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Il 17 dicembre 1989 andò in onda per la prima volta negli Stati Uniti il cartone animato dei «Simpson», destinato a diventare nel giro di pochi anni la più famosa sitcom (commedia comica) del mondo. La serie è stata ideata dall’ingegnoso fumettista americano Matt Groening, quando, pochi minuti prima di presentarsi a un importante appuntamento con un produttore televisivo, non avendo preparato nulla, si inventò alcuni nuovi personaggi dalle mascelle quadrate, con occhi simili a due palle da golf e dalla pelle gialla per far credere ai telespettatori che si trattasse di un problema tecnico dei loro televisori. Nessun produttore avrebbe scommesso che quelle nuove figure sarebbero diventate tra i personaggi più famosi della storia del fumetto; in poco tempo, invece, gli americani si riconobbero nelle storie della famiglia Simpson e della società della cittadina di Springfield.
All’inizio degli anni Novanta l’opinione pubblica mondiale si divise in due. Soprattutto negli Stati Uniti molte associazioni di genitori ritennero che la famiglia Simpson non fosse un buon modello educativo, addirittura George Bush senior, allora presidente, criticò la serie televisiva: «Stiamo provando a rafforzare la famiglia americana, in modo da farla assomigliare di più ai Waltons e di meno ai Simpson». Molte scuole proibirono agli studenti di indossare le magliette dei Simpson, ma l’indotto intorno alla serie televisiva permise, dopo soli 14 mesi di produzione, di ricavare due miliardi di dollari.
Nel 1998, uno dei componenti della famiglia, Homer, risultò il 46° personaggio più famoso al mondo, collocandosi appena dopo Picasso, Roosevelt, Gandhi e i Beatles. Ancora oggi, dopo 24 stagioni televisive e un film campione di incassi, i «Simpson» stanno battendo tutti i primati: vengono visti da cento milioni di spettatori di tutto il mondo, sono distribuiti in 90 Paesi con indotti pari a quello delle grandi industrie. Il 31 dicembre 1999 il Time premiò i «Simpson» come «miglior serie televisiva del secolo», mentre, per l’influenza culturale sulle nuove generazioni, alcune espressioni, come l’esclamazione contrariata di Homer Simpson, «D’oh!», sono state introdotte nell’Oxford English Dictionary.
A causa dei temi trattati e del linguaggio usato la serie è stata più volte censurata da emittenti di Paesi come Gran Bretagna, Venezuela, Argentina, Giappone. In Russia e in Cina la programmazione è stata addirittura vietata per anni, mentre la traduzione italiana «attenua» spesso le espressioni volgari e, anche se ci sembra una scelta criticabile, ad ogni personaggio è associato un accento regionale diverso [1].
Di certo il nuovo tipo di programma ha provocato una rivoluzione: ha introdotto nelle case di milioni di famiglie un nuovo tipo di cartone animato, opposto a quelli dal «lieto fine» della Disney, in cui i personaggi sono o solamente buoni o solamente cattivi[2]. Nei «Simpson» non è così; il bene e il male coesistono in ogni personaggio, come nella parabola evangelica del grano e della zizzania, mentre il racconto della vita di una famiglia comune, di uno spaccato di società americana o di singoli problemi personali, spinge i telespettatori a rimanere attaccati al teleschermo e a esclamare: «Stanno parlando anche di me e del mio mondo!». I motivi di analisi possono essere infiniti. Dalla critica i Simpson sono stati considerati come un prisma dalle molte facce, ma noi ci limiteremo a sottolineare alcuni messaggi di natura antropologica ed etica veicolati dalla serie televisiva.
I personaggi
I Simpson narrano la vita di una famiglia americana in un tipico Comune, Springfield, il cui nome è comune ad almeno 30 cittadine americane. Homer è il capofamiglia, lavora come addetto alla sicurezza in una centrale nucleare, ma, a causa della sua lentezza, sul posto di lavoro non gode della stima di nessun collega. Il suo unico desiderio comunque è tornare a casa dopo una giornata di lavoro per mettersi davanti alla tv e mangiare pop corn, sandwiches e bere birra. Si tratta di un uomo privo di eleganza, penalizzato anche dal suo aspetto fisico, poco capace di dialogare, ma generoso. Quando va a dormire, a volte sussurra alla moglie: «Margie, sai che ti voglio bene», ma il loro rapporto è problematico e soprattutto privo di dialogo.
Marge fa la casalinga a tempo pieno, è la voce morale della famiglia, insegna ai figli (senza grande successo) a compiere il bene e a combattere il male ed è ancorata alle tradizioni. Purtroppo personifica anche la mamma iper-protettiva e invadente con uno strano passatempo: modifica continuamente la sua capigliatura blu iper-cotonata e molto alta, che utilizza di volta in volta come cassaforte, piccolo armadio e portafoglio. È bella dentro ma brutta fuori, in più porta il 47 di scarpa.
I Simpson hanno tre figli: il primogenito Bart (tradotto vuol dire monello) è il personaggio più popolare. Ha dieci anni e si vanta di esser l’ultimo della classe. In realtà lo è diventato per scelta, almeno viene riconosciuto e legittimato nel suo ruolo da una società che non considera nessuno. È furbo e contrario a qualsiasi regola, ama lo skateboard e la tv, mentre il suo passatempo più grande è fare scherzi al barista, Boe Szyslak, e al suo preside, Seymour Skinner.
La sorella Lisa ha otto anni ed è il cervello di casa Simpson. È vegetariana ed ecologista, ma anche anticonformista, progressista e ambiziosa, sogna in grande (vorrebbe diventare presidente degli Stati Uniti) e crede di essere tra le musiciste più brave al mondo. Invece quando suona il sax la gente esclama: «Più che musica, questo è inquinamento acustico».
Infine c’è Maggie, l’ultimogenita, ha un anno, non parla, tiene in bocca un biberon stereofonico e quando cerca di camminare cade in avanti. Saggiamente gli autori ripetono spesso una scena per far riflettere su un comportamento molto diffuso nelle famiglie: la piccola Maggie viene lasciata o dimenticata per ore davanti alla tv perché tutti possano stare tranquilli. L’equilibrio su cui si costruisce l’unità familiare gira intorno ad altri due personaggi: un gatto, Palla di Neve II, e un cane, Piccolo aiutante di Babbo Natale. In realtà la famiglia ha anche un altro membro, nonno Abe, che risulta però escluso e screditato dal resto dei membri della famiglia. Egli incarna sia l’abbandono degli anziani nella società occidentale degli anni Novanta, sia la memoria storica della famiglia, sia la saggezza e l’esperienza di vita. Come spesso accade agli anziani, anche nonno Abe, sergente durante la seconda guerra mondiale, vive di ricordi e aneddoti; però i Simpson non amano ricordare il proprio passato e i fallimenti vissuti, ma vogliono vivere il presente cercando di conquistarsi il futuro. Per questo il nonno è mandato in «esilio» senza nessuno scrupolo e risentimento nel Castello di riposo di Springfield, un ospizio privo di vita.
I contenuti
I circa 440 episodi della serie, che richiedono ai produttori dai sei ai nove mesi di lavoro ciascuno, si basano su un insieme di comicità apparentemente surreale, toni sarcastici sui tabù della società americana e tanta satira sulla famiglia e sulla vita quotidiana. Springfield va dunque considerata l’icona del villaggio globale dell’Occidente, dove, se da una parte tutto è deformato e ingigantito come in uno specchio concavo, dall’altra parte il senso di ciò che si racconta è reale e non si limita alla realtà degli Stati Uniti, ma tocca altre parti del mondo, per lo meno le più industrializzate.
Certo, le sfumature e le varianti al tema rischiano di non essere comprese da coloro che non vivono negli Usa. Vengono infatti richiamati fatti di cronaca come lo scandalo Watergate o la guerra in Iraq, si commentano problemi politici aperti, non mancano poi apparizioni di personaggi famosi come i Kennedy, la moglie del presidente Barak Obama, Michelle, o riferimenti a film di attualità, a canzoni o a trasmissioni televisive che piacciono ai telespettatori. Nell’episodio «Lisa l’indovina» le scene delle partite di football americano sono adattate di anno in anno aggiornandole con il nome delle squadre che partecipavano al Super Bowl. Tutto questo perché? Per far sentire il cartone animato vivo e vero, calato in tempo reale nella quotidianità dei telespettatori [3].
Ma c’è di più. Le stesse occupazioni dei protagonisti sono una satira sui problemi che si vivono in una città moderna. Homer lavora in una centrale nucleare, ma è il primo a buttare dal finestrino una scoria nucleare o ad inquinare il lago della città con un silos pieno di sterco del suo maiale. Il suo modo disordinato di mangiare e di bere è provocatorio, così come può rendere perplessi l’unico grande desiderio della sua vita, quello di vedere la tv. Per questi motivi è spesso nauseato e schiavo, ripete i luoghi comuni che ascolta, e consuma ciò che la pubblicità gli comanda. Eppure è stato votato dai telespettatori bambini come padre ideale per due ragioni: rimane in famiglia ed è simpatico.
Le giornate a scuola di Bart ed Lisa, figli di una generazione piena di violenza e di paure che rifiuta i modi tradizionali di educare, sono una critica implacabile al sistema scolastico statunitense: la violenza in aula, la mancanza di autorevolezza degli insegnanti, un modo di insegnare superato, i tagli delle risorse alla scuola, la rottura di quel patto di fiducia che legava professori e famiglie per educare insieme.
Ma la satira del programma porta a chiederci anche come vivere il ruolo di casalinga, di madre e di moglie. Se lo si fa nel modo di Marge si rischia sistematicamente di dare ai problemi di oggi risposte di ieri ancorate esclusivamente alla tradizione. Lo stesso rapporto matrimoniale tra Homer e Marge, tenuto insieme dai figli, è il segno di un disagio tacito, mai chiarito, forse compromesso per sempre, causato dall’incapacità di dialogare e di riconciliarsi esplicitamente.
Ogni episodio, dietro alla satira e alle tante battute che fanno sorridere, apre temi antropologici legati al senso e alla qualità della vita. Anche la politica non viene risparmiata. Nonostante la serie tratti temi — come, ad esempio, l’ambiente, il disarmo, la salute, la promozione dei diritti civili — cari al partito democratico americano (per questo motivo l’amministrazione Bush ha sempre temuto le critiche dei Simpson), sistematicamente si denunciano gli abusi di potere del Governo e delle grandi industrie.
La vita sociale sembra priva di speranza e il susseguirsi delle puntate lo racconta in modo implacabile: i politici sono corrotti, i media sono asserviti al potere e la loro informazione è faziosa, le autorità religiose sono lontane dalla vita dei fedeli, persino la polizia locale, in particolare il commissario Clancy Winchester, è inefficiente e non garantisce né ordine né sicurezza. Nell’episodio del lago inquinato il politico che sta cercando di salvare la città con mezzi molto costosi per il Governo esclama: «Certo io sono il proprietario dell’azienda [e dei mezzi utilizzati], ma questo è un dettaglio minimo».
La religione
I Simpsons rimangono tra i pochi programmi tv per ragazzi in cui la fede cristiana, la religione e la domanda su Dio sono temi ricorrenti. La famiglia recita le preghiere prima dei pasti e, a modo suo, crede nell’aldilà [4]. Il rapporto con Dio del capofamiglia è adolescenziale; prima di andare alla funzione religiosa ripete alla moglie: «Ma Marge, e se avessimo scelto la religione sbagliata? Ogni settimana faremmo solo diventare Dio più furioso!». Tuttavia il rapporto con Dio è trasmesso più dalla famiglia che attraverso la mediazione degli uomini delle istituzioni religiose. La forte critica infatti più che coinvolgere le varie Confessioni cristiane travolge le testimonianze e la credibilità di alcuni uomini di chiesa.
Il reverendo Lovejoy, pastore della comunità protestante di Springfield, è il capro espiatorio di questa operazione. Molte puntate hanno ridicolizzato i suoi sermoni, mentre Bart dorme e Homer ascolta il risultato delle partite. Il suo atteggiamento è disilluso, al punto che sembra aver perso la gioia di quando arrivò per la prima volta in paese con la sua chitarra e la sua Bibbia. Parla a slogan e tappezza la sua chiesa di striscioni per lanciare il tema della settimana: «Domenica, il miracolo del pentimento»; «Vietato parcheggiare per la sinagoga»; «All’arcivescovo sono rimasti solo 20 $». Al reverendo Lovejoy sembra conti di più il riconoscimento sociale che la vita spirituale dei suoi fedeli, ma in alcuni suoi dialoghi si nota come gli autori non conoscano le differenze tra la Chiesa cattolica e le Confessioni protestanti.
Le sue risposte poi sono spesso sbrigative e superficiali. Nella puntata su «Il segreto di un matrimonio felice», quando Marge gli chiede consiglio per risolvere i suoi problemi di coppia, Lovejoy le risponde: «Divorzia!». Purtroppo basta una risposta così per generare in milioni di telespettatori sfiducia e confusione nella chiesa. Ma simili battute sono premeditate e volute dai produttori. Il lassismo e il disinteresse che emergono rischiano di educare ancora di più i giovani a un rapporto privatistico con Dio.
Il reverendo Lovejoy ha comunque una capacità di autocritica che lo porta a riconoscere i suoi errori e a chiedere perdono. Non manca in lui una sottile ironia. Quando viene a sapere che una setta sta facendo proselitismo per fini di lucro nel suo territorio, la domenica successiva precisa: «Questa cosiddetta nuova religione non è altro che una marea di riti bizzarri e salmodie escogitati per estorcere denaro agli ingenui. Procediamo alla preghiera del Signore quaranta volte. Ma prima, passerà il piatto della colletta».
Il tema religioso è sviluppato anche attraverso la figura di Nedward (Ned) Flanders, il cristiano evangelico, vicino di casa dei Simpson. Si tratta di un convertito molto gentile ma integralista, sempre pronto ad aiutare e ad offrire una parola buona. È ossessionato dal timore di violare le leggi di Dio, che segue alla lettera, e sente come un dovere e non come un aiuto per vivere una vita nuova. Invece di considerare il tempo come un dono di Dio da vivere attraverso la preghiera e il servizio agli altri, Ned vive la sua quotidianità come il luogo della conquista della salvezza che si ottiene compiendo le norme e i precetti biblici. Il suo modo eccentrico emerge in più occasioni, come nella scelta della targa dell’auto JHS 143 (il passo del Vangelo di Giovanni 1,43 in cui Gesù dice a Filippo: Seguimi). I Simpson lo maltrattano e ritengono che sia «tossicamente religioso», ma Ned è sempre disposto a rischiare la sua vita per salvare la loro, come nella puntata del lago inquinato da Homer, quando gli abitanti di Springfield volevano ucciderli. Quando poi Flanders sta per essere espulso dalla comunità, Homer lo difende davanti all’assemblea: «Quest’uomo ha porto ogni guancia di cui disponeva. Se ognuno di noi fosse come Ned, non ci sarebbe bisogno del paradiso: ci saremmo già».
La figura di Ned, a causa della sua esagerata religiosità, è diventata un caso di studio sociologico[5].
Il tema religioso emerge anche in altre due occasioni: la paura della fine del mondo e la supplica a Dio per fare bene l’esame o un colloquio ecc. Gli autori, che hanno una concezione apocalittica del tempo, più che del senso e del fine del tempo, il quale porterebbe a interrogarsi su come viviamo da fratelli, spostano l’attenzione sulla fine del tempo. Per questo i Simpson vanno in chiesa per placare la paura del futuro che sono incapaci di governare. Dio diventa soprattutto per Homer l’ultimo rifugio: «Di solito non sono un uomo religioso, ma se tu sei lassù, salvami… Superman!». In alcune puntate Dio appare come un anziano dalla barba folta e bianca, ma il suo volto non viene rappresentato, rimane mistero da scoprire.
Il 1° maggio 2007 la programmazione ha dedicato una puntata alla Chiesa cattolica intitolata «Padre, figlio e spirito pratico». Quando Homer è espulso dalla scuola, come punizione i genitori lo mandano nella scuola cattolica di San Girolamo, dove «l’insegnamento è duro e non si può scherzare». Mentre la maestra è una suora irlandese intransigente, il cappellano, padre John, conquista Homer. Gli racconta la sua conversione, gli dice che quando era piccolo gli assomigliava, poi gli regala una vita di santi da leggere. Basta un incontro autentico di questo genere per cambiare la vita a Homer, che esclama «il cattolicesimo è mitico». In casa i genitori si preoccupano, e il giorno seguente Bart affronta il cappellano: «Sono stufo che insegnate e mio figlio i valori pieni di valori!». Ma anche il padre viene conquistato dal giovane sacerdote al punto da voler diventare cattolico. Si confessa e si sente libero. Nel frattempo la moglie Marge, il reverendo Lovejoy e il vicino di casa Ned dichiarano guerra ai cattolici: «Non posso entrare nella Chiesa cattolica — esclama Marge —, una fede diversa vuol dire un aldilà diverso, poi voglio che la mia famiglia rimanga unita». Lo scontro si fa duro. La posizione di Lisa è di apertura: «Tutti dovrebbero poter scegliere la propria fede». Ma il gruppo che rappresenta l’istituzione e il potere della comunità protestante aumenta la tensione tra le due entità. Così è il piccolo Bart a dare una lezione ai grandi di comprensione: «Tutto è cristianità. Le piccole stupide differenze non sono niente con le grandi analogie».
Conclusione
Dopo 24 stagioni della serie animata più trasmessa nella storia della tv, a molti genitori rimane una domanda: «Permetto ai miei figli di vedere i Simpson?». La preoccupazione è fondata sulla paura che un linguaggio crudo e spesso volgare, la violenza di certi episodi o le scelte estreme di certe sceneggiature influenzino il comportamento dei loro figli. Ma il realismo dei testi e degli episodi potrebbe essere l’occasione per vedere alcune puntate insieme, e coglierne gli spunti per dialogare sulla vita familiare, scolastica, di coppia, sociale e politica. Solamente in questo modo sarà possibile comprendere il linguaggio dei Simpson, il loro contesto, la loro cultura e le domande di senso che ogni puntata pone.
Nelle storie dei Simpson non c’è mai lieto fine, ma non c’è nemmeno, come alcuni autori affermano, solamente cinismo e sarcasmo. Si racconta la realtà e la possibilità di trovare un senso in quella quotidianità che spesso schiaccia e umilia le persone. Così le giovani generazioni di telespettatori vengono educate a non illudersi. In ogni personaggio emerge ottimismo e pessimismo, la consapevolezza di dover vivere un ruolo sociale e il sogno di voler essere liberi. Sui loro volti e nelle loro parole è impresso lo smarrimento dell’uomo contemporaneo e i condizionamenti a cui è sottoposto. Per questo motivo le giovani generazioni di telespettatori non sono più educate a un lieto fine, ma devono confrontarsi con una realtà dura e a volte paradossale, dove la famiglia sembra essere l’unico rifugio. Fuori invece della propria casa vige la legge della giungla: «Vinca il migliore». Ma tale prospettiva, che vorrebbe essere realista e obiettiva, rischia di minare la fiducia nell’altro e nel futuro, che invece si costruisce con lo sforzo e il contributo di tutti.
Il luogo della salvezza è l’unità della famiglia-istituzione; questa infatti «permane al centro di tutto il plot narrativo: sbeffeggiata di continuo, ovvio, ma anche riconosciuta come l’unico (e l’ultimo) autentico punto di riferimento in chiave sociale, e a conti fatti il più solido, con un reciproco e ben saldo attaccamento fra ogni suo membro» [6]. Tuttavia l’unità familiare non è costruita sulla promozione del bene comune o su scelte di gratuità in favore dei più deboli. Quando Lisa parla della sua attività con i poveri, Homer fa emergere quell’egoismo sociale che rischia di condizionare lo sviluppo umano delle nostre società: «Quello [il volontariato] non è un lavoro, è una perdita di tempo. Quanto ti possono pagare i poveri? Niente! Che soddisfazione ricavi dall’aiutarli? Nessuna! E del resto, chi vuole aiutare i poveri? Nessuno!».
Rimane un ultimo aspetto su cui riflettere. I Simpson rimangono «eternamente giovani», non mutano, rimangono uguali a se stessi. La dimensione del tempo che passa, le scelte da compiere nella storia, l’uso delle nuove tecnologie, la dimensione della malattia e della morte, non sono quasi mai temi trattati. Invece, se si vuole parlare della realtà e dell’umanità che l’uomo condivide, questi temi andrebbero seriamente affrontati dagli autori.
Infine è vero che gli episodi pongono più enfasi sulla religione come istituzione che sulla vita di fede intesa come sequela di Cristo fatta di preghiera e aiuto al prossimo.
Anche nei Simpson ci sembrano nascosti alcuni spunti che si trovano pure nel Vangelo, come quando Bart afferma: «Per poter salvare me stesso devo salvare gli altri». Basterebbe che i milioni di ragazzi che ogni giorno seguono la serie interiorizzassero questo insegnamento per sperare in un mondo migliore.
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[1] I Simpson, prodotti e distribuiti dalla Fox, rete televisiva di impronta conservatrice, sono stati trasmessi per la prima volta in Italia il 1° ottobre 1991 con l’episodio «Bart il genio». Da allora il programma è seguito da una media di 4 milioni di italiani. Fino al 1996 sono andati in onda su Canale 5 e poi su Italia 1. Dopo l’interruzione del 2002 la serie riprese l’anno successivo con un ritardo sugli episodi americani di circa due anni. Attualmente sono trasmessi dalla rete Sky e hanno superato le 440 puntate. I principali dati sono tratti da «I Simpson», in http://it.wikipedia.org/wiki/I_Simpson/ La catalogazione degli episodi italiani si trova in «Piccola guida ai Simpson», in http://web.tiscalinet.it/fabioracco.simpson/Data.htm
[2] È, ad esempio, il caso di Barney, uno degli amici di taverna di Homer, che è geniale ed educato, ma quando beve diventa imprevedibile e cattivo.
[3] Cfr W. Irwin – M. T. Conard – A. J. Skoble, I Simpson e la filosofia, Milano, Isbn, 2009. In questo volume un gruppo di filosofi statunitensi analizza i vari personaggi dei Simpson associandoli al pensiero di grandi filosofi della storia. Così, per gli Autori, Bart incarna l’ideale nichilista; Marge è l’esempio della realizzazione dell’etica aristotelica, la mentalità della cittadina di Springfield è un esempio di decostruzione del reale.
[4] Alcune idee della nostra riflessione in questo paragrafo sono tratte da B. Salvarani, Da Bart a Bart. Per una teologia dei Simpson, Torino, Claudiana, 2008; Id., «La teologia secondo i Simpson», in Avvenire, 11 maggio 2008, 7; U. Lorenzi, «Cos’hanno di così bello i Simpson», ciclostilato; L. Possati «Le virtù di Aristotele e la ciambella di Homer», in Oss. Rom., 23 dicembre 2009.
[5] Cfr P. Naso, God bless America. Le religioni degli americani, Roma, Editori Riuniti, 2002, 7.
[6] B. Salvarani, «Dio, Homer e la ciambella», in Jesus, 2 febbraio 2008.