|
La Pacem in terris (1963), di cui ricorre il cinquantesimo anniversario, è certamente una delle encicliche più importanti del Novecento; essa fu accolta da tante persone, anche fuori del mondo cattolico, con grande entusiasmo e speranza e fu molto apprezzata da gran parte dei governanti della terra. Contribuì, inoltre, a dare credibilità alla Chiesa e al papato in un mondo segnato dalla secolarizzazione. Fu la prima enciclica a essere indirizzata non soltanto ai vescovi o ai fedeli cattolici, ma anche a tutti gli uomini di buona volontà. Inoltre, fu emanata in un momento molto particolare sia per la Chiesa, riunita da un anno in Concilio, sia per il mondo, che negli ultimi mesi (con la cosiddetta crisi di Cuba) aveva sperimentato la paura di una rovinosa guerra atomica, e che in ogni caso viveva in una logica di contrapposizione, imposta dalle due superpotenze dominanti[1].
L’enciclica giovannea intese offrire una trattazione ampia ed esaustiva del tema della pace, nei rapporti sia con la comunità politica, sia con quella internazionale, toccando temi etici molto sensibili e di grande attualità. Come prevedibile, essa fu una fonte preziosa per l’elaborazione di importanti documenti conciliari, come la Gaudium et spes e la Dignitatis humanae. In questo articolo tratteremo in modo sintetico della formazione dell’enciclica e ne esamineremo dal punto di vista storico i passaggi più importanti.
Formazione dell’enciclica «Pacem in terris»
Nel diario del card. Roberto Tucci, allora direttore della Civiltà Cattolica, si parla di questa enciclica e si mettono in evidenza aspetti molto importanti sulla sua elaborazione. Riportando un colloquio con il Segretario di Stato card. Amleto Cicognani, p. Tucci annotava: «Quanto all’enciclica, mi dice: la prima stesura fu fatta da mons. Pavan; era molto più lunga e fu trovata dal Papa, che ne aveva seguito tutti i passi, troppo fredda; perciò furono introdotti passi biblici ed esortativi. C’è stata poi la revisione teologica di p. Ciappi e quella finale di mons. Zannoni, oltre altri apporti di persone della Segreteria di Stato»[2]. Il Papa, ispirandosi ai princìpi che avevano orientato la prima assise conciliare (anche alla luce dell’allocuzione Gaudet Mater Ecclesia), desiderava un documento non soltanto più pastorale, ma anche più «nutrito» di Sacra Scrittura e di citazioni tratte dai Padri della Chiesa.
«Si è preferito questa volta — continua il p. Tucci — non uscire da un ristretto cerchio vicino alla Segreteria di Stato per evitare l’opposizione dei “conservatori”, le cui critiche d’altronde già si conoscevano […]. Il cardinale si è compiaciuto dell’accoglienza fatta al documento che gli è sembrata ottima e universale». Circa il tempo in cui il Papa iniziò a pensare a tale enciclica, avendo opinato alcuni giornali che ciò fosse avvenuto subito dopo la crisi di Cuba, il card. Cicognani disse che avvenne successivamente. «Mi ha detto poi — continua il gesuita — che il messaggio di pace per Cuba fu accolto con grande piacere sia da Kennedy sia da Krusciov, che così poterono salvare la faccia»[3].
Come ricorda il p. Tucci, il Papa voleva che la redazione di tale enciclica sulla pace nel mondo — tema in quel tempo molto dibattuto a causa della delicata congiuntura internazionale — fosse fatta non dagli ambienti della Curia, in particolare del Sant’Uffizio, ma da persone che esprimessero una teologia più «aggiornata» e sensibile alle nuove sfide del mondo contemporaneo. Giovanni XXIII sapeva che con essa avrebbe influito in modo determinate sul Concilio (che aveva terminato la sua prima sessione, con un nulla di fatto e con tante questioni ancora aperte), in particolare sulle materie di carattere politico-sociale, come di fatto avvenne. Essa, come si è detto, si rivolgeva, con il linguaggio dei tempi, a tutti i fedeli e agli uomini di buona volontà, ma innanzitutto ai padri conciliari, chiamati ad aggiornare la dottrina della Chiesa nei suoi punti fondamentali, e dai quali il Papa sperava di ottenere il contributo di maggior valore per il bene della Chiesa.
Sul processo di formazione dell’enciclica si è scritto molto; ogni passaggio è stato attentamente ricostruito in sede storica con i dovuti apporti sia documentari, sia memorialistici. Di recente un lavoro di Alberto Melloni ha ben sintetizzato lo stato della ricerca[4]. Tutto è iniziato con una lettera del 23 novembre 1962 di mons. Pietro Pavan, rettore della Pontificia Università Lateranense, indirizzata al segretario particolare del Papa, mons. Loris Capovilla: lettera «confidenzialissima», nella quale l’accorto rettore (consapevole che sarebbe stata immediatamente «girata» al Papa) espose in modo sintetico il programma di una nuova enciclica di contenuto sociale-politico, e che avrebbe avuto «una vasta risonanza in tutto il mondo e in tutti gli ambienti».
Essa inoltre avrebbe completato, scriveva il monsignore, il servizio reso alla Chiesa in «campo economico-sociale» con la Mater et magistra, di cui mons. Pavan, insieme a mons. Ferrari Toniolo e a mons. Parente, era stato uno degli estensori. Se il segretario del Papa riteneva fattibile tale proposta, egli si sarebbe messo immediatamente all’opera. Come previsto, tale proposta, che era già nella mente e nel cuore del Papa, ebbe il suo pieno consenso. Subito dopo, mons. Capovilla e il segretario di Stato, card. Cicognani, affidarono ufficialmente a mons. Pavan (a nome del Papa) il compito di scrivere un’enciclica sulle delicate questioni di carattere politico-sociale, e in particolare sulla pace nel mondo; essa avrebbe dovuto essere promulgata per la festa di Pasqua.
Nell’impegnativo lavoro di redazione del progetto di enciclica, mons. Pavan faceva riferimento ai suoi due studi sulla materia — L’ordine sociale (1953) e, soprattutto, La democrazia e le sue ragioni (1958) —, consultando, pare, anche le schede utilizzate per la redazione di queste opere[5].
La prima parte del progetto, dedicata alla reciprocità tra diritti e doveri della persona umana, risentiva molto dei suoi studi e delle sue ricerche, anche se nella stesura del testo egli tenne presente soprattutto i princìpi fissati dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo, votata dall’Onu nel 1948: scelta che era in sintonia con la sensibilità di Giovanni XXIII e che, successivamente, fu molto apprezzata dal mondo laico. L’autore, sotto il profilo dottrinale, collegava intimamente la dottrina tradizionale sul fondamento in Dio delle leggi (naturali) che regolano la vita degli uomini e degli enti collettivi al quadruplice fondamento della convivenza umana nella verità, nella giustizia, nell’amore e nella libertà. È significativo, sotto il profilo sia storico sia teologico, come l’ordine della verità e della giustizia si intreccino con quello dell’amore e della libertà, categoria quest’ultima guardata con sospetto dal magistero papale dell’Ottocento[6].
Subito dopo il progetto trattava della prima enunciazione dei segni dei tempi, che erano le parti più innovative, più giovannee, dell’enciclica, cioè l’ascesa delle classi lavoratrici, l’emancipazione della donna, i «benedetti» processi di decolonizzazione in corso. Esso in progressione esaminava prima i fondamenti dell’autorità pubblica (in realtà tale parte riprendeva idee già sviluppate da mons. Pavan nel suo volume sulla democrazia), successivamente le relazioni fra gli Stati, dove si parlava, con la dovuta ampiezza, del tema molto scottante del disarmo e dei problemi della guerra atomica. Come segno dei tempi, in questo capitolo veniva indicata l’importanza dei negoziati nella situazione politica internazionale, segnata dalla divisione in blocchi e dal pericolo di una guerra. Subito dopo, già in questa prima fase, si enunciava la tesi che valutava «quasi impossibile pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia» (n. 127). In questa parte, inoltre, si trattava della distinzione, tanto cara a Giovanni XXIII, tra dottrine filosofiche e movimenti politici, i quali, a differenza delle prime, si evolvono sul piano storico, adattandosi ai segni dei tempi e a volte contribuendo anche a far progredire la pace e lo sviluppo fra i popoli.
In sintesi, questo fu il progetto di enciclica che Giovanni XXIII lesse il giorno dell’Epifania del 1963. A tale riguardo, egli annotava nella sua agenda, in modo insolitamente esaustivo: «Ho poi consacrato tutto il Vespero, circa tre ore, nella lettura dell’enciclica di Pasqua in preparazione, fattami da mgr. Pavan: “La pace fra gli uomini nell’ordine stabilito da Dio e cioè: nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella libertà”. Manoscritto di 111 pagine dattilografate. Ho letto tutto, solo, con calma e minutissimamente: e lo trovo lavoro assai bene congegnato e ben fatto. L’ultima parte poi: “Richiami Pastorali”, in pienissima risonanza con il mio spirito. Comincio a pregare per la efficacia di questo documento, che spero uscirà a Pasqua e sarà motivo di grande edificazione»[7].
Con l’avallo papale, mons. Pavan diede inizio alla redazione ufficiale dell’enciclica. Dalle fonti sappiamo che l’8 gennaio il Papa riunì nel suo appartamento mons. Capovilla, il card. Cicognani e mons. Pavan; dopo breve tempo i primi due vennero congedati e Giovanni XXIII rimase per un’ora e mezza a colloquio privato con il redattore del progetto dell’enciclica. Nei documenti non c’è traccia del colloquio; secondo la testimonianza di mons. Pavan, si parlò soprattutto, con qualche accenno alla situazione italiana, della possibile collaborazione tra cattolici e partiti di matrice non cristiana. «Aggiungeva di suo che bisognava tener presente che una collaborazione, ieri impossibile, oggi potrebbe essere possibile. Nel fare questa precisazione, il Santo Padre, come storico, aveva innanzi agli occhi il fenomeno in tutta la sua ampiezza e non si riferiva a situazioni particolari italiane»[8].
La nuova versione dell’enciclica (sostanzialmente non dissimile dal primo progetto), che includeva i desiderata del Papa, fu stesa da mons. Pavan fra l’8 e il 24 gennaio; il suo titolo provvisorio, tratto dal Vangelo di Luca, fu Pax in terra[9]. La bozza approvata dal Papa fu data in lettura a due teologi: uno interno alla famiglia pontificia, cioè al teologo del Sacro Palazzo, il domenicano p. Luigi Ciappi (era questo un «atto dovuto» per l’ufficio che egli ricopriva e anche per contenere le inevitabili reazioni degli ambienti conservatori); l’altro era esterno alla Curia, il teologo moralista della Gregoriana, il gesuita Georges Jarlot. Va ricordato che il testo non fu dato in revisione a nessun prelato del Sant’Uffizio; tale fatto, come sottolineava nella sua memoria il p. Tucci, non era senza significato. Le osservazioni (o i «pareri») dei due teologi sono molto puntuali e interessanti: esse, pur partendo da posizioni tradizionaliste, esprimono apprezzamento per le aperture della nuova enciclica in materia sociale, sebbene, come vedremo, con significative puntualizzazioni.
Il domenicano in generale affermava che sarebbe stato opportuno, al fine di evitare confusioni o deviazioni dottrinali, «allineare» la nuova enciclica con il magistero dei precedenti Pontefici, in particolare con quello di Leone XIII e di Pio XII. Egli sottolineava in modo sintetico, ma preciso, cinque punti[10]: 1) Dire che ogni essere umano ha diritto alla libertà sembrerebbe in contrasto con le condanna del liberalismo e dell’indifferentismo pronunciate in documenti solenni da tutti i Papi dell’Ottocento; 2) La tesi di onorare Dio secondo coscienza, osservava il domenicano, può fornire interpretazioni pericolose e contrarie alla sana dottrina cattolica; sarebbe meglio, consigliava, che si facesse riferimento alla «retta coscienza», quella cioè che confessa la vera fede, per cui l’apostolato da difendere sarebbe soltanto quello esercitato in conformità alla verità rivelata; 3) La tesi sulla donna da considerare come persona e in una posizione di parità riguardo ai diritti-doveri all’uomo sembrerebbe non in linea con quanto la Chiesa, partendo dalle parole dell’apostolo Paolo, ha sempre insegnato; 4) L’affermazione secondo cui sarebbe ingiusta l’autorità pubblica che pone in essere atti contrari all’ordine morale sembra al teologo domenicano pericolosa sotto il profilo politico e potrebbe giustificare ogni tipo di opposizione al potere costituito; 5) Altrettanto insidioso sarebbe inoltre il paragrafo in cui si tratta della distinzione tra filosofie politiche erronee e movimenti politici nati da esse. P. Ciappi considerava non opportuna e non desiderabile ogni collaborazione con partiti di matrice comunista. In ogni caso egli respinse l’affermazione dell’enciclica dove si dice che spetterebbe ai laici individuare i termini e i limiti di tale collaborazione, come se ciò non potesse in nessun modo interessare la Chiesa e il suo magistero morale.
In definitiva, le obiezioni del teologo pontificio al progetto di enciclica non sono di poco conto; esse possono essere sintetizzare in due punti: da un lato, egli non accettava che il magistero pontificio potesse presentare discontinuità su punti così importanti come la materia etico-sociale; dall’altro, egli, da neotomista convinto, non condivideva la prospettiva induttiva in cui si muoveva il testo, che considerava il dato storico (cioè i segni dei tempi) come il luogo privilegiato in cui il Vangelo parlava all’uomo contemporaneo.
Il Papa non tenne in considerazione le osservazioni del teologo pontificio, anche se suggerì che alcune sue indicazioni (in particolare dove si parla di «retta coscienza») fossero inserite nel testo in preparazione. Subito dopo esso fu affidato a mons. Guglielmo Zannoni per la traduzione in latino, cosa che non fu né facile né indolore, soprattutto in quei passaggi dove si parla della guerra atomica (materia nuova per un latinista) e della sua insostenibilità sul piano morale[11].
I passi più significativi della «Pacem in terris»
L’enciclica fu promulgata da Giovanni XXIII, davanti alle telecamere della Rai, l’11 aprile 1963, Giovedì Santo. Nel presentarla al mondo, il Papa disse parole molto alte e significative: «L’enciclica con il suo volto e i caratteri ecumenici, è capace di essere universalmente intesa da tutti. I suoi elementi sono tali da captare il consenso di tutti gli esseri intelligenti e liberi, anche di quelli che non condividono la fede e la visione soprannaturale della vita propria della Chiesa cattolica. Si estende in una larga esposizione della verità e, anziché attardarsi in polemiche, apre alla coscienza dell’uomo di oggi le ricchezze dell’insegnamento della Chiesa, messa a servizio diretto della verità» [12].
L’enciclica è divisa in quattro parti, precedute dal celebre indirizzo e da una introduzione. Le prime parole (che danno il titolo al documento papale) riguardano la pace nel mondo e la necessità di rispettare l’ordine voluto da Dio: «La pace in terra, anelito profondo degli esseri di tutti i tempi, può venire instaurata e consolidata solo nel pieno rispetto dell’ordine stabilito da Dio».
La prima parte tratta dell’ordine tra gli esseri umani, esplicitando sia la tavola dei diritti sia quella dei doveri che spettano ad ogni uomo in quanto persona; la seconda parte tratta del rapporto tra le persone e i poteri pubblici all’interno delle singole comunità politiche; la terza parte del rapporto fra le comunità politiche, dove si parla del disarmo e dell’impraticabilità della guerra nel nuovo ordine mondiale; la quarta parte tratta del rapporto degli esseri umani e delle comunità politiche con la comunità internazionale. Come si è detto, ognuna di queste parti termina indicando i «segni dei tempi» ai quali la Chiesa deve prestare speciale attenzione, e sono questi certamente i passaggi più importanti dell’enciclica, in cui è più evidente lo spirito giovanneo e lo slancio profetico del documento papale. L’ultima parte, anch’essa molto interessante, tratta dei cosiddetti richiami pastorali.
In questo breve esame della Pacem in terris, toccheremo soltanto alcuni punti che riteniamo importanti. In realtà essa, per la sua rigorosa costruzione architettonica e per la ricchezza del suo contenuto, andrebbe commentata integralmente e approfondita sotto il profilo morale, nonché messa a confronto con i testi del Concilio che trattano della medesima materia.
La prima parte dell’enciclica è interamente dedicata a sottolineare il valore assoluto della persona umana, dotata di diritti e di doveri, che «scaturiscono immediatamente e simultaneamente dalla sua stessa natura» e che sono perciò «universali, inviolabili, inalienabili» (n. 8). Il fatto che l’enciclica si apra affermando i diritti (e doveri) dell’uomo in quanto persona che ha il suo fondamento in Dio e non nella sua natura segnata dal peccato e dalla caducità, è certamente una prospettiva nuova: il Papa guarda all’uomo e alla sua storia con occhi positivi e con rinnovata speranza, nonostante i pericoli del tempo presente, segnato dalla minaccia delle guerra atomica, dallo squilibrio sociale e dalle disparità esistenti tra gli uomini e tra gli Stati.
Un’altra grande novità dell’enciclica riguarda il modo in cui si considera l’uomo e si legge la realtà della storia: in essa è messa in risalto anzitutto la persona umana, titolare di diritti, e non la verità, astrattamente intesa come un sistema di princìpi, seppure giusti e utili. La verità, come la giustizia, l’amore e la libertà, è considerata uno dei «pilastri» dell’enciclica, ma non è titolare di diritti; soltanto la persona, imago Dei, lo è. Alla luce di questo, si capisce meglio il passaggio dell’enciclica in cui si invita a non confondere mai l’errore con l’errante, «anche quando trattasi di errore o di conoscenza inadeguata della verità in campo morale-religioso. L’errante è sempre e anzitutto un essere umano e conserva, in ogni caso, la sua dignità di persona; e va sempre considerato e trattato come si conviene a tale dignità» (n. 159). Anche perché, continua il Papa, nell’essere umano non si spegne mai il desiderio di spezzare le catene dell’errore e di aprirsi alla verità. Da ciò l’invito rivolto a tutti, credenti e non credenti, a collaborare e a creare intese nell’ordine temporale, perché anche queste «possono essere occasione per scoprire la verità e per renderle omaggio».
Come si è detto, il cuore dell’enciclica è il tema della pace nel mondo. Essa finalizza a tale bene i quattro pilasti indicati, quindi anche la libertà e la stessa verità. L’enciclica tratta della necessità del disarmo e della pericolosità della moderna corsa al riarmo, che rende il mondo più insicuro, poiché «gli uomini vivono sotto l’incubo di un uragano che potrebbe scatenarsi in ogni istante con una stravolgenza inimmaginabile» (n. 111), ma anche più povero e più esposto alla vicendevole sfiducia. «Si riducano simultaneamente e reciprocamente gli armamenti — implora il Papa —; si mettano al bando le armi nucleari, e si pervenga finalmente al disarmo integrato da controlli efficaci» (n. 112).
Giovanni XXIII, interpretando i segni dei tempi, osserva poi che tra gli uomini di buona volontà si diffonde sempre più la speranza che le controversie tra gli Stati si possano appianare attraverso negoziati. Tale persuasione, continua, è oggi piuttosto rafforzata, considerando la forza distruttrice delle armi moderne, «ed è alimentata dall’orrore che suscita nell’animo anche solo il pensiero delle distruzioni immani e dei dolori immensi che l’uso di quelle armi apporterebbe alla famiglia umana. Per cui riesce impossibile pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia» (n. 127). Questo passaggio condanna la guerra in generale e si allontana dalla dottrina tradizionale della «guerra giusta» creata dai teologi moralisti post-tridentini.
In realtà, il principio morale di bandire la guerra dal consorzio umano era stato già fatto proprio dal magistero degli ultimi Papi: basti solo pensare al radiomessaggio natalizio del 1944 di Pio XII. Secondo questi Pontefici, la guerra era un male da evitare, ma essa accadeva a motivo dell’egoismo umano e dell’indisponibilità del mondo moderno a seguire gli insegnamenti della Chiesa in materia morale. Questa dottrina prevedeva in ogni caso la guerra di legittima difesa e quella vindicativa, volta cioè a ristabilire il diritto violato. La Pacem in terris si allontana da tale prospettiva, che utilizza nella lettura dei fatti uno schema deduttivo, e dice che la guerra contemporanea non può in nessun caso produrre giustizia; e argomenta tale posizione non applicando una categoria della teologia morale, ma semplicemente leggendo e interpretando, con metodo induttivo, i segni dei tempi, cioè i fatti storici; per cui la semplice constatazione del grave e attuale pericolo di una guerra atomica rende inutilizzabile l’arsenale interpretativo della morale classica in tema di guerra giusta [13].
Altro passaggio importante dell’enciclica pasquale di Giovanni XXIII è quello che distingue tra le ideologie in astratto (cioè le «false dottrine filosofiche») e i movimenti politici nel concreto delle vicende storiche. Le dottrine, afferma il Papa, «una volta elaborate e definite, rimangono sempre le stesse; mentre i movimenti suddetti, agendo sulle situazioni storiche incessantemente evolventisi, non possono non subirne gli influssi e quindi non possono non andare soggetti a mutamenti anche profondi. Inoltre chi può negare che in quei movimenti, nella misura in cui sono conformi ai dettami della retta ragione e si fanno interpreti delle giuste aspirazioni della persona umana, vi siano elementi positivi e meritevoli di approvazione?» (n. 84).
Ci sono in essi — si chiede un po’ enfaticamente il Papa — elementi positivi e meritevoli di approvazione? Certamente, risponde. Infatti può verificarsi che un avvicinamento politico, fino a ieri considerato inopportuno, sia oggi possibile, o lo possa diventare domani.
Tali affermazioni ebbero un impatto molto grande sotto il profilo politico, non soltanto per l’Italia, ma anche e soprattutto per la politica internazionale[14]. Alcuni studiosi vedono in questo passaggio la chiave interpretativa di tutto quel fenomeno politico-diplomatico conosciuto come l’Ostpolitik della Santa Sede nei confronti del Paesi comunisti[15]. In Italia, questo passaggio dell’enciclica giovannea fu letto in chiave politica, cioè come un’autorizzazione implicita data dal Papa a una collaborazione tra cattolici e socialisti in vista della realizzazione del bene comune[16].
Un altro passo significativo della Pacem in terris è certamente quello che considera «atto di più alta importanza» la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata dall’Onu il 10 dicembre 1948. Tale Dichiarazione, nonostante le obiezioni sollevate e le «fondate riserve», è considerata «un passo importante nel cammino verso l’organizzazione giuridico-politica della comunità mondiale», poiché in essa è riconosciuta, nella forma più solenne, «la dignità di persona a tutti gli esseri umani» (n. 145). Era la prima volta che un testo del magistero papale faceva esplicito riferimento in senso positivo alla Dichiarazione del 1948. Tale novità è rilevata, con rispetto e giudizio critico, anche da diversi pensatori laici, sensibili al fatto religioso.
Secondo alcuni di essi, l’enciclica rappresenta certamente una svolta nell’atteggiamento del magistero papale nei confronti dei diritti umani, così come formalizzati in dichiarazioni solenni prodotte da assemblee rappresentative, ma in realtà nella sostanza non differisce molto dal magistero precedente. Secondo Daniele Menozzi, nella parte iniziale dell’enciclica — in cui si enumerano i diritti che secondo la Chiesa spettano a ogni essere umano —, quelli che vengono difesi e promossi sono i diritti oggettivi della persona, non quelli soggettivi dell’uomo (sebbene possano in parte coincidere nel contenuto). Soltanto i primi infatti, secondo l’enciclica, si fondano su una natura umana riconducibile all’ordine voluto da Dio per l’universo[17]. In ogni caso, sostiene lo storico, «alla tradizionale visione diffidente e critica verso i diritti umani la Chiesa sostituiva ora un atteggiamento ottimistico e costruttivo in quanto li presentava [i diritti umani] come via di realizzazione dei diritti della persona»[18].
Su questa stessa linea critica si muove anche lo storico Vincenzo Ferrone, secondo il quale la Pacem in terris non soltanto apriva con coraggio nuove strade al pensiero cattolico su tale delicata materia, ma «tracciava anche con mano ferrea quelli che potremmo definire i definitivi e rassicuranti confini tomistici della teoria dei diritti dell’uomo, ufficialmente accettata dal magistero ecclesiastico solo in termini di diritti della persona» [19]. In realtà, su questa materia l’enciclica prende le dovute distanze sia dagli eccessi del pensiero laicista, cioè di coloro che erigono la volontà degli esseri umani […] a fonte prima e unica donde scaturiscono diritti e doveri» della persona umana e della società politica (cioè il pensiero contrattualista), sia da coloro che non amano la gradualità nelle questioni di ordine temporale e che «si sentono accesi dal desiderio di rinnovare, superando con un balzo solo tutte le tappe, come volessero far ricorso a qualcosa che può rassomigliare alla rivoluzione» (n. 162). In questo passaggio sono incluse certamente le teorie rivoluzionarie di matrice marxista, ma nell’enciclica non c’è nessuna condanna esplicita, come invece molti auspicavano, del comunismo; invece in diverse parti si condanna il totalitarismo, sia come sistema di governo, sia come regime non rispettoso dei diritti della persona umana.
La recezione dell’enciclica in ambito sia cattolico (ed ecclesiastico) sia laico richiederebbe un discorso a parte. Qui è sufficiente fare riferimento alle reazioni, per lo più di consenso, degli ambienti diplomatici e delle cancellerie[20]. A parte la Spagna, preoccupata per la dottrina non tanto sulla guerra quanto sulla materia della libertà religiosa, le altre cancellerie europee (la francese, la tedesca e l’italiana) espressero al Papa ringraziamenti di circostanza, più o meno sentiti. Interessanti a tale proposito sono le iniziative assunte dalle due superpotenze. Mosca fece pubblicare la traduzione dell’enciclica in russo e ne parlò positivamente sulla Pravda. L’abile mossa del Pcus, anche se strumentale, aveva lo scopo di far convergere le posizioni dell’Urss con quelle del Vaticano in tema di pace e di disarmo. L’ambasciatore statunitense a Roma in quei giorni fece pervenire al Papa una lettera molto calorosa di ringraziamenti per l’enciclica. Di fatto anche gli Stati Uniti erano molto interessati al tema del disarmo e a normalizzare la situazione internazionale, costantemente minacciata dal pericolo di guerra. Il presidente Kennedy, nel tentativo di precedere i leaders sovietici in una eventuale visita al Papa, fece chiedere dall’ambasciatore Reinhardt al cardinale Cicognani di fissare una visita del Presidente in Vaticano. La visita venne accordata e fissata per l’inizio di giugno, ma non ebbe luogo: Giovanni XXIII, da tutti ormai considerato il Papa della pace, morì il 3 giugno 1963.
Copyright © La Civiltà Cattolica 2013
Riproduzione riservata
***
[1]. Sulla contestualizzazione storica, cfr G. Sale, «Primi contatti tra Santa Sede e Unione Sovietica al tempo di Giovanni XXIII», in Civ. Catt. 2013 I 326-339. Cfr F. Occhetta, Jesuitas y Papas, la guerra y la paz, Madrid, Endymnion, 2007, 147-176.
[2]. Archivio della Civiltà Cattolica (Acc), Fondo p. Tucci. Diario del direttore. La nota è datata, 16 aprile 1963.
[3]. Ivi.
[4]. Cfr A. Melloni, Pacem in terris. Storia dell’ultima enciclica di Papa Giovanni, Roma – Bari, Laterza, 2012; Id., L’altra Roma. Politica e S. Sede durante il Concilio Vaticano II (1959-1965), Bologna, il Mulino, 2000, 178 s.
[5]. Su p. Pavan, cfr R. Goldie, L’unità della famiglia umana. Il pensiero sociale del card. P. Pavan, Roma, Studium, 2001; C. Ciriello, Pietro Pavan. La metamorfosi della dottrina sociale nel pontificato di Pio XII, Bologna, il Mulino, 2012.
[6]. Cfr A. Melloni, Pacem in terris. Storia dell’ultima enciclica di Papa Giovanni, cit., 48 s.
[7]. Giovanni XXIII, «Pater amabilis». Agende del Pontefice, 1958-1963, Bologna, Istituto per le scienze religiose, 2007, 482.
[8]. In E. Galavotti, Processo a Papa Giovanni, Bologna, il Mulino, 2005, 313.
[9] . Circa la parte sul rapporto tra sistemi di pensiero filosofico e movimenti storici — ricorda mons. Pavan —, il Papa aggiunse di suo pugno che in questi ultimi potrebbero a volte esserci alcuni elementi positivi e meritevoli di approvazione, «nella misura in cui — recita l’enciclica — sono conformi ai dettami della retta coscienza e si fanno interpreti delle giuste aspirazioni della persona umana» (n. 84).
[10]. Su questi punti cfr A. Melloni, Pacem in terris. Storia dell’ultima enciclica di Papa Giovanni, cit., 104 s.
[11]. In ultimo, come si è detto, il progetto di enciclica, redatto in latino, fu dato in lettura al p. Jarlot, che ne fece un’esegesi molto attenta e severa. Innanzitutto egli lo giudicò come una risposta alla dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948. «Tuttavia se quella poteva procedere empiricamente, Jarlot ritiene che l’enciclica dovrebbe “fondare in dottrina” la concezione cattolica dei diritti umani. Se ciò non accade […] egli teme vi si legga una impensabile consacrazione dei princìpi dei diritti dell’uomo del 1791» (ivi, 63). Il gesuita considerò un errore ritenere la persona umana come un assoluto, poiché ciò usurperebbe i giusti diritti di Dio. Egli contestava infine con forza il passaggio del testo dove si affermava che l’umanità deve farsi guidare e ammaestrare dai «quattro pilastri» della verità, della giustizia, della carità e della libertà. Secondo il gesuita, soltanto la verità dev’essere considerata una guida certa verso il bene possibile, da cui deriva tutto il resto. La verità, egli asseriva, è una guida certa e sicura, mentre la libertà è una guida incerta e imprevedibile, che può condurre all’errore. In ogni caso il Papa, pur apprezzando la profondità e il rigore della lunga e articolata relazione inviata dal gesuita, continuò nella sua strada, consapevole che il mondo e la Chiesa, avevano bisogno di una spinta forte e convinta, in particolare sui temi toccati dall’Enciclica, per rilanciare una nuova società fondata sull’amore, sulla libertà e sulla imperitura verità del Vangelo (ivi, 1.019 s).
[12]. Citato in M. Roncalli, Giovanni XXIII. Angelo Giuseppe Roncalli. Una vita nella storia, Milano, Mondadori, 2006, 613.
[13]. Cfr D. Menozzi, Chiesa, pace e guerra nel Novecento. Verso una delegittimazione religiosa dei conflitti, Bologna, il Mulino, 2008.
[14]. Citando p. Yves Congar, lo storico Andrea Riccardi afferma che si deve a questo passo dell’enciclica la riammissione delle democrazie popolari, in particolare la Russia, nel consorzio delle nazioni, in vista della pace universale. Cfr A. Riccardi, Il potere del Papa. Da Pio XII a Paolo VI, Roma – Bari, Laterza, 1988, 192.
[15]. Cfr G. Barberini, L’Ostpolitik della Santa Sede. Un dialogo lungo e faticoso, Bologna, il Mulino, 2007, 73. Il card. Cicognani informò il p. Tucci della «bellissima lettera» indirizzata al Papa da mons. Slipyj, patriarca degli ucraini, il quale aveva ottenuto la sua liberazione dal gulag siberiano grazie alla politica di dialogo con i Paesi dell’Est iniziata in quel periodo da Giovanni XXIII (cfr A. Riccardi, Il Vaticano e Mosca [1940-1990], Roma – Bari, Laterza, 1992, 238). «Almeno quattro pagine sostanziose — disse il Segretario di Stato — in cui si enumerano i vari motivi per cui questo documento è insuperato anche dal punto di vista dei Paesi sotto regime comunista, compresa l’Urss: per quest’ultima si dice che l’enciclica è atta a suscitare grande speranza fra quei numerosi russi che aspirano a un ordine sociale più giusto e alla pace, ma che soffrono per la violazione dei diritti fondamentali dell’uomo, propria di un regime totalitario e radicale» (Acc, Fondo p. Tucci, 27 maggio 1963). Per la lettera di mons. Slipyj, cfr A. Melloni, «Pacem in terris». Storia dell’ultima enciclica di Papa Giovanni, cit., 126.
[16]. Nelle elezioni politiche dell’aprile 1963, la Democrazia Cristiana per la prima volta subì un sensibile tracollo, mentre i comunisti guadagnarono più di un milione di voti. Tale risultato elettorale, come prevedibile, creò panico all’interno del mondo cattolico, anche ecclesiastico. Si addossò parte della responsabilità di tale vittoria dei «rossi» a Giovanni XXIII, e in particolare all’enciclica Pacem in terris, nel passaggio sopra ricordato. (G. Sale, Giovanni XXIII e la preparazione del Concilio Vaticano II nei diari inediti del direttore della Civiltà Cattolica padre Roberto Tucci, Milano, Jaca Book, 2013, 39 s.) Alcuni ambienti conservatori si apprestarono a storpiare il titolo del’enciclica in Falcem in terris o a definire il Papa «il bolscevico dello Spirito Santo». Cfr M. Roncalli, Giovanni XXIII. Angelo Giuseppe Roncalli. Una vita nella storia, cit. 615.
[17]. Cfr D. Menozzi, Chiesa e diritti umani. Legge naturale e modernità politica dalla Rivoluzione francese ai nostri giorni, Bologna, il Mulino, 2012, 190.
[18]. Ivi, 193.
[19]. V. Ferrone, Lo strano illuminismo di Joseph Ratzinger. Chiesa, modernità e diritti dell’uomo, Roma – Bari, Laterza, 2013, 72.
[20]. Su tale materia cfr A. Melloni, Pacem in terris. Storia dell’ultima enciclica di Papa Giovanni, cit., 84.