
|
Quando, il 16 ottobre 1978, i cardinali riuniti in conclave elessero il cardinale Karol Wojtyła come successore di san Pietro, la scelta fu in qualche modo sorprendente: era il primo papa non italiano fin dall’ormai lontano Adriano VI (eletto nel 1522) e, soprattutto, veniva dall’Est, da oltre la Cortina di ferro, cioè da Cracovia, in Polonia. Ben pochi avrebbero immaginato che il nuovo Pontefice stesse per portare un rinnovamento alla dottrina sociale della Chiesa (DSC).
Eppure lo si sarebbe potuto intuire dando uno sguardo al suo profilo biografico: vi risaltava l’esperienza diretta della vita reale sia nel mondo capitalista sia in quello comunista. Come docente di Etica all’Università di Lublino, Wojtyła si era interessato a livello accademico della realtà socioeconomica. Nel Concilio Vaticano II aveva contribuito all’elaborazione della Gaudium et spes (GS), e per di più era ben nota la sua netta opposizione al comunismo.
La fine degli anni Settanta segnava un’epoca di turbolenza nella società e nella Chiesa. In quest’ultima la fiducia nella propria dottrina sociale aveva toccato il punto più basso. Un crescente prestigio del marxismo si sommava a una critica alla DSC da parte di diverse correnti teologiche e politiche, che la incolpavano di essere astratta, moralistica e ideologica. Questa accusa veniva formulata, per esempio, da Marie-Dominique Chenu in La doctrine sociale de l’Église comme idéologie[1]. Tutto sembrava cospirare per eclissarla.
Da un’intervista rilasciata da Wojtyła pochi mesi prima dell’elezione possiamo comprendere che egli aveva idee chiare e molto elaborate su temi centrali della DSC[2]. Le domande esploravano la sua opinione sulla validità delle critiche a tale dottrina: in concreto, se la ritenesse ideologica e in che senso; se la considerasse un annuncio evangelico o un insegnamento di etica naturale; se essa fosse una sorta di giusto mezzo tra marxismo e liberalismo, o se si contrapponesse a entrambe quelle ideologie; se fosse ormai superata; se fosse capace di generare delle prassi, e quali sfide avrebbe dovuto affrontare.
Nelle sue risposte Wojtyła mostrò quanto fosse convinto del valore e della validità della DSC, come pure della necessità di svilupparla. Nutriva un ardente desiderio che si rinnovasse. Una volta eletto Papa, Wojtyła ha avuto la possibilità di tradurre in pratica questo progetto, e in effetti ci è riuscito appieno. Pertanto il suo apporto alla DSC è stato assolutamente decisivo. Qui ci proponiamo di sintetizzare gli insegnamenti delle sue tre grandi encicliche sociali, mettendo in rilievo i loro contributi, la loro immutata validità e l’unità interna che possiedono.
La «Laborem exercens»
Quale poteva essere il contributo di Giovanni Paolo II? Era evidente che egli affrontava una grande sfida, dato che al contesto ecclesiale del momento si univa la crisi socioeconomica degli anni Settanta del secolo scorso. Mentre il decennio degli anni Sessanta era stato caratterizzato da una crescita forte e costante, a partire dal 1973 il mondo dovette subire la prima crisi petrolifera, in cui il prezzo del greggio fu quadruplicato. Non soltanto ne venne investito in pieno l’apparato produttivo, ma le attività andarono incontro alla stagnazione e ne seguirono disoccupazione e inflazione. Si cominciò a parlare di un blocco strutturale. Inoltre, le tecnologie moderne si inserivano nel processo lavorativo, producendo trasformazioni paragonabili a quelle avvenute con la Rivoluzione industriale. Si può aggiungere un dato: nell’agosto del 1980, nei cantieri navali di Danzica, Lech Wałesa fondava, con altri operai, il primo sindacato indipendente in un Paese del blocco sovietico.
La ferma decisione di affrontare tutte queste difficoltà la dice lunga sulla tempra e sulla capacità del nuovo Pontefice. Se è sempre vero che l’origine e l’educazione giocano un ruolo importante nel determinare la formazione delle nostre idee sociali, nel caso di Wojtyła questa componente è stata senz’altro decisiva. Egli aveva vissuto in prima persona l’esperienza di lavorare sotto la dominazione nazista e aveva trascorso buona parte della sua vita sotto un regime comunista.
La Laborem exercens (LE), del 14 settembre 1981, esprime la riflessione di un intellettuale polacco segnato da questa duplice esperienza. Il suo stile – denso, concentrico, reiterativo – venne considerato da molti come l’espressione naturale di una mente slava. Le citazioni dirette della LE vengono dalla Bibbia (soprattutto dal libro della Genesi e dalle lettere di san Paolo), dal Concilio Vaticano II (in particolare, dalla Gaudium et spes) e da san Tommaso. L’argomentazione si incentra su una riflessione filosofica di timbro personalista. Parte dalle parole della Genesi «soggiogare la terra» (LE 5) e scorge nel lavoro umano una partecipazione al lavoro creativo divino (cfr LE 26). Collocando il lavoro in una prospettiva cristologica (incarnazione e redenzione), ci invita a meditare sul «lavoro umano alla luce della Croce e della Risurrezione di Cristo» (LE 27).
Wojtyła non scrive per ripetere quanto avevano già affermato i suoi predecessori, bensì per mettere in rilievo come il lavoro umano sia la chiave essenziale dell’intera questione sociale, del bene dell’uomo: un uomo aperto a Dio e agli altri, signore della creazione e servitore degli altri esseri umani. A ragione si è potuto parlare, a proposito di Wojtyła, di un «umanesimo dal volto umano». Infatti, il lavoro, uno degli elementi che distingue l’uomo da tutte le altre creature, in qualche modo costituisce la sua stessa natura. «Come persona, l’uomo è quindi soggetto del lavoro» (LE 6), ed è in quanto attività dell’essere umano che il lavoro riceve la propria dignità. Da qui deriva la denuncia di tutto quello che turba l’autentica gerarchia dei valori, come avviene, per esempio, nel caso del pensiero economico materialista, quando considera il lavoro come un mero strumento della produzione, valutandolo nell’ottica di mercato. In realtà, è proprio il contrario: il lavoro è un bene dell’essere umano, attraverso il quale egli non soltanto trasforma la natura, ma scopre la propria identità e costruisce la società familiare e civile. Giovanni Paolo II parla del «Vangelo del lavoro», che comincia già nei primi capitoli della Genesi e trova il compimento in Cristo.
La «questione sociale», che aveva toccato soprattutto il mondo dei lavoratori e che fino ad allora era stata affrontata a livello nazionale, assume una dimensione internazionale e globale negli anni Ottanta (cfr LE 2). Per questo, nella ricerca delle soluzioni – in particolare per la disoccupazione –, l’enciclica fa appello alla collaborazione internazionale, attraverso la stipula di trattati e accordi fra Paesi, e all’azione delle organizzazioni internazionali (cfr LE 18).
Se il lavoro umano è un mezzo di personalizzazione e di cooperazione con altri uomini, una missione primordiale dell’uomo e un modo per associarsi all’opera creatrice di Dio e all’opera redentrice di Cristo, la sua mancanza non è soltanto un problema economico, ma anche un problema umano e teologale. Per risolverlo, occorre l’azione combinata degli Stati e di quello che il Papa chiama il «datore di lavoro indiretto», ossia tutte le componenti che influiscono sul contratto e sul rapporto di lavoro.
Sensibile alle proposte volte a modificare il sistema della proprietà (ovvero la partecipazione degli operai alla gestione, ai benefìci e alle azioni dell’impresa), Giovanni Paolo II difende senza mezzi termini la liceità del sistema salariale. Non dubita del fatto che al giorno d’oggi non esiste modo migliore di realizzare la giustizia nelle relazioni capitale-lavoro. «In questo punto dell’enciclica, il Papa riassume tutta la sua visione dell’uomo lavoratore. Il salario dignitoso fa da elemento centrale per verificare la giustizia o l’ingiustizia di ogni sistema socioeconomico, poiché traduce in concreto il principio dell’“uso comune dei beni”»[3].
Altri due aspetti nuovi sono la lotta di classe e i sistemi sociopolitici. Nessuno ignora che la lotta di classe è un concetto fondamentale nella teoria e nella prassi marxista, intesa come mezzo per eliminare l’ingiustizia della divisione della società in classi: quella dominante e quella dominata. Giovanni Paolo II dedica la seconda parte dell’enciclica all’analisi del concetto e della realtà della lotta di classe. In sintesi, il suo pensiero (cfr LE 1-15) si può articolare in tre passaggi: 1) La lotta di classe esiste. Marx ed Engels l’hanno elevata a categoria ideologica, trasformandola in categoria politica per gli strumenti che impiega e per i fini che aspira a raggiungere.
2) Tuttavia non dovrebbe esistere, perché capitale e lavoro sono cause – strumentale ed efficiente – che concorrono a un medesimo fine; i beni terreni divengono capitale grazie al lavoro, e dietro il capitale e il lavoro ci sono individui che vanno messi in primo piano. È il principio della priorità del «lavoro» nei confronti del «capitale»: verità evidente che si deduce dall’intera esperienza storica dell’uomo.
3) Di conseguenza, è giusto soltanto quel sistema che supera l’antinomia capitale-lavoro. Il principio della priorità del lavoro rispetto al capitale è un postulato che appartiene all’ordine della morale sociale.
Di questa argomentazione occorre mettere in rilievo, oltre che lo spessore, la novità, specie sul secondo punto. È chiaro che il Papa conferisce all’affermazione che «il capitale è frutto del lavoro» un senso diverso da quello che esso aveva in Marx e, prima di lui, nei socialisti utopisti. Se per costoro e per Marx l’imprenditore si è abusivamente impadronito del plusvalore dovuto al lavoro e in questo senso il suo capitale è frutto del lavoro operaio ingiustamente retribuito, la LE si concentra sul processo di produzione e chiarisce che i beni terreni diventano capitale, ossia beni di produzione, mediante un lavoro molteplice, che include molti lavori. Questa è una considerazione originale, che per di più ha il merito di discutere con Marx sul suo stesso terreno – l’analisi della storia e del processo di produzione – per giungere a una conclusione diversa dalla sua[4].
Occorre inoltre notare che su questo punto il linguaggio del Papa era innovativo; parlava della realtà della lotta di classe senza eludere né il termine né la sua considerazione: «Bisogna francamente riconoscere che fu giustificata, dal punto di vista della morale sociale, la reazione contro il sistema di ingiustizia e di danno, che gridava vendetta al cospetto del Cielo, e che pesava sull’uomo del lavoro in quel periodo di rapida industrializzazione» (LE 8).
Infine, parlando dei sindacati – all’epoca non era stato ancora riconosciuto Solidarność di Wałesa, che Wojtyła ha appoggiato con forza –, il Papa ribatte a chi, per ipotesi, esprimesse meraviglia per la sua contrapposizione alla lotta di classe e per la simultanea difesa del sindacato come elemento imprescindibile della vita sociale, affermando che i sindacati sono, nel promuovere la giustizia sociale, esponenti della lotta per il giusto bene, e non per eliminare l’avversario (cfr LE 20).
Quando fu pubblicata l’enciclica LE, stupì il suo atteggiamento verso il capitalismo e il socialismo. Quella iniziale meraviglia era fondata? Nell’enciclica non mancano critiche al capitalismo e al marxismo, anche nelle forme più mitigate. Essa accusa il primo – anche quando consente la partecipazione dei lavoratori e dei sindacati alla vita economica – di difendere la proprietà privata come un dogma intoccabile rispetto al bene comune. Ammonisce il secondo sul fatto che il passaggio della proprietà dei beni allo Stato non è socializzazione autentica se non assicura la soggettività della società. Rimprovera entrambi di essere caduti nell’errore, materialistico ed economicistico, di sostenere l’innaturale contrapposizione tra capitale e lavoro e di considerare quest’ultimo come merce o come forza di produzione, mettendone in ombra il carattere umano. Entrambi hanno lasciato che perdurassero clamorose ingiustizie, o ne hanno provocate di nuove, perché non rispettano a fondo la dignità dell’uomo.
Con questa enciclica Giovanni Paolo II si è posto all’avanguardia nella promozione dei diritti dei lavoratori. Il tema della questione sociale è sempre attuale. Il Segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, il 24 giugno 2020 ha affermato che è giunta l’ora di coordinare azioni globali, regionali e nazionali per creare condizioni di lavoro decorose per tutti. Ha sottolineato che nel mondo, prima del Covid-19, prevaleva l’esasperazione delle disuguaglianze, con la sistematica discriminazione di genere, con la mancanza di opportunità per i giovani e con i salari congelati. Adesso l’aumento incontrollato della disoccupazione, specie nei settori più vulnerabili della popolazione mondiale, e la perdita di profitti, conseguente alla pandemia, eroderanno ancora di più la coesione sociale, come pure hanno già destabilizzato i Paesi sotto il profilo sociale, politico ed economico.
Queste considerazioni ci mostrano l’opportunità, la ragione e la rilevanza della successiva enciclica di papa Wojtyła.
La «Sollicitudo rei socialis»
Il 30 dicembre 1987 Giovanni Paolo II firmava la sua seconda enciclica sociale, la Sollicitudo rei socialis (SRS), nel XX anniversario di pubblicazione della Populorum progressio (PP). Il fine era duplice: commemorarla e rilanciare la DSC.
In quel momento il mondo era suddiviso in quattro regioni: Nord, Sud, Est e Ovest. In Polonia, dal 1980 il sindacato Solidarność sfidava il gigante sovietico e provocava una serie di crepe nel blocco, in apparenza monolitico, del socialismo reale. Quest’ultimo, prima di entrare in un’agonia irreversibile, reagì con forza e proclamò la legge marziale nella patria del Papa. Nel novembre 1982 morì Leonid Brežnev, e dal 1985 salì al potere Michail Gorbačëv. La crisi economica, sociale e politica obbligava a cercare una distensione, che coesisteva con la corsa agli armamenti. Erano gli anni della presidenza di Ronald Reagan, nei quali si parlava di scudi spaziali e della guerra galattica. Era un mondo in tensione, desolato, in cui la divisione era tale che tra le sue parti sviluppate e quelle arretrate correva un abisso.
Gli elogi che Giovanni Paolo II riserva alla PP fanno supporre che la consideri un documento di piena attualità, forse il più calzante della DSC. Egli la richiama (cfr SRS 5-10) e la sviluppa. Presenta un panorama del mondo contemporaneo (cfr SRS 11-16) a partire da una constatazione sofferta: oggi la speranza di sviluppo è meno viva che nel 1967. Oltre a giustificare l’affermazione apportando dati evidenti, Giovanni Paolo II affronta il problema delle cause, che non sono soltanto economiche, ma anche politiche, sociali e umane.
Il sottosviluppo è un fenomeno complesso, oltre che deprecabile. Chi è responsabile dell’accrescersi del sottosviluppo, e c’è qualcuno a cui attribuirne la colpa? Ad ogni modo l’enciclica si spinge a una denuncia coraggiosa e profetica e, dopo aver indicato le gravi omissioni delle stesse nazioni in via di sviluppo, come pure di quelle del Primo mondo, afferma con fermezza e rigore che è necessario denunciare l’esistenza di meccanismi economici, finanziari e sociali che agiscono in maniera quasi automatica, perpetuando la ricchezza di alcuni e l’indigenza degli altri (cfr SRS 16). I due grandi ostacoli allo sviluppo integrale dei popoli sono «i meccanismi perversi» di carattere economico e «le strutture di peccato» suscitate da tali meccanismi. La somma di fattori negativi, che agiscono in senso opposto a una vera coscienza del bene comune universale e all’esigenza di favorirlo, possono creare nelle persone e nelle istituzioni un ostacolo difficile da superare (cfr SRS 36). Fra tutti, i fattori negativi più caratteristici sembrano essere due: da una parte, la brama del profitto; dall’altra, la sete del potere, con l’intento di imporre agli altri la propria volontà, per giunta a qualsiasi prezzo (cfr SRS 37). Resta chiaro che le strutture di peccato favoriscono il disordine morale della condotta, impediscono l’esercizio della virtù nella vita sociale e si fondano sui peccati personali individualizzati.
Dopo una descrizione, sulla scia della PP, dello sviluppo autentico (cfr SRS 27-34), in cui si delineano le condizioni perché esso sia umano, l’enciclica presenta una lettura teologica dei tempi moderni a partire dai concetti di conversione e solidarietà (cfr SRS 35-40), per mostrare la dimensione morale del problema. Per Giovanni Paolo II, è deprecabile il fatto che nelle analisi socioeconomiche del mondo contemporaneo si trascuri la valutazione morale racchiusa nella categoria di peccato o di virtù.
La grande affermazione della SRS è che siamo cittadini della Terra sempre più interdipendenti, e che questo fatto deve renderci sempre più solidali. A tale conclusione si perviene già partendo dalla mera considerazione dei propri interessi. Perciò è così necessario spingere alle riforme necessarie per configurare un ordinamento mondiale più giusto, e a tal fine promuovere una cultura della solidarietà nel mondo sviluppato; accettare di fatto, e non soltanto a parole, che ogni uomo e ogni popolo merita di essere riconosciuto e rispettato; vedere l’«altro» come un nostro simile, che occorre far partecipare al banchetto della vita: agire così comporta che se ne accettino le conseguenze sul proprio tenore di vita.
Qui si pone la questione del debito internazionale. Giovanni Paolo II ritiene che non si possa sottacere il profondo legame esistente fra questo problema e la questione dello sviluppo dei popoli. Lo strumento destinato a tale fine si è trasformato in un freno e, in certi casi, ha accentuato il sottosviluppo (cfr SRS 19). Forse è bene riconsiderare, in una prospettiva morale, il modo in cui noi del Primo mondo diamo sfogo alle nostre necessità. Forse dobbiamo tornare a considerare la virtù dell’austerità come un mezzo che dà all’«altro» la possibilità di avere a sua volta, riuscendo a far sì che chi dà e chi riceve siano uomini affratellati.
Ma, oltre a questo, va ricordato che la solidarietà è una virtù cristiana in stretta relazione con l’aspetto più caratteristico dell’agire di chi considera Cristo come suo Signore: la carità. Essa comprende la solidarietà della dimensione specificamente cristiana, la gratuità totale, il perdono e la riconciliazione. Il fondamento teologico della solidarietà, la paternità comune di Dio e il fatto che ogni uomo è immagine viva di lui danno allo sguardo credente sul mondo un criterio nuovo per comprenderlo. In esso il primato va a un’opzione preferenziale per i poveri. Sono i poveri del Signore, perché lui stesso ha voluto identificarsi con loro e prendersene cura (cfr Mt 25,31-46; Sal 12; Lc 1,52). La parte conclusiva dell’enciclica non può non citare le parabole del buon samaritano e del ricco epulone. Quando chiudiamo gli occhi davanti ai dati più evidenti della realtà di questo mondo, assomigliamo a quel ricco egoista descritto nel Vangelo.
Il secondo obiettivo era quello di restituire nuova vita alla DSC: compito avviato con la LE, a cui erano seguite le due Istruzioni sulla Teologia della liberazione – soprattutto la seconda –, che avevano espresso gli stessi concetti. A questo patrimonio ecclesiale ora viene impresso un dinamismo nuovo. Il Papa passa decisamente a chiamare «dottrina» o «corpo dottrinale» l’insieme degli insegnamenti sociali del magistero della Chiesa, superando così ogni riserva. Definisce la DSC come uno «strumento» di evangelizzazione e di contributo della Chiesa alla soluzione dei problemi dello sviluppo. Dato il suo «collegamento vitale» con il Vangelo, essa fa parte della missione evangelizzatrice della Chiesa.
La DSC è parte integrante della missione pastorale e docente che Cristo ha affidato alla Chiesa. Di più: è strettamente vincolata all’insegnamento di Cristo. La Chiesa, in effetti, non proclama soltanto l’insegnamento di Cristo, bensì Cristo stesso. In questo senso, la sua dottrina non perde mai di attualità. Essa ha l’obiettivo di interpretare le realtà sociali, esaminandone l’adeguatezza o la distanza rispetto a quanto insegna il Vangelo, orientando così la condotta cristiana. Il Papa fonda la validità e la necessità della DSC anche sul carattere della Chiesa, «esperta in umanità», dato che l’antropologia cristiana, considerando l’uomo nella sua totalità, illumina i problemi umani più di altre visioni parziali che lo riducono al piano dell’immanenza.
Viene ricordato che la DSC fa parte integrante della rivelazione, del magistero e della teologia morale. Per questa sua radice evangelica e morale, essa non è una ideologia, né una «terza via» tra capitalismo e collettivismo. Ricorda a questi due sistemi predominanti che la Chiesa li invita a rivedere le loro convinzioni e le loro azioni, mostrando che essa non fa preferenze per l’uno o per l’altro, fintantoché rispettano la dignità dell’uomo e la libertà religiosa. A tutti i credenti vengono raccomandate la conoscenza e la pratica di tale dottrina.
Ciò che Wojtyła aveva auspicato nell’intervista sopra citata è stato quindi formulato nel modo più autorevole.
La «Centesimus annus»
Non c’è mai stata un’enciclica più attesa della Centesimus annus (CA), pubblicata il 1° maggio 1991. Si avvertiva il dovere di mantenere il ritmo delle commemorazioni della Rerum novarum (1891), dato l’anniversario tondo, la scadenza di un secolo. Inoltre, nuovi avvenimenti legati al clamoroso collasso dell’impero sovietico sembravano richiedere un pronunciamento pubblico da parte di colui che aveva avuto una parte non piccola in quell’evento.
Ricordiamo che Gorbačëv, che fu a capo del Cremlino dal 1985, aveva perseguito una graduale trasformazione del sistema comunista, ma questo non era bastato. I movimenti di liberazione e di protesta, iniziati in Polonia, si generalizzarono. Il 1989 registrò la disintegrazione dell’impero sovietico. Il muro di Berlino cadde, e in tutti i Paesi satelliti di Mosca si formarono governi non comunisti. Il 1° dicembre 1989 lo stesso Gorbačëv fece visita a Giovanni Paolo II in Vaticano. Era la Canossa del comunismo ateo.
Fu lo stesso Giovanni Paolo II, consapevole più di chiunque altro di tali eventi, a fare la presentazione dell’enciclica: un gesto assolutamente eccezionale. Il 1° maggio, data ufficiale del documento, egli fornì le chiavi interpretative dell’enciclica nell’udienza generale: il sistema marxista è caduto, e proprio per quei motivi che la Rerum novarum aveva specificato con acume e quasi profeticamente. È venuto meno così un intero sistema, eppure non sono stati superati i problemi e le situazioni di ingiustizia e di sofferenza umana di cui esso si era alimentato. La CA costituisce una commemorazione tesa verso il futuro, nell’ottica del Terzo millennio. Non si limita a ravvivare ricordi, ma, come lo stesso Papa afferma all’inizio e alla fine dell’enciclica, si propone di guardare avanti chiedendo un nuovo assetto internazionale in campo economico e politico.
Cosa possiamo dire del suo contenuto? L’anno 1989 è il tema di un capitolo, il terzo. Non poteva essere altrimenti. Wojtyła doveva esporre la sua versione della caduta del marxismo in Europa. Questa era dovuta alla violazione dei diritti umani da parte del marxismo, fatto che sta alla radice del suo fallimento economico. Il movimento che pose fine al sistema sovietico aveva avuto inizio nei cantieri navali del Baltico, in nome della solidarietà. Qui c’è un riferimento al sindacato di Wałesa e a un atteggiamento cristiano. Di fronte alla violazione pratica di tutti i diritti umani, la risposta è venuta da una lotta pacifica che si era impegnata nel rispettare la dignità umana dell’avversario, non rispondendo mai alla violenza con altra violenza. In questo modo il regime comunista era rimasto disarmato. Giovanni Paolo II ha letto in tali avvenimenti il recupero della libertà e la vittoria dello spirito del Vangelo.
In questa enciclica si sottolinea soprattutto la distanza antropologica e teologica fra marxismo e cristianesimo. La CA analizza in termini inoppugnabili i concetti marxisti di alienazione e lotta di classe. Alle motivazioni e ai risultati del capitalismo selvaggio il Papa reagisce con una contrapposizione frontale, in linea con tutti gli insegnamenti dei Papi precedenti. E nella CA riconosce che il libero mercato, la proprietà, il beneficio per gli imprenditori sono realtà positive (cfr CA 34) e che esistono necessità collettive e qualitative che non possono essere soddisfatte tramite i meccanismi del mercato e a cui deve provvedere lo Stato (cfr CA 40).
Alla domanda chiave: «Dopo il collasso del comunismo la sola alternativa rimasta è il capitalismo?», Wojtyła risponde: «Se con “capitalismo” si intende un sistema in cui la libertà nel settore dell’economia non è inquadrata in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale e la consideri come una particolare dimensione di questa libertà, il cui centro è etico e religioso, allora la risposta è decisamente negativa» (CA 42). La critica è incentrata su atteggiamenti che riguardano il settore economico, ma che non gli sono indissolubilmente connessi. Essi possono inoltre riguardare molti cittadini, indipendentemente dal sistema in cui vivono o in cui credono.
Nella CA si punta a una società fondata sul lavoro libero, sull’impresa e sulla partecipazione, dove lo Stato sia davvero democratico. La tesi centrale è che si deve perseguire un modello socioeconomico ispirato alla DSC.
Infine, merita di essere ripresa la prospettiva dell’enciclica riguardo al debito dei Paesi in via di sviluppo. Partendo dal principio che i debiti vanno pagati, l’enciclica ritiene che non si possa però pretenderne il saldo imponendo sacrifici insopportabili. In questi casi è necessario «trovare modalità di alleggerimento, di dilazione o anche di estinzione del debito, compatibili col fondamentale diritto dei popoli alla sussistenza ed al progresso» (CA 35).
Conclusione
Già nella sua prima omelia papale, Giovanni Paolo II ci esortava a non avere paura di Cristo e ad aprirgli le porte, non soltanto dei cuori, ma anche dei «confini degli Stati, dei sistemi economici come di quelli politici, i vasti campi della cultura, di civiltà, di sviluppo»[5]. Wojtyła aveva compreso che, per non adeguarsi alle logiche del mondo, alle quali apparteneva anche il marxismo, e per evitare di essere un’ideologia, il cristianesimo doveva esprimere quanto gli era proprio.
Tra i molti meriti del pontificato di Giovanni Paolo II si annovera il suo forte impegno per la DSC, dandole chiaro e definitivo inserimento nella missione evangelizzatrice della Chiesa. Sulla questione sociale egli ha firmato tre encicliche, tre interventi solenni; nessuno dei suoi predecessori è stato altrettanto prolifico. È importante ricordare questo fatto, perché quelle tre encicliche sono complementari. La LE è dedicata a temi che potremmo definire microeconomici. La SRS è incentrata sul nucleo della macroeconomia, sullo sviluppo dei popoli. Alla CA restava da analizzare il mondo in cui ci saremmo ritrovati a breve. Le tre encicliche che abbiamo esaminato, e che costituiscono il nucleo del vasto apporto di Giovanni Paolo II in questo campo, racchiudono un contenuto ricchissimo. Il loro respiro profetico è più che evidente.
Non possiamo concludere queste riflessioni senza esprimere ammirazione e gratitudine per san Giovanni Paolo II: per la sua profonda dottrina sulla questione sociale, per l’ampiezza di vedute e per il coraggio nell’affrontare temi fondamentali con la profondità teologica di riconoscere sempre la dignità dell’uomo creato a immagine di Dio.
Copyright © La Civiltà Cattolica 2021
Riproduzione riservata
***
JOHN PAUL II AND THE SOCIAL DOCTRINE OF THE CHURCH
On October 16, 1978, when Cardinal Karol Wojtyła was elected as the successor of Saint Peter, few foresaw that the new Pontiff would renew the Church’s social doctrine. Wojtyła was convinced that it was still valid and should be further developed. Upon being elected Pope, he had the opportunity to realize this project. His contribution to the Church’s social doctrine has proved absolutely decisive, and no other Pope has written so extensively on this subject. This article attempts to synthesize the teachings of the three great social encyclicals of St. John Paul II, highlighting their contributions, validity and internal unity.
***
[1]. Cfr M.-D. Chenu, La doctrine sociale de l’Église comme idéologie, Paris, Cerf, 1979.
[2]. Cfr V. Possenti, Oltre l’illuminismo. Il messaggio sociale cristiano, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 1992, 239-262.
[3]. J. M. Bergoglio – Papa Francesco, «“Duc in altum”, il pensiero sociale di Giovanni Paolo II», in Id., Nei tuoi occhi è la mia parola. Omelie e discorsi di Buenos Aires 1999-2013, Milano, Rizzoli, 2016, 232.
[4]. Con euforia mal dissimulata, il quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung faceva notare che, dopo la LE, non era più possibile sostenere la necessità della lotta di classe sotto il profilo intellettuale.
[5]. Giovanni Paolo II, s., Messa per l’inizio del pontificato, 22 ottobre 1978.