presso un polacco, mercante di pellicce. Dopo giorni duri, perché vittime della «follia del deserto», lasciano la Siberia; la vigilia del Natale 1918 Trotta si ritrova a Vienna, sotto una pioggia granulosa, simbolo di una città che marcisce. Si considera un «vivo per errore» e non ritrova il suo mondo; sua madre è sorda, sua moglie (prima di partire per la guerra ha sposato Elisabeth) è vittima di una donna possessiva che la porta via da lui. Solitudine e vuoto.
«Tutti noi avevamo perso rango e posizione e nome, casa e denaro e valori: passato, presente, futuro. Ogni mattina quando aprivamo gli occhi, ogni notte quando ci mettevamo a dormire imprecavamo alla morte che invano ci aveva attirato alla sua festa grandiosa. E ognuno di noi invidiava i caduti. Riposavano sotto terra e la primavera ventura dalle loro ossa sarebbero nate le violette. Noi invece eravamo tornati a casa disperatamente sterili, con i lombi fiaccati, una generazione votata alla morte, che la morte aveva sdegnano. Il referto della commissione di arruolamento era irrevocabile. Diceva: “Giudicati inabili alla morte”» (p. 146 s).
Nell’atmosfera di disfacimento, Trotta e gli amici di un tempo avvertono un assuefarsi alla disperazione. «Cominciammo addirittura ad amare la nostra disperazione come si amano dei nemici sinceri» (p. 148). In questo amore confluiscono e si dissolvono i piccoli affanni personali, e ci si rassegna a trascinare i giorni e le notti in una città fantasma. «Sul nostro tavolo gravava un silenzio soffocante che non veniva da dentro di noi ma scendeva dall’alto. Noi non piangevamo la nostra patria perduta, la passavamo per così dire sotto silenzio. Qualche volta, a un tratto, senza che ci fossimo accordati, cominciavamo a cantare vecchie canzoni militari. Vivi eravamo e presenti in carne e ossa. Ma in realtà eravamo morti» (p. 182). La scomparsa, nel 1938, della Repubblica austriaca, assorbita dalla Germania hitleriana (l’Anschluss), e la proclamazione del nuovo Governo popolare tedesco furono come un annuncio funebre.
Per sopravvivere Francesco Ferdinando trasforma la casa paterna in una pensione; dopo la morte della madre, vende la casa e riprende la vita di un tempo, svuotata di tutto, disinteressato a tutto. «Io ero escluso; escluso ero. Escluso in mezzo ai vivi significa qualcosa come: extraterritoriale. Ero appunto un extraterritoriale in mezzo ai vivi» (p. 191). Alla fine del romanzo lo vediamo dinanzi alla cripta dei Cappuccini dove giacciono i suoi imperatori, e si pone una domanda: «Dove devo andare, ora, io, un Trotta?». Dove, se non a fare compagnia ai sepolti della cripta?
La Cripta dei Cappuccini è un potente affresco di un impero che crolla, simbolo delle realtà umane, e della vita stessa dell’uomo, che si frantumano, lasciando appena una debole memoria di sé. Roth è il cantore della «gran fine» dell’impero asburgico: un cantore dallo stile classico che si rifà ai grandi romanzi e all’epos dell’Ottocento.
Ascoltando la «Marcia di Radetzky»
L’orazione funebre raggiunge i toni alti per il finis Austriae nella Marcia di Radetzky [6](1932), opera più strutturata e significativa delle due precedenti. Racconta la storia della famiglia Trotta, di origini contadine di Sipolje (Slovenia). Durante la battaglia di Solferino (1859), l’umile sottotenente Joseph Trotta salva la vita dell’imperatore Francesco Giuseppe, ottiene la promozione a capitano e il titolo nobiliare di barone. Tale evento lega la vita della famiglia Trotta a quella dell’Imperatore, anzi di tutto l’Impero. Joseph Trotta diventa un mito: l’eroe di Solferino. Il figlio di Joseph, Franz, è promosso capitano distrettuale, e Karl Joseph, figlio di Franz, sottotenente nell’esercito austriaco. L’attenzione di Roth si concentra su questo giovane nel quale si condensa e si consuma il destino di un mito.
Carl Joseph è l’antitesi di suo padre: disilluso e depresso, senza ambizioni e senza entusiasmo per la monarchia, mentre suo padre vive nel culto dell’Imperatore, nel mito dell’eroe di Solferino, nel fedele adempimento del suo compito. Il suo mondo riecheggia l’atmosfera dell’Ottocento: fede nell’Impero, nei valori dell’aristocrazia austriaca e nei riti del cattolicesimo; il figlio invece respira l’aria del Novecento: insicurezza, abulia, sentimento della disgregazione e del dissolvimento. Vive, sì, all’ombra del nonno, l’eroe di Solferino, ma sa bene che era «invecchiato e morto. Ora i vermi lo divoravano. E suo figlio, il capitano distrettuale, il padre di Carl Joseph, era anch’egli un uomo anziano. Presto anche lui sarebbe stato divorato dai vermi» (p. 91). Carl Joseph avverte la precarietà e la vanità del tutto: la vita nell’esercito sa di vuoto, sul ritratto del nonno si accumula la polvere, l’animo di suo padre trasuda stantio. Che cosa fare? E il sottotenente tenta vie di fuga nell’alcool, nell’amore, nel gioco, senza mai riuscire a fugare lo spettro del vuoto e della morte. Quando prende l’orologio da tasca del dottor Max Demant, morto in duello, ha «l’impressione di vedere la sottile lancetta dei secondi girare più veloce di qualsiasi altra sul piccolo quadrante e di udirne il ticchettio argentino più impetuoso che mai. Le lancette non avevano alcuno scopo e il ticchettio alcun senso» (p. 169). Avverte il passo della morte: «Con me tutto sarà sepolto. Sono l’ultimo dei Trotta».
Allo scoppio della guerra è inviato sul fronte occidentale e muore («una pallottola gli trafisse il cranio»), mentre cerca generosamente di dissetare i suoi soldati. La sua morte avviene parallela a quella dell’Imperatore. Il conte Chojnicki, che finirà pazzo, gli aveva detto:
«[La Monarchia] cade a pezzi. Cade a pezzi e si è già dissolta! Un vecchio votato alla morte, minacciato da ogni semplice raffreddore, detiene l’antico trono soltanto grazie al miracolo che gli consente di sedercisi ancora sopra. Per quanto ancora, per quanto? Questa epoca non ci vuole più! Questa epoca vuole creare innanzitutto degli Stati nazionali indipendenti! Non si crede più in Dio. Il nazionalismo è la nuova religione. La gente non va più nelle chiese. Va nei circoli nazionalisti. La Monarchia, la nostra Monarchia, si fonda sulla religiosità: sulla convinzione che Dio abbia scelto gli Asburgo affinché regnino su tali e tanti popoli cristiani. Il nostro imperatore è un fratello secolare del Papa, è Sua Imperiale e Regia Maestà Apostolica, nessun altro è apostolico come lui… L’Imperatore dell’Austria-Ungheria non può essere abbandonato da Dio. Ma adesso Dio lo ha abbandonato» (p. 173 s).
Il romanzo si conclude con questo abbandono.
Il titolo del romanzo, la Radetzkymarsch, evoca il brano musicale di Strauss senior composto per festeggiare la vittoria degli austriaci a Custoza, il 25 luglio 1848. In seguito è diventata il simbolo delle vittorie dell’Impero austro-ungarico. Joseph Roth qui lo usa in senso contrario. In realtà, il romanzo si apre con la sconfitta di Solferino (1859) e si chiude con quella dell’Impero. Romanzo complesso, ben costruito, dagli sfondi epici, percorso da una struggente vena nostalgica. La sua unità va ricercata nell’atmosfera di disfacimento e di morte che trasuda da ogni pagina; nel senso di fatalità che incombe sugli uomini e sulla storia; nella consapevolezza che tutto è destinato a scomparire, trascinando, nel suo processo di disfacimento, memorie, desideri, esperienze. Tutto è relativo, soltanto Dio è assoluto. Ma Dio, da noi, è stato relegato nell’alto dei suoi cieli, e ricordato con riti e funzioni senz’anima.
Da grande narratore, Roth mostra come anche la natura, animata e inanimata, partecipi al canto funebre per il crollo dell’Impero. Alla fine del romanzo il vecchio guardaboschi Jan Stepaniuk, scrutando il cielo, scorge l’ombra grigia delle anatre selvatiche. «Volavano tra le stelle, come un piccolo velo chiaro portato dal vento. “E non è tutto!”, disse Stepaniuk. “Questa mattina ho visto centinaia di corvi, come non mi era mai capitato prima. Corvi forestieri, vengono da terre straniere. Vengono, credo, dalla Russia. Da noi si dice che i corvi sono i profeti tra gli uccelli”» (p. 312). La forza immaginativa di Roth, che scruta e interpreta i segni dei tempi, si diffonde sulle vicende umane e trasmette al lettore un sentimento di sbigottimento e di ineluttabilità.
Sui passi di Giobbe
Nel 1927 Joseph Roth pubblicava Ebrei erranti, un saggio dedicato al destino degli ebrei dispersi per il mondo. In esso si leggeva: «Molti tornano indietro. Molti di più rimangono per strada. Gli ebrei orientali non hanno una patria da nessuna parte, ma hanno tombe in ogni cimitero. Molti diventano ricchi. Molti diventano attivi in una cultura straniera. Molti perdono se stessi e il loro mondo». Il romanzo Giobbe[7], pubblicato tre anni dopo, traduce le affermazioni di Ebrei erranti in una sequenza di scene che hanno il sapore dell’epica classica e del racconto-parabola. Al canto funebre per il tramonto dell’impero di Francesco Giuseppe si accompagna, con Giobbe, il canto funebre per la dispersione dell’ebraismo orientale, con ritmi e con finale che rimandano al biblico Libro di Giobbe.
«Molti anni fa viveva a Zuchnow un uomo di nome Mendel Singer. Era pio, timorato da Dio e ordinario, un comunissimo ebreo. Esercitava la semplice professione di maestro. A casa sua, che consisteva soltanto di una spaziosa cucina, trasmetteva ai bambini la propria conoscenza della Bibbia». Così inizia il romanzo. Siamo a Zuchnow, nella Volinia (Ucraina), all’inizio del Novecento. La famiglia di Mendel Singer comprende Deborah, la moglie, incinta, e tre figli: Jonas, Schemarjah e Mirjam. La vita trascorre tranquilla e uniforme «come un povero ruscello tra misere sponde». La nascita del quarto figlio, Menuchim, porta lo scompiglio: il bambino è affetto da una grave minorazione psicofisica. La madre, angosciata ma non rassegnata come il marito, porta il bambino da un rabbi, ritenuto taumaturgico. La sentenza è bisbigliata ma netta: «Menuchim, il figlio di Mendel, guarirà […]. Il dolore lo renderà saggio, la cattiveria buono, l’amarezza dolce e la malattia forte» (p. 38).
Passano gli anni. Menuchim dà l’impressione di una bestiola. I fratelli tentano di eliminarlo, ma invano. L’amore tra Mendel e Deborah si spegne. Lui vive di amarezza e di stupore («Perché Dio ci ha castigato?»), lei di tormentata speranza («Il sant’uomo ha detto che guarirà»). Quando Jonas e Schemarjah sono chiamati alle armi nell’esercito russo la sventura si rinsalda. Il primo si arruola, l’altro emigra clandestinamente negli Stati Uniti. Le parole di Mendel sono pietre: «Non so di cosa [Dio] ci stia punendo, prima con l’infermo Menuchim e adesso con i figlioli sani […]. Contro il volere del cielo si è impotenti. “Tuona e fulmina, si incurva su tutta la terra e non gli si può sfuggire”, così è scritto» (p. 52).
Quando Mirjam si dà al vizio, frequentando i cosacchi, per sfuggire al disonore, padre, madre e figlia emigrano in America dove li aspetta Schemarjah, che a New York è diventato un piccolo imprenditore. Menuchim resta a Zuchnow, affidato a una coppia di compaesani. Questo abbandono sarà una spina per i genitori. La sventura li raggiunge anche in America. In Europa è scoppiata la guerra; Schemarjah — ora chiamato Sam — si arruola nell’esercito americano e muore di crepacuore. Mirjam frequenta un degenerato e impazzisce. Mendel è un morto che vive. La sua capacità di soffrire e di credere si esaurisce, lasciando via libera alla disperazione e alla ribellione. Il medico che lo visita sentenzia: «Sua maestà il dolore ha preso il vecchio ebreo» (p. 120).
In preda all’odio e alla solitudine totale, Mendel decide di vendicarsi di Dio e della sua fede in lui. Raccoglie i sacchetti di seta rossa dove sono custoditi i filatteri, il suo tallit e i suoi libri di preghiera. Intende bruciare tutto, urlando che «è finita, è finita per Mendel Singer». Alza in aria i sacchetti, ma le braccia e le mani si rifiutano di obbedire alla sua ira. Accorrono gli amici, lo calmano, gli chiedono che cosa voglia bruciare. «Dio voglio bruciare» (p. 122), è la sua risposta.
Alla fine della guerra progetta di tornare al suo paese. Il pensiero di Menuchim lo perseguita. Prima di partire viene a sapere che è sbarcato a New York, proveniente da Zuchnow, il suo paese, un rinomato musicista ebreo, di nome Kossak. Che costui non gli possa dare notizie su Menuchim? Tra lacrime e singhiozzi, fissa il musicista e gli chiede: «Menuchim vive?». Kossak lentamente risponde: «Menuchim sono io» (p. 146). Secondo la profezia del rabbi, il ragazzo idiota e paralitico era guarito, si era sposato, ha due figli, è una celebrità. S’immagini lo stato d’animo di Mendel, che voleva bruciare Dio. Nella stanza dell’albergo, rimasto momentaneamente solo, osserva la foto della moglie e dei bambini di Kossak, e si distende. «Mentre si chiudevano lentamente, i suoi occhi portarono con sé nel sonno tutta l’allegria blu del cielo e i volti dei bambini. Accanto a loro spuntarono dallo sfondo bruno del ritratto Jonas e Mirjam. Mendel si addormentò. Si riposò così dal peso della felicità e della grandezza dei miracoli». Così termina il romanzo.
Le idee-base sulle quali è costruito Giobbe sono sostanzialmente due. La prima è la mitizzazione dello shtetl, cioè delle comunità ebraiche diffuse in particolare nell’Europa centro-orientale, tenacemente legate alle proprie tradizioni e costumi socio-religiosi, strutturati di valori morali e religiosi. Di queste comunità Roth è un nostalgico. Il passaggio dallo shtetl all’America è traumatico: l’abbandono del luogo dell’anima per il luogo degli affari comporta la disintegrazione di una persona. Roth non nega il progresso socio-economico, ma non riesce a dimenticare la ricchezza interiore e la gioia della sua terra natale. La nostalgia per la perdita delle tradizioni dello shtetl comprende anche, in lui, il rimpianto dell’Impero asburgico.
L’altra idea-base del romanzo riguarda la sua ispirazione biblica. Mendel Singer, come Giobbe, è un tessuto di sofferenze, la sua vita una concertazione di buio che esclude la presenza di Dio. Succede che poco prima della Pasqua (si badi, della Pasqua) faccia ritorno il figlio abbandonato. E la vita trionfa. A Menuchim il vecchio padre così dice: «Ho commesso gravi peccati, il Signore ha chiuso un occhio. Isprawnik l’ho chiamato. E lui ha tenuto le orecchie chiuse. È così grande che la nostra cattiveria diventa misera» (p. 148). E si addormenta nella pace della fede.
I podcast de “La Civiltà Cattolica” | INTELLIGENZE ARTIFICIALI E PERSONA UMANA
La nostra epoca sarà ricordata come quella della nascita delle intelligenze artificiali. Ma cosa sono le intelligenze artificiali? Qual è l’impatto sociale di queste nuove tecnologie e quali sono i rischi? A queste domande è dedicata una serie in 4 episodi di Ipertèsti, il podcast de «La Civiltà Cattolica».
Poeta del rimpianto e della nostalgia
Come definire Joseph Roth? La definizione più appropriata ci sembra la seguente: poeta del rimpianto e della nostalgia. I due sentimenti non si riferiscono soltanto alla scomparsa degli shtetl e del mondo di ieri, asburgico e cattolico, ma anche alla fede religiosa. Aveva la fede il nostro scrittore? La risposta migliore ci è data dal racconto La leggenda del santo bevitore[8], composto da Roth nei mesi prima di morire, e pubblicato postumo. È un gioiello letterario per trasparenza stilistica, bellezza e profondità di contenuto. Ha un sapore che rimanda al Novellino e ai Fioretti di san Francesco.
Andreas Kartak, originario — come Roth — delle province orientali dell’Impero, è un clochard. Vive sotto i ponti della Senna, a Parigi. Un anziano signore gli offre venti franchi «per tirare avanti». Andreas prima rifiuta, poi ne accetta duecento con l’impegno della restituzione, perché lui è un «uomo d’onore». Quando? Dove? «Vada a Ste Marie des Batignolles e, quando il sacerdote avrà finito di dire la messa, consegni il denaro nelle sue mani. Infatti, se c’è qualcuno a cui lei è debitore, è la piccola santa Thérèse» (p. 30). Passano i giorni. Ogni volta che Andreas ha il denaro — e di denaro miracolosamente ne riceve molto — per saldare il debito, non resiste alla tentazione di usarlo in vecchi vizi e avventure. La restituzione diventa un miraggio, ma resta un impegno di onore. Quando per l’ennesima volta si reca a Ste Marie des Batiginolles con il denaro, in attesa che finisca la messa, entra in un bistrot per bere. Si apre la porta ed entra una bambina che si mette a sedere davanti a lui. Si chiama Thérèse. Andreas crede che sia la santa, venuta a trovarlo, date le sue assenze. Improvvisamente si accascia «come un sacco vuoto», lo portano nella sacrestia di Ste Marie. Non riuscendo a parlare, fa un gesto per indicare la tasca dove si trova il denaro che deve alla piccola creditrice, e muore. Il racconto termina con questa invocazione: «Voglia Dio concedere a tutti noi, a noi bevitori, una morte così lieta e serena».
Come Andreas Kartak, Joseph Roth aveva la fede, ma non gli riusciva di viverla[9]. Ne avvertiva però il rimpianto e la nostalgia perché vedeva in essa la possibiltà di superare il vuoto. Non ebbe una morte lieta e serena, ma il pensiero di Dio lo accompagnò fino all’ultimo.
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[1] Sull’argomento cfr B. SALVARANI, Le storie di Dio. Dal grande codice alla teologia narrativa, Bologna, Emi, 1997.
[2] J. A. CHIUSANO, Literatur, Milano, Rusconi, 1984, 407.
[3] Cfr J. ROTH, Hotel Savoy, Firenze, Vallecchi, 1969.
[4] Cfr ID., Fuga senza fine, Roma, Newton, 2010.
[5] Cfr ID., La Cripta dei Cappuccini, Milano, Adelphi, 2009.
[6] Cfr ID., La Marcia di Radetzky, Roma, Newton, 2010.
[7] Cfr ID., Giobbe. Romanzo di un uomo semplice, ivi, 2010.
[8] Cfr ID., La leggenda del santo bevitore, ivi, 2010.
[9] Nel romanzo Tarabas (1934) si nota chiaramente la tensione tra l’esaurimento della fede di Roth e al tempo stesso la volontà dello scrittore di riconquistarla ad ogni costo. In una lettera da Odessa nel 1926 così Roth definiva se stesso: «Sono un francesce d’Oriente, un umanista, un razionalista religioso, un cattolico con cervello ebraico, un vero rivoluzionario». Il suo cattolicesimo era soprattutto — ma non esclusivamente — ammirazione per gli aspetti rituali.