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Nel 1513, Niccolò di Bernardo Machiavelli[1] dedicava a Lorenzo di Piero de’ Medici, nipote di papa Leone X e parente di Lorenzo il Magnifico, la sua opera De Principatibus, Il Principe[2]. Un libro scritto in un italiano latineggiante, breve e incalzante, voluto dall’autore per realizzare un sogno: «Poiché dunque desidero presentarmi alla Vostra Magnificenza con un segno che testimoni tutto il mio rispetto, non ho trovato, tra quanto posseggo, cosa che io consideri più cara o che io stimi tanto quanto la conoscenza delle azioni dei potenti, che ho imparato sia attraverso la lunga esperienza maturata nel corso di questi anni sia attraverso lo studio del mondo antico. Ho analizzato e meditato a lungo e con diligenza tali azioni, le ho raccolte in poche pagine e le invio alla Magnificenza vostra»[3].
Il successo dell’opera è segnato da una serie di fallimenti e umiliazioni. Un amico comune, Francesco Vettori, consegnò il manoscritto a Lorenzo de’ Medici; ma in quel giorno il principe, amante del lusso e della caccia, aveva appena ricevuto in regalo due cani da caccia. Così il battesimo di uno degli scritti più importanti dei tempi moderni fu sostituito dallo spettacolo offerto da due festosi animali da lanciare alla conquista di fagiani, volpi e cinghiali[4]. Anche la cultura del tempo non comprese il valore del trattato: pochissimi lettori intelligenti lo capirono, e tanti nemici lo considerarono «un’opera maligna, ispirata dal diavolo in persona in cui uno scrittore empio insegna al principe come conquistare e conservare il potere per mezzo dell’avarizia, della crudeltà e della simulazione»[5].
Per circa venti anni Il Principe venne letto soltanto in manoscritti, fu stampato per la prima volta nel 1532, cinque anni dopo la morte di Machiavelli. Questa data segna uno spartiacque: la storia passa da essere magistra vitae a condizione per comprendere la politica nel suo realismo, e questo nuovo approccio rivoluziona le scienze politiche, che da induttive (i princìpi da imporre sulla realtà) diventano deduttive (dalla realtà emergono i princìpi della politica).
Lo studio del volumetto ha riempito biblioteche di ogni lingua; politici di ogni tempo hanno giustificato le loro idee con il pensiero di Machiavelli. Qui ci limiteremo a offrire qualche chiave interpretativa per poter rileggere quest’opera.
La cultura umanistico-rinascimentale di Machiavelli
Machiavelli vive la fine della Repubblica fiorentina — nella quale svolge per 14 anni il ruolo di cancelliere —, la nascita e il consolidamento del regime dei Medici, appoggiati dal papato, e il rafforzamento delle potenze straniere sull’Italia. Ma la rivoluzione culturale che egli vive come protagonista è un’altra. Nella cultura del Cinquecento inizia un processo di laicizzazione, in cui il sapere non è più quello ordinato e compatto dell’enciclopedia medievale, finalizzato al momento teologico, ma si formano le singole branche che affermano la propria autonomia sulla teologia e sulla metafisica scolastica. Il suo pensiero contribuisce alla formazione dello Stato moderno; il modello delle due città e il rapporto tra potere politico e potere religioso vengono superati, e la riflessione si sposta sulle grandi questioni politiche della modernità: l’origine e il fondamento della sovranità, il nuovo modo di concepire lo Stato e la Chiesa, il rapporto tra diritto naturale e diritto positivo, la definizione di natura, i diritti e i limiti del potere politico, la pace, la guerra, le alleanze, le relazioni tra Stati sovrani.
Con Machiavelli inizia una «rivoluzione metodologica» che coinvolge la teoria politica, la storiografia e la filosofia. «La comprensione storica diviene base per l’azione, per un’arte della politica che trasformi consapevolmente la realtà»[6]. La riflessione di Machiavelli non crea un sistema teorico e organico, come in Hobbes, Rousseau o altri pensatori; egli parte dalla realtà, la osserva, la racconta, ne deduce i princìpi, ma non impone una sua morale. Anzi, separa la politica dalla morale. Per farlo, ritorna ai testi classici — custoditi nei monasteri — e ai valori della civiltà antica che fondano l’umanesimo. La politica con il letterato fiorentino diventa scienza, perché si fonda su un’antropologia naturalistica e su una specie di psicologia fenomenologica. «La prima condizione per governare l’uomo è quella di capire l’uomo», è stato scritto. Anzi, Machiavelli è convinto che la giostra della vita giri con lo stesso ritmo e sia la stessa in ogni tempo, al punto che gli uomini lungo la storia camminano su vie già percorse, o su strade che possono essere riconosciute conoscendo la storia stessa. Due sono le variabili indipendenti: la fortuna — l’insieme degli eventi non prevedibili o non determinati dalla volontà[7] — e la nozione di virtù — che consente di prendere decisioni tempestive, corregge le scelte politiche in base alla conoscenza degli uomini —, come il coraggio, il realismo, la lungimiranza.
Ma quella di Machiavelli non è la virtù aristotelica; è semplicemente l’adozione dei mezzi migliori per raggiungere il fine politico: gloria, onore, successo, visibilità. Insomma, per il pensatore fiorentino è necessaria una fortunata astuzia, che per lui è una virtù.
Con Machiavelli salta un’altra condizione dello Stato: quella della sovranità legittima. L’unica condizione per ottenerla — e in questa posizione egli esprime il massimo del realismo e del cinismo — è quella di avere un potere che si regge sulla forza e su un certo tipo di consenso. Questo serve a legittimare la forza, che è indispensabile per mantenere il consenso.
Un’istituzione dura se riesce a trovare i compromessi necessari per rimanere stabile; ma nel suo realismo Machiavelli paragona gli Stati e le istituzioni al corpo che nasce, cresce e muore attraverso tre tipi di processi: «i fenomeni degenerativi propri di ciascuna forma istituzionale (la monarchia degenera in tirannide, l’aristocrazia in oligarchia, la democrazia in anarchia); l’alternarsi delle tre forme istituzionali; la conquista ad opera degli Stati più forti»[8].
Da questa analisi si deduce che Machiavelli è convinto che siano gli Stati misti a base popolare a reggere nella storia, mentre le repubbliche vanno in rovina, se non riescono ad adeguarsi al mutamento dei tempi.
La struttura dell’opera e il profilo del principe
Gramsci definisce così la struttura dell’opera: «Il carattere fondamentale del Principe è quello di non essere una trattazione sistematica, ma un libro “vivente”, in cui l’ideologia politica e la scienza politica si fondano nella loro drammatica del “mito”»[9]. Il Principe si compone di XXVI capitoli, che in genere gli studiosi dividono in quattro parti.
Dal I all’XI capitolo Machiavelli descrive i vari tipi di Stati: ereditari, misti, nuovi. Nel capitolo VII parla di Cesare Borgia, detto «il Valentino», il principe che egli ammira per le sue «virtù» di intelligenza e di forza, di astuzia e di crudeltà, da intendere come durezza e intransigenza. Tra le massime che si possono ricavare, ne troviamo alcune di grande attualità. L’uomo politico, secondo il Machiavelli, si giudica guardando i fatti, e non in base alle apparenze e alle parole: «Ognuno vede quel che tu pari, pochi sentono quello che tu se’» [10]. Questa capacità non è da tutti. Giudicare superficialmente, avendo come criterio ciò che appare, è per Machiavelli proprio più del volgo che del cittadino, a cui spetta, invece, il compito di avere chiaro il fine delle istituzioni[11].
Nella seconda parte, dal XII al XIV capitolo, Machiavelli esamina le varie milizie: proprie, mercenarie, ausiliarie, miste. Giudica pericolose le milizie mercenarie e quelle ausiliarie, auspica il formarsi di milizie proprie, considerate più sicure perché non legate all’interesse. In questa parte vengono richiamati i governi classici che hanno lasciato un segno nella storia. Dalla sua analisi Machiavelli deduce che gli Stati si fondano su buone leggi e buone armi: «Non può essere buone leggi dove non sono buone arme, e dove non sono buone arme conviene sieno buone leggi»[12]. L’esercito dei mercenari ha distrutto l’Italia e l’ha saccheggiata; la forza militare deve essere di soldati dello Stato comandati dal principe: «Pertanto colui che in uno principato non conosce e’ mali quando nascono, non è veramente savio; e questo è dato a pochi»[13].
In altre parole, per Machiavelli le crisi giungono improvvise, perché non si sono riconosciuti i segni che le preannunciano, come capitò per l’Impero romano. La sorpresa dell’Italia alla vigilia della discesa di Carlo VIII induce il Machiavelli a dire che i segnali c’erano già tutti, ma mancò la prudenza politica che avrebbe potuto far leggere in anticipo gli indizi. È questo il passo preliminare per chiunque voglia uscire da una crisi: individuare i punti deboli e porvi rimedio nel presente, e questo in concreto per Machiavelli era la riforma della difesa di Firenze con soldati legati da vincoli di affetto alla città.
La terza parte, dal XV al XXIV capitolo, è la più originale ed è anche la parte che ha dato luogo a critiche e a condanne: tratta delle qualità necessarie per governare bene e del rapporto fra prìncipi e sudditi. Il principe deve essere prudente, umano, ma senza eccedere nella pietà: «deve essere più temuto che amato». Mentre gli umanisti e i classici ritenevano che l’autorevolezza e il potere si legittimassero sul consenso e sull’amore del popolo, Machiavelli ritiene, parlando di crudeltà e di clemenza, che il principe debba essere amato e temuto nello stesso tempo; tuttavia «è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbia a mancare dell’uno de’ dua»[14].
Poi aggiunge due valutazioni tanto realistiche quanto crudeli: le amicizie che si basano sul denaro sono destinate a perire; quando invece il principe deve punire, è meglio che lo faccia colpendo i legami di sangue e non i patrimoni, perché «gli uomini dimenticano prima la morte del padre che la perdita del patrimonio».
L’azione del principe deve avere come fine l’utile dello Stato, senza preoccuparsi dei mezzi. Egli non deve allontanarsi dal bene quando può, ma, se occorre, deve agire anche nel male. Deve assomigliare alla volpe e al leone insieme: «Il lione [leone] non si difende da’ lacci, la golpe [volpe] non si difende da’ lupi»[15]. Solamente avendo le doti di entrambi, ci si può salvare dai lacci e vincere sui lupi. Furbo ed elegante, veloce e nascosto, ma soprattutto forte quando agisce, il principe deve essere così: sapiente nelle giuste circostanze e freddo davanti alle sue passioni. È chiamato a difendere il suo status per il bene dello Stato e per il bene di tutti. È dipinto come un custode (duro e parziale) della res-publica, non un tiranno. Come il leone difende e protegge i suoi cuccioli, così il principe è «legittimato» a comportarsi istintivamente quando la sua gente viene minacciata.
La qualità del principe si misura sul valore dei suoi ministri, «li quali sono buoni o no, secondo la prudenzia del principe»; la sua saggezza è data dalla qualità degli uomini di cui si circonda. Per Machiavelli, il proverbio «dimmi con chi vai e ti dirò chi sei» acquista un significato preciso: solo se i ministri del principe si rivelano capaci di governare, allora il principe si può considerare un governante saggio[16]. Di tutti gli uomini politici i peggiori sono «i servi del potere», «e questi sono gli adulatori, de’ quali le corti sono piene»[17]. La soluzione allora è quella di circondarsi di collaboratori ai quali permettere di riferire la verità e di criticare l’operato del governo, come fece Luca Rainaldi con l’imperatore Massimiliano.
Machiavelli mette in guardia anche dal comportamento dei principi che, per apparire generosi agli occhi del popolo, usano le risorse pubbliche così da portare alla rovina dello Stato. Lo spiega parlando della liberalità del principe, che lo fa entrare in una dinamica perversa in cui egli sperpera i soldi del popolo chiedendo tasse e imposte per raccogliere il denaro che lo fa essere generoso[18].
La quarta e ultima parte, i capitoli XXV e XXVI, riflette sulla variabile «fortuna», che Machiavelli rifiuta di accettare come unico fattore capace di governare il mondo: è l’uomo che deve agire per dominare la fortuna. Secondo alcuni studiosi, qui si trova il motto del trattato: «Meglio essere impetuoso che respettivo». Questa caratteristica aiuta a capire una massima: i governanti che non capiscono i tempi e gli uomini sono destinati a perire. Per questo lo scritto, che inizia con una fredda trattazione politica, termina con i versi della canzone Italia mia del Petrarca, segno dell’amore di Machiavelli per la sua terra. Chiede di guardare a grandi condottieri, come Mosè, Ciro e Teseo, per far rinascere una nazione: «Non si debba, adunque, lasciare passare questa occasione, acciò ché la Italia dopo tanto tempo vegga apparire un suo redentore»[19].
La politica e la morale nello Stato del principe
A Machiavelli si rimprovera di non avere una morale di riferimento, di giustificare qualsiasi azione che possa condurre alla realizzazione di un fine. Tutto questo è in parte vero, ma il suo fine era quello di scoprire le regole dell’agire politico, e non quello di definire un ideale politico. Per evitare di strumentalizzare Machiavelli, si devono tener presenti due dati che caratterizzano la sua analisi: il suo stato d’animo da esiliato che desidera ritornare in politica, e la situazione dell’Italia, che era debole, divisa in cinque Stati (Napoli, Milano, Venezia, Firenze, lo Stato della Chiesa) e bisognosa di diventare forte per non perdere la propria autonomia rispetto alle potenze europee, che da tempo sono diventate nazioni e sono pronte a conquistarla. Il desiderio di uno Stato forte, capace di eliminare il pericolo della conquista da parte degli stranieri, convince Machiavelli a studiare i meccanismi del potere, a considerare la politica come una nuova arte. Quale Stato egli propone? E soprattutto, che cosa è lo Stato per lui? Machiavelli non risponde a queste domande; lo Stato esiste, occorre trasformarlo e irrobustirlo. Egli si occupa piuttosto di conservare «la buona salute» dello Stato.
La politica, tuttavia, è arte che si fonda sulla scienza della realtà, e in questo senso non può non essere autonoma rispetto a qualsiasi norma morale che disciplina la condotta privata. Ma tale autonomia non si trasforma in alibi per chi sceglie la corruzione o è mosso dal tornaconto personale. Machiavelli non esorta mai a seguire il male, non si lascia condizionare dall’utopia. Ci aiuta a riconoscere l’uomo di governo, cioè colui che è determinato a conquistare il potere e si propone di mantenerlo nel tempo. Non indaga la natura della materia che studia. Ma la sua è soprattutto una risposta forte, disperata, al senso di precarietà e di angoscia che esisteva in quegli anni di guerre continue, di devastazioni, di incendi e di rapine. Machiavelli è innovatore anche nella comunicazione politica; per mantenere il potere, il principe deve saper comunicare e trasmettere le sue scelte ai suoi collaboratori e al popolo[20].
Rimane un ultimo dato su cui riflettere: «Con Niccolò Machiavelli siamo veramente in un mondo tutto diverso. Il Medioevo è morto, anzi, è come non fosse mai esistito. Tutti i suoi problemi — Dio, la salvezza, i rapporti tra oltremondo e mondo, la giustizia fatta fondamento divino del potere —, nulla di tutto questo esiste per Machiavelli. Egli conosce una realtà sola, quella dello Stato, e per lui c’è un solo fatto, quello del potere. Quindi, a lui interessa un solo problema: come si afferma e si conserva il potere dello Stato […]. L’immoralismo machiavelliano è semplicemente un fatto logico. Dal punto di vista da cui egli guarda le cose, religione e morale non sono che fattori sociali, ossia sono fatti che occorre saper usare e con cui fare i conti. Solo questo, e basta!»[21]. Machiavelli decristianizza lo Stato nazione e sovrano, a cui di cristiano rimane soltanto il nome.
Conclusione
Secondo Francesco De Sanctis, che considera Machiavelli il precursore dell’unità d’Italia, il merito del Principe consiste nell’avere subordinato il mondo dell’immaginazione a quello della realtà. Parafrasando Machiavelli con il linguaggio di Parmenide, possiamo affermare che «la politica è», «lo Stato è», «l’uomo è»; le analisi iniziano da questo dato: considerare la realtà per quello che è, e non per quello che dovrebbe essere[22].
Lungo il corso del tempo, «di ogni scrittore muore una parte», ricorda De Sanctis, e questo è vero anche per Machiavelli; un certo «machiavellismo» è la parte morta di lui. L’intuizione del «sistema» di Machiavelli ha però resistito nel tempo: «La serietà della vita terrestre col suo istrumento, il lavoro; col suo obiettivo, la patria; col suo principio, l’eguaglianza e la libertà; col suo vincolo morale, la nazione; col suo fattore, lo spirito o il pensiero umano, immutabile e immortale; col suo organismo, lo Stato, autonomo e indipendente; con la disciplina delle forze; con l’equilibrio degli interessi»[23].
La parte morta del pensiero di Machiavelli è nella finalità — si assolutizza lo Stato, mancano i diritti dell’uomo — e nei «mezzi», come l’assassinio politico, il tradimento, la frode, le sette, le congiure. Rileggendo l’opera, ci si rende conto del cammino fatto dalla politica italiana che rifiuta la guerra, il duello, le rivoluzioni, le reazioni violente e la ragion di Stato.
In altri testi Machiavelli non si dimostra nemico del cristianesimo, come spesso si legge. Anzi, la religione è la colonna su cui si fondano, si conservano e si riformano le repubbliche, e la radice di cui si nutrono le virtù dei cittadini. Il buon cristiano deve essere buon cittadino — non il contrario, per Machiavelli — e servire il bene comune, obbedire alle leggi, combattere la corruzione e la tirannide.
La sua critica alla corruzione religiosa italiana e alla Chiesa di Roma è per consentire alla vita di fede di ri-fondare un modo di stare nella città. I cittadini che hanno incarichi pubblici li devono assolvere con disciplina e onore. «Como gli buoni costumi, per mantenersi, hanno bisogno delle leggi; così le leggi, per osservarsi, hanno bisogno de’ buoni costumi»[24].
Anche se può sembrare un’operazione poco corretta dal punto di vista della critica letteraria, Il Principe, opportunamente interrogato, può permettere di non ripetere gli errori del passato, come essere servili verso i potenti, incentivare chi fa favori, appoggiare coloro che cambiano spesso idee politiche, ascoltare chi fa grandi promesse, non temporeggiare davanti alle riforme di sistemi politici. Coniare termini opposti come «machiavellico» — che significa spregiudicato e subdolo, falso e senza scrupoli — non aiuta a leggere il politico fiorentino sotto questa luce.
L’autore del Principe «ripete costantemente che, quanto più gli stati sono corrotti nel profondo, tanto più si dimostrano incapaci di tollerare quella amara terapia che pure, in questi casi, sarebbe indispensabile per rimetterli in sesto», e invita il lettore a non arrendersi anche davanti a situazioni che sembrano compromesse[25].
Machiavelli può essere ricordato per l’attenzione al bene comune della città, per l’amore per il proprio Paese, ma soprattutto per la credibilità, per la sua onestà e per la sua povertà. Queste sono la prova di una testimonianza che rende credibili le idee di un consigliere politico. Dopo aver servito il governo popolare di Firenze guidato da Pier Soderini per quattordici anni, e dopo aver gestito enormi somme di denaro, egli concluse la carriera senza aver guadagnato nulla. E questo lo ha reso libero di esprimersi.
C’è un altro equivoco da chiarire, come fa notare Viroli: Machiavelli non ha mai affermato «Il fine giustifica i mezzi», ma «Il fine scusa i mezzi», e lo fa nei Discorsi. Si giustifica qualcosa per renderla giusta; si scusa invece ciò che va contro una legge o un principio[26]. Giustificare significa rendere giusto; scusare è ammettere un illecito. E tutto per un fine: il dovere di servire lo Stato, che, portando all’estremo il pensiero di Machiavelli, poteva ergersi come un idolo sulla dignità dei cittadini.
Rimane però la perplessità di fondo che ci ha accompagnato nella lettura del Principe: è plausibile emancipare la politica dall’etica e dall’antropologia, erigendola ad ancella del potere? In realtà, è proprio il duplice mito dell’autonomia della politica e dei fini dell’etica il telos a cui le società tendono, ciò che dobbiamo recuperare. Altrimenti, con Machiavelli il potere è inteso come coercizione gestita da un principe illuminato. In verità, nella storia spesso si verifica la prima condizione senza la seconda.
Poiché lo Stato laico non può che avere fondamenti condivisi, è importante leggere il Machiavelli in controluce con le opere di Erasmo e di Tommaso Moro, che ricollocano al centro della vita istituzionale l’uomo, la società e i princìpi a cui tendere per convivere insieme.
Le ultime righe del Principe sono il grido di Machiavelli a Lorenzo de’ Medici perché costruisca un’Italia unita e la liberi dai nemici. Ma il corso della storia può cambiare anche per due cagnolini che hanno convinto il principe ad andare a caccia piuttosto che ascoltare la cultura del suo tempo.
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[1]. Niccolò Machiavelli nasce a Firenze il 3 maggio 1469 da Bernardo e Bartolomea de’ Nelli, una famiglia dell’alta borghesia che aveva dato a Firenze numerosi magistrati. Ha tre fratelli, di cui si conosce poco. Attraverso le fonti e le opere d’arte che lo ritraggono, emerge un uomo colto, di media statura, magro, capelli neri, fronte alta, sguardo attento, labbra sottili. Nel 1498 è eletto Segretario della Seconda Cancelleria della Repubblica; nel 1500, appena due anni dopo, è inviato presso Luigi XII di Francia; e nel 1502 è mandato in legazione presso Cesare Borgia. Nel 1501 Niccolò si sposa con Marietta di Ludovico Corsini, da cui avrà quattro figli: Bernardo, Ludovico, Piero e Guido. Dai suoi scritti non affiora il suo legame affettivo con la famiglia; è nota invece la sua lunga relazione con la cantante Barbara Salutati. L’anno 1512 segna una svolta nella sua vita: gli spagnoli restaurano a Firenze Giovanni de’ Medici; Machiavelli è allontanato dai pubblici uffici ed è condannato a tre mesi di carcere; dal marzo del 1513 è esiliato nel borgo di Sant’Andrea in Percussina, vicino a San Casciano Val di Pesa. Qui, tra il luglio e il dicembre del 1513, scrive Il Principe. Muore a Firenze il 22 giugno 1527 ed è sepolto nella chiesa di Santa Croce. Per approfondire la biografia, cfr P. Millefiorini, «Machiavelli nella critica ieri e oggi», in Civ. Catt. 2006 I 351-364; si veda anche l’introduzione di Corrado Vivanti ai due volumi di N. Machiavelli, Opere, Torino, Einaudi – Gallimard, 1997.
[2]. Per approfondire, rimandiamo il lettore ai tre volumi dell’enciclopedia machiavelliana, Machiavelli, Treccani, Roma, 2015, che si avvale della direzione scientifica di Gennaro Sasso.
[3]. N. Machiavelli, Il Principe. Politica e questione morale, Milano, Giunti, 2003, 13. Questo volume riporta sia il testo originale di Machiavelli, sia una traduzione in italiano corrente, che citeremo per i periodi lunghi come in questo caso.
[4]. S. Di Michele, «Il capolavoro della prosa italiana. Io rido e il rider mio non passa dentro», in Il Foglio quotidiano, 2 febbraio 2013, VI.
[5]. M. Viroli, Il sorriso di Niccolò. Storia di Machiavelli, Bari – Roma, Laterza, 1998. Il Principe viene criticato nell’Inghilterra puritana di Elisabetta; in Francia l’ugonotto Innocent Gentillet definisce l’opera «un manuale pratico per tiranni». In Italia Il Principe viene messo all’indice da Papa Paolo IV Carafa (1557).
[6]. Il testo filosofico. Storia della filosofia: autori, opere, problemi. 2. L’età moderna, Milano, Mondadori, 1992, 190.
[7]. Ivi, 191.
[8]. Ivi, 192.
[9] . A. Gramsci, Quaderni del carcere, Torino, Einaudi, 1975, 1555.
[10]. N. Machiavelli, Il Principe. Politica e questione morale, cit., 116. In italiano corrente: «Ciascuno vede l’apparenza, pochi si rendono conto della realtà» (p. 117).
[11]. Cfr J.-J. Chevallier, Storia del pensiero politico. II. L’età moderna, Bologna, il Mulino, 1989 s. L’autore, tra i più noti commentatori del pensiero politico, sintetizza in questo modo il carattere degli uomini secondo Machiavelli. Si tratta di un ritratto da cui emerge il pessimismo di Machiavelli sulla natura umana: a pochi è dato di diventare cittadini maturi. «Gli uomini sono avidi e interessati e si rassegnano più facilmente alla perdita del padre che a quella del patrimonio. Sono, inoltre, pieni di invidia, gelosi, insaziabili nei loro desideri, sempre malcontenti e in cerca di quello che non sono. Sono anche ingrati e senza coerenza, sono dissimulatori, bugiardi, intriganti e non appena vedono un pretesto per mancare alla parola data, lo colgono al volo. Ma non è finita. […] E quando, infatti, si presenti l’occasione (o la necessità) di una grande azione criminosa, essi arretrano e si ritirano nel loro guscio. Come nota conclusiva valga poi questa verità: essi apprezzano solo il successo, non importa con quali mezzi conseguito! Soprattutto allorché si tratta degli atti che un Principe compie per conservarsi lo Stato» (p. 28 s).
[12]. N. Machiavelli, Il Principe. Politica e questione morale, cit., 82.
[13]. Ivi, 95. In italiano corrente: «Chi in un principato non si accorge del male sin dal suo sorgere non è un vero saggio e pochi lo sono». Per spiegarlo, Machiavelli aggiunge: «La decadenza dell’impero romano ebbe inizio quando esso incominciò ad assoldare truppe gotiche».
[14]. Ivi, 108. «Si può risolverlo [il problema se sia meglio essere amato che temuto o il contrario] affermando che sono valide entrambe le soluzioni, ma, poiché è difficile mettere in pratica le due cose insieme, quando si è costretti a rinunciare ad una, è più sicuro essere temuti piuttosto che amati» (p. 109).
[15]. Ivi, cap. XVIII, 114.
[16]. Cfr ivi, 148. «Se essi si rivelano all’altezza del compito e affidabili, il Principe può essere considerato saggio. […] Esistono tre tipi di teste: quella in grado di operare da sola; quella che ha bisogno di qualcuno che la indirizzi; e quella che non funziona né sola né con la guida di qualcuno» (p. 149).
[17]. Ivi, 153.
[18]. Ivi, 105.
[19]. Ivi, 170.
[20]. Per approfondire il tema della comunicazione in Machiavelli, cfr M. Ferri, «L’opinione pubblica e il sovrano di Machiavelli», in Il Trimestrale del Laboratorio 2 (2008) 420-433.
[21]. A. Koyré, Études d’histoire de la pensée scientifique, Paris, Gallimard, 1966, 11.
[22]. Cfr N. Machiavelli, Il Principe, Milano, Rizzoli, 2000, 20 s. Nell’introduzione di Piero Melograni è possibile ripercorrere alcuni discorsi di uomini politici che volutamente usarono il Machiavelli per giustificare il loro fine politico, come Mussolini, Hitler, Lenin e Stalin. Altri autori apprezzarono il Machiavelli nelle loro opere, come Bacone, Cartesio, il cardinale Richelieu, Vico, Alfieri, Foscolo e Cuoco. Cfr l’introduzione di F. Saij, Il Principe e i discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Sesto San Giovanni (Mi), Peruzzo, 1987, V-XIV.
[23]. F. De Sanctis, nell’introduzione di P. Melograni, in N. Machiavelli, Il Principe, Milano, Rizzoli, 2000, 20.
[24]. N. Machiavelli, Discorsi, I, 18. «Un popolo non può essere libero se coloro che lo formano sono corrotti».
[25]. G. Pedullà, «Machiavelli, lo scienziato prestato alla politica», in Il Sole 24 Ore, 8 agosto 2010, www.ilsole24ore.com
[26]. Discorsi I, in M. Viroli, Scegliere il principe. I consigli di Machiavelli al cittadino elettore, Roma – Bari, Laterza, 2013, 75.