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Nel settimo libro della Repubblica Platone immagina che in una dimora sotterranea a forma di caverna, con la vasta entrata aperta alla luce, ci siano degli uomini, incatenati alle gambe e al collo, sì da dover restare fermi e da poter guardare soltanto in avanti, cioè nell’interna parete di fondo. Che cosa vedono? Non altro se non la propria ombra e le ombre delle cose proiettate sulla parete. Per costoro la verità altro non è che l’ombra delle cose; scambiano per realtà la semplice apparenza. «Strana immagine è la tua — disse — e strani sono quei prigionieri». «Somigliano a noi — risposi»[1]. Con questa famosa allegoria della caverna, Platone vuol dire che quegli uomini non potevano raggiungere la vera realtà perché i loro sensi erano incatenati dal fenomeno; condotti all’aperto, sarebbero stati capaci di distinguere gli oggetti, poi gli astri, infine il sole e concludere che quanto avevano creduto realtà era semplice apparenza.
Per il suo ultimo romanzo La caverna[2] José Saramago si è ispirato all’allegoria platonica della caverna e l’ha interpretata in chiave moderna. Ha sostituito le ombre della caverna con i miraggi di un centro commerciale, ha identificato la realtà-verità di Platone con la vita, e gli uomini incatenati del suo tempo con gli uomini della società consumistica del nostro. Come Platone ha inteso insegnarci che possiamo sganciarci dalla schiavitù fenomenica e muoverci nella luce del sole, cioè nella realtà vera, così Saramago ci ammonisce che talune espressioni della nostra società — come il mondo delle immagini, offerto dai centri commerciali e dalle esigenze delle multinazionali — possono irretire la volontà e alterare l’intelligenza se non vi opponiamo resistenza.
La caverna è un’opera di notevole valore formale e contenutistico, ammantata di poesia, ricca di umanità e di psicologia, saldamente e sapientemente costruita sì da tenere desta l’attenzione per tutte le 385 folte pagine. L’esito è largamente positivo sia per il ricorso allo «stile orale»[3], tipico dell’Autore, sia per l’armonica fusione del patetico con l’ironico, sia per l’atmosfera di suspense della vicenda narrata. Un limite del romanzo è la compiacenza nei dialoghi e nei monologhi, che indulge a lungaggini e ripetizioni.
Saramago ha affermato di non usare «la letteratura come se fosse uno strumento ideologico. Un narratore non declama, non lancia messaggi»[4]. Da autentico narratore, certamente egli non declama, ma di messaggi ne lancia, e non pochi, perché la sua opera si confonde con la sua persona, sì che le sue idee strutturano le sue storie senza sovrapporsi ad esse e produrre romanzi a tesi. Si può pertanto affermare che La caverna, pur essendo un romanzo di idee, polemico anche, è soprattutto opera d’arte.
La triste storia del vasaio Cipriano Algor
Cipriano Algor, sessantaquattrenne, vedovo, di mestiere vasaio, vive con la figlia Marta e col genero Marçal Gacho, che lavora come guardiano presso un centro commerciale. Ogni tanto carica il furgone di stoviglie — brocche, piatti, caraffe — e le porta al centro per la vendita. Il guadagno non è eccelso, ma permette a lui e alla figlia di vivere con dignità. Un bel giorno gli si annuncia che il centro non comprerà più le sue terracotte; i clienti preferiscono le stoviglie di plastica: pesano di meno e sono più economiche. Nulla da fare. Neanche il tentativo di cambiare prodotto — invece delle stoviglie confezionare statuette — ha esito felice. Così tre generazioni di vasai, scompaiono perché l’incalzare del progresso le ha rese «inutili».
Per ironia della sorte, Cipriano Algor deve trasferirsi nel centro perché il genero è stato promosso guardiano residente, con diritto a un appartamento, piccolo, sì, ma capace di ospitare tre persone. Il trasloco sa di funerale, e l’appartamento, al trentaquattresimo piano, con le finestre che non si possono aprire per via dell’aria condizionata, fa pensare alla prigione. Tutto regolato, tutto funzionante, come in una prigione, appunto. «Quello che è passato per la testa di Marta e vi ha messo radici nel varcare la soglia della porta della sua nuova casa, in quell’altissimo trentaquattresimo piano con mobili chiari e due vertiginose finestre a cui non aveva avuto il coraggio di avvicinarsi, fu che non avrebbe sopportato di trascorrere lì dentro il resto della propria vita» (p. 271). Senza lavoro, senza le cose che lo legavano alla vita, senza interessi, Cipriano Algor si muove in un silenzio disperato. Non sa trattenere le lacrime, e «non c’è niente di più triste, di più miserevolmente triste di un vecchio che piange» (p. 273).
La situazione al centro diventa insostenibile. Non è possibile trascorrere la vita a «guardarsi le mani e sapere che non servono a niente, guardare l’orologio e sapere che l’ora successiva sarà uguale alla presente, pensare al domani e sapere che sarà altrettanto vuoto dell’oggi» (p. 292). Neanche è possibile vivere in un posto dove c’è tutto, ma non il sole, non le stelle, non la vita. Quando Cipriano Algor, durante una rischiosa avventura notturna, scopre quanto è nascosto in una caverna, la decisione è presa. Lascia il centro e fa ritorno alla sua vecchia casa, accada quel che accada. Lo seguono la figlia e il genero, resi consapevoli della mostruosità del centro. Lasciano anche la vecchia casa (ora «con vista sul cimitero»), in cerca di miglior sorte. «Dopo alcuni chilometri, Marçal disse, […] C’era un manifesto, di quelli grandi, sulla facciata del Centro, riuscite a indovinare cosa diceva, domandò, Non ne abbiamo idea, risposero entrambi, e allora Marçal disse, come se recitasse, ENTRO BREVE, APERTURA AL PUBBLICO DELLA CAVERNA DI PLATONE, ATTRAZIONE ESCLUSIVA, UNICA AL MONDO, ACQUISTA SUBITO IL BIGLIETTO». Sono le ultime parole del romanzo.
Le nuove grandi cattedrali
L’idea portante del romanzo si può così formulare: la società odierna è minacciata dal potere totalitario costituito dalle multinazionali, dalla globalizzazione e dal consumismo. Tale potere si va affermando mediante miraggi funesti. «Credo — ha affermato Saramago — che la somiglianza più inquietante tra la caverna di Platone e il mondo di oggi sia la confusione tra realtà e apparenza. Oggi noi non siamo circondati dalle ombre ma dalle immagini. È vero che le immagini sono lì per mostrarci la realtà, ma nel momento in cui ce la mostrano, finiscono anche per nasconderla. La realtà virtuale è una contraddizione in termini: perché se la realtà è realtà, non può essere virtuale. Viviamo in una specie di caverna virtuale in cui siamo entrati per nostra volontà»[5]. Nel romanzo tale caverna si identifica col centro commerciale.
Esso è «come una città che vive dentro un’altra città». È fornito di tutto: negozi, gallerie, punti d’incontro, bar e ristoranti, una giostra con i cavalli, un’altra con i missili. Ci sono anche ambienti per procurarsi sensazioni naturali: pioggia, uragani, nevicate («ombrelli che si rigirano, berretti che volano via dalle teste, le donne che urlano per non ridere, gli uomini che ridono per non urlare, e il vento aumenta, è come un tifone, c’è chi scivola, chi cade, si rialza, ricade, la pioggia si trasforma in un diluvio», p. 299 s), e infine un sole trionfante. C’è perfino una spiaggia: «E com’è, Sul tropicale, fa molto caldo e l’acqua è tiepida, E la sabbia, Non c’è sabbia, il pavimento che ne fa le veci è di plastica, da lontano sembra addirittura autentico, Ma le onde non ci sono, naturalmente, E invece vi sbagliate, c’è all’interno un meccanismo che produce un’ondulazione tale e quale al mare, Non mi dire, Invece sì, Che cosa non sono capaci di inventare gli uomini, Davvero, disse Marçal, è un po’ triste» (p. 300).
Alcuni slogan dei manifesti esposti aiutano visitatori e residenti a sintonizzarsi con lo spirito del centro. Per esempio questi: «Sii audace, sogna», «Vivi l’audacia di sognare», «Acquista operatività», «Senza uscire di casa i mari del sud a tua disposizione», «Pensiamo continuamente a te è il tuo momento di pensare a noi», «Porta i tuoi amici purché comprino», «Con noi non vorrai mai essere altra cosa». Il centro non è un magazzino né un luogo di divertimento o di svago; è anche questo, ma soprattutto è una struttura ideata per far pensare e comportarsi secondo idee e sensazioni indotte. A tale obiettivo mirano gli slogan. La legge che regola la vita del centro è implacabile: «Come tutto nella vita, quello che non serve più si butta via, Comprese le persone, Proprio così, comprese le persone, io stesso sarò buttato fuori quando non servirò più, Lei è un capo, Sono un capo, infatti, ma solo per coloro che stanno sotto di me, sopra ci sono altri giudici, Il Centro non è un tribunale, Lei si sbaglia, è un tribunale, e non ne conosco di più implacabili» (p. 120).
L’elemento propulsore del centro è «il segreto dei segreti». Molti pensano che non esista, che si tratti di una mistificazione, ma un vice capo confessa a Cipriano Algor: «Il segreto dei segreti non esiste, ma noi lo conosciamo, non esiste, ma lo conosciamo, lo conosciamo, lo conosciamo» (p. 226). Il vasaio aveva udito un vicecapoufficio «spiegare cosa significa valore di scambio e valore d’uso, probabilmente il segreto dei segreti sta nel creare e favorire nel cliente stimoli e suggerimenti sufficienti affinché i valori d’uso si elevino progressivamente nella sua valutazione, passo a cui farà seguito dopo poco tempo l’ascesa dei valori di scambio, imposta dall’arguzia del produttore a un compratore a cui siano state tolte a poco a poco, sottilmente, le difese interiori derivanti dalla consapevolezza della propria personalità, quelle che prima, ammesso che sia mai esistito un prima intatto, gli hanno offerto, ancorché precariamente, una certa possibilità di resistenza e autodominio» (p. 226 s). Ecco il segreto dei segreti.
Saramago, su registri diversi ma non meno acuti, si accosta ai vari George Orwell (La fattoria degli animali, 1984), Aldous Huxley (Il mondo nuovo), Aleksandr Solàenicyn (Divisione cancro, Arcipelago Gulag) e altri per denunziare uno dei crimini più nefandi del nostro tempo: il lavaggio del cervello e la manipolazione della personalità. Ai poteri militari di ieri subentrano i poteri economici e commerciali di oggi; al dio dello Stato totalitario succede il dio del consumismo e delle multinazionali. Che il centro sia un’espressione del divino è un articolo di fede. «Non ho esagerato affatto — dice il capo dell’ufficio acquisti a Cipriano Algor — affermando che il centro, da perfetto distributore di beni materiali e spirituali qual è, ha finito per generare da se stesso e in se stesso, per pura necessità, qualcosa che, ancorché ciò possa scioccare certe ortodossie più sensibili, partecipa della natura del divino» (p. 277). Grazie a tale partecipazione — assicura il capo — milioni e milioni di persone hanno acquistato un nuovo senso della vita e hanno vinto infelicità e frustrazioni. «E questo, che lo si voglia o no, mi creda, non è stata opera della materia vile, bensì dello spirito sublime» (p. 278). Lo «spirito sublime» che guida il progresso materiale e spirituale sarebbe il potere globale.
All’interrogativo: il centro commerciale del romanzo ha sostituito la caverna platonica? Saramago ha così risposto: «Sì, solo che i nostri antenati nella caverna cercavano rifugio e protezione contro le minacce esterne, mentre noi siamo lì dentro isolati e nel contempo in perenne comunicazione con l’esterno: come se le cose che ci circondano ci fossero ostili. Prima ci si incontrava nei giardini o nelle piazze, ormai ci si incontra nei grandi magazzini, luoghi chiusi che ci danno sicurezza. In fondo hanno sostituito anche le grandi cattedrali. C’è un radicale cambiamento di mentalità»[6].
Sei cadaveri in mostra
La dichiarazione di Saramago è vera, ma non esaurisce il significato di fondo del suo romanzo, indicato nelle ultime pagine. Da quando si trova nel centro, Cipriano Algor ha sentito il suolo vibrare e il rumore di scavatrici sotterranee. Preso dalla curiosità, vuol sapere. Il genero sa, ma è legato al segreto. Che cosa sa? Sa che a trenta-quaranta metri di profondità è stata scoperta una grotta misteriosa che presto sarà oggetto di studio da parte di geologi, archeologi, sociologi, medici legali, tecnici pubblicitari e due filosofi. Sarà sorvegliata da 20 guardiani — e tra questi Marçal — con l’ordine del segreto assoluto. Con astuta pertinacia Cipriano Algor viene a conoscere l’ubicazione della grotta, e di notte, quando il genero è di guardia, superando difficoltà e paure, riesce a raggiungere la grotta. Marçal prima resta interdetto, poi gli dà una torcia per poter raggiungere il fondo. La scoperta è terrificante.
«La luce tremula della torcia percorse lentamente la pietra bianca, sfiorò leggermente delle stoffe scure, risalì, ed era un corpo umano seduto quello che stava lì. Accanto a lui, coperti con le stesse stoffe scure, altri cinque corpi seduti, tutti eretti come se uno spiedo di ferro avesse loro trapassato il cranio e li tenesse avvitati alla pietra […]. Cos’è questa roba, mormorò Cipriano Algor, cos’è mai questo incubo, chi erano queste persone. Si avvicinò di più, passò lentamente il fascio di luce sulle teste scure e rinsecchite, questo è un uomo, questa è una donna, un altro uomo, un’altra donna, tre uomini e tre donne, vide resti di funi che sembravano esser servite per immobilizzare i loro colli, poi abbassò la luce, altre funi uguali tenevano le gambe legate […]. La luce della torcia accarezzò nuovamente i miseri volti, le mani ridotte a pelle e ossa incrociate sulle gambe, e, soprattutto guidò la stessa mano di Cipriano Algor quando andò a sfiorare, con un rispetto che sarebbe religioso se non fosse semplicemente umano, la fronte secca della prima donna» (p. 318 s).
Cipriano Algor si accascia su uno sgabello, e piange. Sul suolo vede anche «una grande macchia nera, in quel punto il terreno era bruciato, come se per lungo tempo ci fosse stato ad ardere un falò». Rientrato a casa, alla figlia e al genero dice semplicemente: «Voi deciderete per la vostra vita, io me ne vado via». Perché questa decisione? Perché ha capito che «quegli uomini e quelle donne sono molto di più che semplici persone morte […]. Siamo noi» (p. 319 s). Noi, destinati alla morte. La caverna non soltanto la rappresenta: la causa, la mercifica. Bisogna andar via. Bisogna ritrovare vere ragioni di vita, non importa se, per tale scopo, occorra sfidare l’ignoto. Quali queste vere ragioni di vita?
Le vere ragioni di vita
La prima è l’amore. La caverna è anche un romanzo d’amore inteso come significato, gioia e forza della vita. «Per un uomo […] l’avere una donna che ami e che ha confessato di ricambiarlo è la più eccelsa delle benedizioni e delle fortune» (p. 291). Cipriano Algor, fallito come vasaio e senza lavoro, trova nell’amore di una donna il coraggio di affrontare l’avvenire e la gioia della vita. Occorre però che l’amore sia vero, cioè che scaturisca dalla profondità dei sentimenti e che non si esaurisca in soddisfazioni passeggere ed egoistiche. Le pagine del romanzo dedicate all’amore di Cipriano Algor e di Isaura Madruga, anche lei vedova, sono profuse di poesia, di finezza psicologica e di elevatezza di sentimenti; amore profondo, benefico, timido, che diffida delle parole e si fortifica nella sofferenza del distacco forzato.
Un’altra ragione di vita è il lavoro che dà all’uomo dignità e mezzi di sussistenza. Quando Cipriano Algor comprende che egli non è più necessario alla società, perché il suo lavoro di vasaio non «serve» più, si sente un uomo finito. «Esposto così, disarmato, con la testa reclinata all’indietro, la bocca mezza aperta, smarrito, presentava l’immagine pungente di un abbandono senza salvezza, come un sacco che si fosse rotto e avesse lasciato scolare strada facendo quello che conteneva» (p. 32). «Così è la vita» gli dice un dirigente del centro dopo avergli comunicato che le sue terracotte non servono più. C’è prima il profitto, poi la persona; e la persona che non produce la si «butta fuori». Al povero vasaio altro non resta che recarsi al cimitero e sfogarsi con la moglie morta. «Non è giusto, Justa, ciò che mi hanno fatto, si sono beffati del mio lavoro e del lavoro di nostra figlia, dicono che le stoviglie di terracotta non interessano più, che non le vuole nessuno, e quindi anche noi non siamo più necessari, siamo una scodella crepata a cui non vale la pena di perder tempo a mettere ganci» (p. 36)[7].
Per Cipriano Algor c’è una terza ragione di vita: il suo cane. È un protagonista del romanzo; fedele, devoto al padrone, sensibile. Per il vasaio la devozione del suo cane è un elemento determinante e vitale. Quando apre lo sportello del furgone e la bestia gli salta in braccio, folle di gioia per il ritorno del padrone, o quando gli si avvicina per leccargli le lacrime («Lì rimasero per più di due ore il cane e il suo padrone, ciascuno con i propri pensieri, ormai senza le lacrime piante dall’uno e asciugate dall’altro», p. 249) Cipriano Algor comprende che deve vivere anche per la bestia. «Ancorché a tanta gente sembri scandaloso dirlo, e obiettivamente non sia possibile spiegarlo, perfino un cane è capace di farti aggrappare alla vita» (p. 228); «può anche accadere che la gioia disinteressata di un cane ci riconcili per un minuto breve con i dolori, le delusioni e i dispiaceri che il mondo ci ha causato» (p. 200).
Un mucchietto di polvere essiccata al sole
L’amore, il lavoro, la devozione di un cane, e anche — in controluce — la libertà di evasione e di decidere della propria vita, la possibilità di godere delle cose che la natura ci offre: sono i valori che Saramago propone come elementi per giustificare la vita. Sono elementi validi, universalmente accettati, perché fondamento del ben vivere e della società umana. Qui l’orizzonte di Saramago si chiude. Nessuna trascendenza, nessun oltre. Tutto si esaurisce in questo tempo, poiché «l’eternità è questo [tempo], nient’altro che questo» (p. 98). Non esiste provvidenza («Tu credi nella divina provvidenza che veglia sui poveracci, No», p. 331) né destino ultraterreno; tutto si consuma in questa vita, dominata dal caso, perciò «accade solo ciò che deve accadere» (p. 81).
Chi siamo? «Preferibile non sapere chi siamo» (p. 141). Non è piacevole sapere che siamo fenomeni della natura, e fenomeni sbagliati, abbandonati in un mondo insensato nel quale «le menzogne sono tante e le verità nessuna» (p. 84). Quando moriamo, di noi restano soltanto le parole, ma queste sono «solo cortine di fumo», talvolta «muro di silenzio compatto» (p. 251) davanti al quale si resta bloccati. Prima di lasciare definitivamente la sua casa, Cipriano Algor entra nella fornace, prende dagli scaffali le statuette difettose e le riunisce alle loro sorelle ben fatte e sane, esposte all’aperto. Che cosa succederà di esse? «Con la pioggia si trasformeranno in fango, e poi in polvere quando il sole le asciugherà, ma questo è il destino di ognuno di noi» (p. 334). Un mucchietto di polvere essiccato al sole: ecco chi siamo. Anche nel suo capolavoro, Tutti i nomi, Saramago ci ha ricordato che «eravamo, siamo e saremo polvere»[8].
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[1] PLATONE, Dialoghi, Bari, Laterza, 1956, 295
[2] Cfr J. SARAMAGO, La caverna, Torino, Einaudi, 2000, 335, L. 34.000. Per un’informazione sull’opera di Saramago cfr Civ. Catt. 1999 II 148-161; 338-350.
[3] Lo «stile orale» consiste «nell’immettere nel discorso, eliminando interpunzioni e virgolette, le battute dei personaggi e del narratore, in un continuum di domande, risposte, interventi e considerazioni dell’io narrante che non è sempre lo stesso. È come se lo scrittore registrasse una conversazione a più voci, in cui gli interventi degli interlocutori, immediati e talvolta sconnessi, si susseguono su ritmi diversi, in un diluvio di parole e in un intrico di storia, visionarietà, parabole e proverbi, scanditi da una semplice virgola cui segue una maiuscola» (F. CASTELLI, «José Saramago tra storia, visionarietà e intemperanze», in Civ. Catt. 1999 II 150). Negli ultimi romanzi lo «stile orale» dello Scrittore si è andato semplificando e moderando, con risultati positivi.
[4] J. SARAMAGO, «Intervista» rilasciata a G. SALTINI, ne Il Messaggero, 16 maggio 2001.
[5] J. SARAMAGO, «Intervista» rilasciata a P. DI STEFANO, in Corriere della Sera, 22 gennaio 2001.
[6] Ivi.
[7] In occasione della laurea ad honorem conferitagli dall’Università di Roma Tre, Saramago ha pronunciato un nobile discorso sui diritti umani e sulla dignità della persona.
[8] J. SARAMAGO, Tutti i nomi, Torino, Einaudi, 1998, 82.