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Camillo Benso conte di Cavour, di cui quest’anno ricorre il 160° anniversario dalla morte[1], fu «il grande regista» del Risorgimento nazionale, un uomo di Stato abile e intelligente, che seppe compiere «il primo miracolo italiano: l’Italia»[2]. Egli fu un vero maestro della politica, ma di quella politica che è «sottile arte della mediazione e della tessitura»[3], trionfo del sano pragmatismo su ogni visione romantica e utopistica della stessa. Eppure, una volta egli ebbe a dire che in politica «ogni piano, ogni progetto è inutile, tutto dipende da un accidente […]. La storia è una grande improvvisatrice». Ed è per questo – aggiungeva – che «bisogna prendere la fortuna per i capelli»[4]. Essere cioè pronti ad agire al momento giusto. Ed è appunto questo ciò che egli fece nella sua lunga attività di uomo politico (1848-61).
Cavour, divenuto presidente del Consiglio dei ministri nel 1852, perseguì instancabilmente l’espansione del Regno di Sardegna in vista della creazione di un Regno dell’Alta Italia in grado di stabilire la sua egemonia su un’Italia indipendente, e soltanto successivamente, in circostanze che egli non aveva affatto previsto, abbracciò la prospettiva unitaria. «L’esito del Risorgimento nazionale e della sua dialettica politica e sociale nel 1859-60 – scrive Massimo Luigi Salvadori – smentì sia le aspettative di Cavour, poiché approdò alla formazione di uno Stato unitario che a lungo egli aveva ritenuto sia non auspicabile sia impossibile»[5], sia quelle di Giuseppe Mazzini riguardo alla creazione di uno Stato democratico e repubblicano, che cresce dal basso. In ogni caso, il conte piemontese ebbe il merito di riuscire a inglobare nel proprio disegno politico l’imprevedibile azione insurrezionale di Garibaldi, il prestigioso liberatore del Mezzogiorno, che, partito con le sue mille «camicie rosse» dalla Liguria, portò a conclusione un’impresa che quasi nessuno, a partire da Vittorio Emanuele II, aveva creduto possibile[6].
Il conte di Cavour fu, per quanto riguarda la politica, un abile «trasformista», amante del compromesso e del centrismo. Fu il grande tessitore del cosiddetto «connubio» tra le forze politiche moderate presenti nei due opposti schieramenti del Parlamento sabaudo. In questo modo creò una solida maggioranza di centro – di cui egli fu capo incontrastato –, che assicurò per anni alla sua azione riformatrice di governo in senso liberale la giusta copertura parlamentare. Il Parlamento infatti fu la prima leva del potere personale di Cavour. Egli fu il vero artefice dell’evoluzione «materiale», in senso parlamentaristico, dello Statuto albertino. Quest’ultimo, preso alla lettera, riservava il potere esecutivo al re, il quale però lo esercitava attraverso un primo ministro, che rispondeva del suo operato soltanto a lui e non alle assemblee rappresentative[7]. Il conte piemontese seppe fare del Parlamento regio, che sulla carta aveva funzioni limitate, il luogo dove si prendevano le più importanti decisioni dello Stato. In questo modo l’assemblea parlamentare costituì un potente contrappeso allo strapotere regio, cioè al suo assolutismo, e alle forze reazionarie e conservatrici che dominavano i consigli della corona, senza però mai intaccare o mettere in discussione l’autorità regia.
Il programma politico di Cavour poggiava su due elementi fondamentali: in tema di politica interna, sulla disponibilità al compromesso, al fine di guadagnare consenso alla propria azione politica; in tema di politica estera, sulla costante attenzione da lui prestata al difficile contesto europeo, cercando, anche attraverso alleanze militari, di portare il Piemonte nel consesso delle grandi potenze. Da queste infatti egli si attendeva non soltanto riconoscimento politico, ma anche sostegno – compreso quello militare – per il suo progetto di unificazione nazionale, da portare avanti sotto la bandiera sabauda, emarginando così il pericoloso insurrezionismo mazziniano, e al tempo stesso strumentalizzando a vantaggio della causa regia e italiana il prestigio personale di Garibaldi. Cavour, insomma, facendo «grande» il Piemonte in Europa, intendeva anche spianare la strada a un’unificazione nazionale a direzione piemontese, seppellendo per sempre il vecchio sogno neoguelfo – che in passato era stato propugnato da alcuni liberali cattolici – di una confederazione italiana guidata dal Papa o qualsiasi altro progetto «unitario» che non avesse nella monarchia sabauda il suo centro propulsore.
L’unificazione politica del Paese rese poi necessario procedere al più presto alla costituzione di un nuovo Parlamento, da eleggere su base nazionale e secondo i criteri di censo. Il corpo elettorale a quel tempo era costituito dall’1,9% della popolazione[8]. Cavour, al fine di sottolineare la continuità tra lo Stato sardo e quello italiano, adottò come nuova Costituzione del Regno lo Statuto albertino del 1848 e fece proclamare dal Parlamento Vittorio Emanuele II re d’Italia, «per grazia di Dio e volontà della Nazione», continuando la precedente numerazione dinastica. Nell’ordinamento amministrativo dello Stato unitario fu adottato il modello centralistico di ascendenza francese e non quello regionalista, come avrebbero voluto Marco Minghetti e altri deputati cattolico-liberali. Il conte riteneva che il centralismo politico-amministrativo fosse necessario per impedire lo smembramento di un’Italia che, anche se unita dal punto di vista istituzionale, era però attraversata da pericolose tensioni regionalistiche e localistiche, di cui erano sintomi il brigantaggio e, in molte zone del Sud, gli atti di resistenza alle autorità dello Stato centrale. Di fatto, Cavour si decise a estendere all’intera nazione le leggi piemontesi sull’amministrazione degli enti locali e a unificare l’esercito, tenendone fuori, nonostante le rimostranze di Garibaldi, i «ribelli» che nel 1859 avevano combattuto per l’unità della Penisola[9].
Colui che fece l’Italia non si sentì mai eccessivamente attratto dalla «cultura italiana», che anzi considerava provinciale e arretrata. Cavour da giovane visse più all’estero che in Piemonte; studiò prima a Ginevra – dove vivevano i suoi parenti da parte materna – e poi a Parigi e a Londra[10]. Ebbe una formazione culturale prevalentemente tecnica; si interessò infatti più di economia e di diritto internazionale che di filosofia e di letteratura antica, pur essendo un assiduo lettore della letteratura moderna. Generalmente egli parlava e scriveva in francese e non ebbe mai troppa dimestichezza con l’idioma di Dante: pare che si facesse correggere in buon italiano i testi che poi avrebbe letto in Parlamento. Anche se viaggiò molto in Europa, conobbe pochissimo l’Italia: non scese mai più a sud di Firenze e non visitò né Roma né Napoli.
Dal punto di vista religioso, Cavour, secondo alcuni suoi biografi[11], fu un deista, cioè un razionalista che poneva in secondo piano la religione rivelata. Egli però nutrì rispetto per la Chiesa, la cui funzione desiderava che fosse ristretta al solo ambito spirituale, sebbene a volte fosse costretto a combatterla, non tanto per annientarla, ma per renderla più omogenea a una società e a uno Stato di tipo liberale, diminuendone i privilegi e le ricchezze. Non mise mai in discussione l’articolo 1 dello Statuto del Regno, che riservava alla religione cattolica il posto di religione unica e ufficiale.
Cavour e la questione religiosa
Gli ultimi mesi della vita del grande statista torinese furono interamente dedicati, oltre che alle complesse questioni riguardanti la formazione del Regno d’Italia, che ormai abbracciava quasi tutta la Penisola, anche alla risoluzione della questione religiosa, o meglio dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa nel nuovo ordine italiano[12]. Cavour ebbe un ruolo primario nel delineare il futuro rapporto fra le due istituzioni, che rimase quasi inalterato fino al Concordato del 1929.
Il conflitto tra il nuovo Regno unitario e il Papa scoppiò quando, il 17 marzo 1861, l’Assemblea nazionale proclamò Vittorio Emanuele II re d’Italia. Pio IX, infatti, pochi giorni dopo pronunciò davanti ai cardinali l’allocuzione Iamdudum cernimus, con la quale sosteneva di non poter in alcun modo consentire alla «vandalica spoliazione»[13] del suo Stato, e che era suo dovere assicurare la libertà e l’indipendenza della Sede Apostolica.
Il dottor Diomede Pantaleoni – medico e uomo politico dello Stato Pontificio[14], che qualche mese prima, insieme all’ex gesuita Carlo Passaglia, aveva fatto da mediatore tra Pio IX e Cavour –, in una lettera del 19 marzo 1861, indirizzata a quest’ultimo, trattando dell’Allocuzione pontificia, scriveva: «Finalmente il Papa ha bruciato i suoi vascelli, si è chiusa ogni ritirata, e non ci lascia che quel tristo dilemma […] “ou crétins, ou n’être pas chrétiens” […]. Finita l’Allocuzione, il Papa aggiunse in italiano altro ancora pe’ Cardinali […]. Egli era concitatissimo, ed in tal stato di passione e d’agitazione che gliene cadde il zucchetto di testa»[15]. All’Allocuzione del Papa seguì poi una Nota di protesta del Segretario di Stato, card. Giacomo Antonelli, inviata ai rappresentanti delle potenze straniere, che denunciava la sacrilega spoliazione, da parte di un Re «che si dice cattolico», «della più ampia e florida parte dei possedimenti pontifici». Poi sosteneva che mai il Papa avrebbe riconosciuto la legittimità di tale titolo, perché esso «lede la giustizia e la sacra proprietà della Chiesa»[16]. La Nota nei giorni seguenti fu pubblicata nei maggiori giornali europei – quindi anche a Torino – e da essi commentata in vario modo, in relazione alla tendenza legittimista o filo-liberale del governo in carica.
Alcuni giorni dopo, il conte di Cavour – in occasione della discussione alle Camere del cosiddetto «Ordine del giorno Boncompagni», che proponeva di dichiarare Roma capitale d’Italia –, per non perdere il sostegno dei liberali moderati di sentimenti cattolici e anche per rispondere alla dure parole del Papa, presentò, sia alla Camera sia al Senato regio, nelle sedute del 25, 27 marzo e del 9 aprile, il programma che il suo governo avrebbe perseguito nei confronti della Santa Sede e in materia religiosa[17].
Cavour affermò che nel nuovo ordine europeo e italiano il potere temporale dei Papi era divenuto ormai anacronistico e non costituiva più un’efficace garanzia di indipendenza e di libertà per il Pontefice, il quale, per assicurare l’incolumità del proprio Stato, avrebbe dovuto affidarsi – come di fatto era avvenuto negli ultimi tempi – a «truppe straniere e dipendere da Stati secolari». Cavour sosteneva che la libertà della Chiesa nella nuova Italia poteva essere assicurata soltanto da un’effettiva separazione tra la Chiesa e lo Stato, secondo il principio «libera Chiesa in libero Stato», già adottato dai cattolici liberali in Belgio nel 1830, per difendere la libertà della Chiesa dalle ingerenze delle nuove monarchie restaurate[18].
Se possiamo convincere i cattolici d’Europa, affermava Cavour, che l’unione di Roma al resto dell’Italia non sarà causa di oppressione per la Chiesa, «persuaderli anzi che l’indipendenza di questa ne crescerà, questo è il modo per giungere ad un accordo con la Francia, naturale rappresentante della società cattolica in questo gran piano». Una volta giunti a Roma – continuava –, «grideremo la separazione tra la Chiesa e lo Stato, e la libertà della Chiesa. E dopo tal fatto […] la grande pluralità dei cattolici d’Europa ci approverà, e rovescerà su cui tocca la colpa della lotta, con che la Corte di Roma avrà provocato la Nazione»[19]. La più grande sventura per un popolo, egli disse, è quella di «vedere riunita in una sola mano dei suoi governanti il potere civile e il potere religioso». Ciò sarebbe indice del più «schifoso dispotismo»[20].
Pio IX, dal canto suo, già da tempo considerava Cavour uno dei «cattivi cattolici», sul quale, disse, «pesa sempre adirata la mano di Dio»[21]. In un’altra occasione addirittura lo aveva apostrofato «antipapa e quasi nemico di Gesù Cristo»[22]. Inoltre, in base al Breve di scomunica del 26 marzo 1860, a tutti coloro che avevano – o avrebbero in seguito – cooperato alla spoliazione dello Stato della Chiesa veniva comminata la più severa sanzione ecclesiastica, cioè la scomunica maggiore. Essa però non era nominale – in particolare, non venivano citati né Vittorio Emanuele II né Cavour –, per cui fu interpretata con una certa larghezza dai vari cappellani privati.
In alcune circostanze Pio IX ebbe un atteggiamento piuttosto duro nei confronti delle persone implicate «nella spoliazione», chiedendo, per l’assoluzione dalla scomunica, almeno una ritrattazione privata. È quanto avvenne per Cavour, che morì il 6 giugno 1861, a 51 anni. Già durante la malattia egli si era assicurato i conforti religiosi in punto di morte. Questi di fatto gli furono amministrati dal cappuccino p. Giacomo da Poirino, il quale però non pretese da lui nessuna ritrattazione. Avvertito della cosa, Pio IX chiamò a Roma il cappuccino e lo invitò a riconoscere la sua colpa. Giacomo da Poirino non volle ammettere di aver agito contro le leggi della Chiesa e, come sanzione, il Papa lo privò della facoltà di confessare e lo sospese dalle funzioni parrocchiali[23].
I discorsi pronunciati da Cavour alla Camera e al Senato, anche se non condivisi nella sostanza, furono apprezzati per il loro tono conciliante e pacato da diversi esponenti del «partito papale». Mons. Pier Francesco Meglia, ad esempio, ne ammirò la franchezza, a differenza della politica ambigua e falsa tenuta su tale questione dal governo francese. «Quello che sorprende nei discorsi del presidente del Consiglio – scrisse in una lettera del 30 marzo 1861, inviata al card. Giacomo Antonelli – è la soluzione decisiva, proposta senza ambagi, con termini chiari, e di maniera a far credere che l’opera dello scioglimento [cioè della separazione tra Stato e Chiesa] non sia tanto lontana; e siccome tali parole, lungi dall’essere qui contraddette, sono invece inserite nel Moniteur, esse danno a pensare che i due Governi sono perfettamente d’accordo sul piano a seguire e non attendono che il momento opportuno per metterlo in esecuzione»[24].
Di tono ben diverso, invece, furono le reazioni di noti esponenti del cosiddetto «cattolicesimo liberale europeo» alle parole del conte di Cavour: ad esempio, quelle del conte Charles de Montalembert[25], uomo politico e intellettuale cattolico di orientamento ultramontano, molto stimato sia in Francia sia in Italia e più volte citato da Cavour come il geniale ideatore del celebre principio «libera Chiesa in libero Stato».
Cavour e Montalembert
Notevole dal punto di vista polemico-letterario è uno scritto redatto «a caldo» da Montalembert in risposta ai suddetti discorsi di Cavour alla Camera. Esso venne pubblicato in italiano, eccezionalmente, su La Civiltà Cattolica[26], la quale da tempo era impegnata nella difesa intransigente del potere temporale, della libertà del Papa e dei diritti imprescrittibili della Chiesa contro la «micidiale peste liberale».
Rispondendo a Cavour, che nei suoi discorsi chiamava a raccolta tutti i cattolici liberali per difendere la libertà della Chiesa contro il dispotismo dei legittimisti, Montalembert scrisse: «Ora eccomi qua, uno di quei cattolici leali che voi invocate. Sono trenta anni ch’io difendo quell’indipendenza della Chiesa, di che voi parlate oggi per la prima volta. Laonde a doppio titolo, in nome di tutti i milioni di cattolici, il cui suffragio invocate, oso rispondere: no, la nostra adesione non l’avete. Fidatevi di me, voi ci dite, ed io vi rispondo un franchissimo no. Vi vantate di ottenere presto o tardi la cooperazione dell’opinione pubblica, ed io affermo che non l’avrete giammai. Vi appellate alla pluralità dei cattolici; ed io pretendo che tra i veri cattolici, i quali soli contano, soli danno forza coll’adesione in materia religiosa, nessuno, né prete né laico, non istarà per voi. La mia risposta si riduce dunque a tre parole: no! Giammai! Nessuno»[27].
A partire dalle prime parole dello scritto, il conte francese prende le distanze, dal punto di vista ideologico, dalle posizioni cavouriane e afferma che il suo pensiero liberale è diverso, perché è alimentato dal sentimento di giustizia e dal rispetto per la libertà dei popoli: «Il vostro liberalismo – scrive Montalembert – nulla ha che fare col mio: e per conseguente dolce mi è il credere […] che il mio liberalismo più che mai perseverante e convinto, nulla ha che fare con codesto vostro, sì giustamente vituperato dal Sommo Pontefice»[28].
Il contenuto apertamente e volutamente apologetico – soprattutto nelle parti di ricostruzione storica – del lungo scritto di Montalembert a volte oltrepassa la realtà dei fatti e la verità del confronto. Così viene indebolita la causa che egli intende difendere. Meraviglia, inoltre, che non venga spesa nemmeno una parola in difesa degli ordinamenti costituzionali – già in vigore nel nuovo Stato unitario – da parte di uno dei maggiori sostenitori in Francia della causa costituzionale.
Senza dubbio Montalembert e tutta la stampa intransigente sostenevano che le leggi di laicizzazione piemontesi, con tutto il loro carico di durezze, venivano applicate nell’intero territorio nazionale senza alcuna attenzione alla diversità delle realtà locali, allo scopo di limitare l’influsso che la Chiesa esercitava sulla realtà sociale, occupando «spazi» che lo Stato liberale considerava di propria pertinenza. Va però anche ricordata l’applicazione del «sistema delle libertà» previste dallo Statuto albertino, che garantivano a tutti gli italiani le libertà fondamentali della persona, non riconosciute negli Stati pre-unitari, come, ad esempio, la libertà di pensione, di associazione, di religione e la tanto vituperata libertà di stampa. Al punto che La Civiltà Cattolica stessa – rivista redatta in italiano e destinata a essere letta da «tutti i cattolici italiani» –, sebbene pubblicasse articoli molto critici nei confronti dell’unità d’Italia e della politica piemontese, continuò le sue pubblicazioni e non trovò nella nuova Italia maggiori ostacoli per la sua divulgazione di quanti ne aveva incontrati negli anni precedenti nel Regno dei Borboni[29].
Sembra che gli italiani del tempo – sia liberali sia cattolici – e lo stesso Vittorio Emanuele II – che provava un vero sentimento di invidia nei confronti del suo Primo ministro – non nutrissero molta simpatia per l’abile artefice dell’unità d’Italia, nonostante ne apprezzassero – o ne temessero – le doti di uomo politico. Ancora oggi Cavour è certamente, fra i protagonisti del nostro Risorgimento, la personalità meno amata dagli italiani; eppure, per giusto merito, in tutte le città della Penisola c’è una piazza o una via intitolata al suo nome. Egli infatti, a differenza di Garibaldi e di Mazzini, è considerato un italiano sui generis, e di fatto la sua formazione culturale era avvenuta all’estero, dove la stima degli «italiani», sotto il profilo politico e morale, era molto bassa[30].
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CAVOUR, 160 YEARS AFTER HIS DEATH
The 160th anniversary of the death of Camillo Benso, occurs this year. This Count of Cavour was “the great director” of our national Risorgimento, and an able and intelligent statesman who was able to accomplish “the first Italian miracle, namely the creation of country we know today as “Italy”. The last months of the life of the great statesman from Turin were entirely dedicated not only to the complex issues concerning the formation of the Kingdom of Italy, but also to the resolution of the religious question, or rather the relationship between the State and the Church in the new Italian order. In addition to exploring this theme, this article will deal with the position that Charles de Montalembert, a French Catholic politician and intellectual, took on this matter in the pages of our magazine. He was often quoted in his speeches by Cavour as the brilliant creator of the famous principle of a “free Church in a free State”.
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[1]. Cavour nacque il 10 agosto del 1810 a Torino e morì in questa stessa città il 6 giugno del 1861. Morì l’anno stesso in cui l’Assemblea nazionale, il 17 marzo, su richiesta del capo del governo, proclamava ufficialmente Vittorio Emanuele II re d’Italia, quando ancora Roma era sotto il dominio pontificio e il Veneto e il Trentino erano sotto la dominazione asburgica. Cfr G. Sale, «La proclamazione del Regno d’Italia del 1861 e Pio IX», in Civ. Catt. 2021 I 534-547.
[2]. L. Cafagna, Cavour, Bologna, il Mulino, 1999, 5.
[3]. Ivi, 15.
[4]. Ivi, 9.
[5]. M. L. Salvadori, Storia d’Italia. Il cammino tormentato di una nazione. 1861-2016, Torino, Einaudi, 2018, 4.
[6]. Cfr ivi, 6.
[7]. Cfr L. Cafagna, Cavour, cit., 31 s.
[8]. Alle elezioni del 27 gennaio 1861 partecipò soltanto il 57% degli aventi diritto al voto. I cattolici disertarono massicciamente le urne, seguendo la direttiva di don Giacomo Margotti, benedetta da Roma, «né eletti, né elettori», per indicare l’opposizione allo Stato unitario che aveva usurpato i legittimi diritti del Papa sui suoi possedimenti territoriali. Cavour, dal canto suo, già dal 1852, al fine di superare la contrapposizione tra cattolici e liberali, aveva ripetutamente auspicato la formazione di un partito cattolico che, abbandonato l’intransigentismo clericale, tipico di buona parte del mondo cattolico, e conciliatosi con il liberalismo moderno, come era successo in alcuni Paesi europei, si inserisse a pieno titolo nella vita politica nazionale, sostenendo anche in Parlamento e nel Paese la sua politica moderata. Cfr ivi, 11.
[9] . Soltanto i cosiddetti «cacciatori delle Alpi» nel maggio 1860 furono inclusi, in un numero non superiore alle 2.000 unità, nel nuovo esercito regio. Cfr M. L. Salvadori, Storia d’Italia…, cit.
[10]. Cfr I. De Feo, Cavour. L’ uomo e l’opera, Milano, Mondadori, 2017, 64 s,
[11]. Cfr R. Romeo, Vita di Cavour, Bari, Laterza, 1984; I. De Feo, Cavour. L’ uomo e l’opera, cit., 81; A. Viarengo, Cavour, Roma, ed. Salerno, 2010, 58; L. Cafagna, Cavour, cit., 90; E Passerin d’Entrèves, «Cavour, Camillo Benso conte di», in Dizionario Bibliografico degli Italiani, vol. 23, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, 1979, 120-138.
[12]. Cavour aveva una visione positiva del cristianesimo come religione storica. Trattando di questa materia con una amica, ebbe a scrivere che «il cristianesimo, non avendo ricevuto dal suo Fondatore quel carattere d’immobilità che era tipico della religione giudaica, potrebbe modificarsi di continuo, adeguandosi alle progredite conoscenze umane» (I. De Feo, Cavour. L’ uomo e l’opera, cit., 84). Partendo da tali presupposti, egli non disperava di trovare un accordo con il Papa sui rapporti tra Stato e Chiesa.
[13]. Cfr G. Sale, «La proclamazione del Regno d’Italia del 1861 e Pio IX», cit., 551.
[14]. Successivamente Pantaleoni divenne deputato del Regno d’Italia e nel novembre del 1873 senatore. Cfr R. Piccioni, «Pantaleoni Diomede», in Dizionario Bibliografico degli Italiani, vol. 81, cit., 2014, 11-14.
[15]. Entrando nel merito della questione, Pantaleoni continuava: «Secondo il Cardinale D’Amat, col quale ne ho parlato, il Papa sarebbe scusabile ed in buona fede. Non avere Egli potuto credere alla serietà delle nostre proposte quando ad un tempo vedea tutte le leggi di Pepoli, di Valerio, di Mancini venire una sull’altra a disdire le intenzioni di accomodarsi […]. Ma la causa principale forse dell’Allocuzione sta nella virulenza de’ Vescovi specialmente francesi istigati da Gesuiti» (La Questione romana negli anni 1860-1861. Carteggio del conte di Cavour con D. Pantaleoni, C. Passaglia, O. Vimercati, vol. II, Bologna, Zanichelli, 1929, 69-71). Da questa lettera risulta che Pantaleoni non conosceva il carattere del Papa, affabile nei modi e intransigente nella difesa dei princìpi religiosi.
[16]. «Cronaca Contemporanea», in Civ. Catt., serie IV, 10 (1861) 32.
[17]. Cfr G. Sale, «La proclamazione del Regno d’Italia del 1861 e Pio IX», cit.
[18]. Cfr C. Cavour – F. Ruffini – M. Pirani, Libera Chiesa in libero Stato, Genova, Il Nuovo Melangolo, 2001.
[19]. C. Cavour, Discorsi parlamentari, vol. XV, Firenze, La Nuova Italia, 1973, 485. L’«Ordine del giorno Boncompagni» fu poi approvato all’unanimità della Camera subalpina.
[20]. Ivi, 487.
[21]. G. Martina, Pio IX e Leopoldo II, Roma, Pontificia Università Gregoriana, 1967, 504.
[22]. Ivi.
[23]. Cfr Id., Pio IX (1851-1866), ivi, 1986, 95.
[24]. P. Pirri, Pio IX e Vittorio Emanuele II. Carteggio, vol. 1, Roma, Pontificia Università Gregoriana, 1951, 370.
[25]. Di Montalembert si ricordano le celebri battaglie in difesa della libertà della Chiesa, e in particolare quella per la libertà di insegnamento, che nel 1850 ispirò la legge Guizot sulla scuola in Francia: cfr R. Aubert, «La conseguenza degli avvenimenti del 1848 in Francia», in H. Jedin, Storia della Chiesa. Vol. VIII/2. Liberalismo e integralismo tra Stati nazionali e diffusione missionaria (1830-1870), Milano, Jaca Book, 1993, 183 s.
[26]. Cfr «Seconda lettera del Sig. conte di Montalembert al Sig. conte di Cavour», in Civ. Catt., serie IV 10 (1961) 384-434. Lo scritto di Montalembert porta la data del 12 aprile 1861.
[27]. Ivi, 387.
[28]. Ivi, 388. Dopo di che egli mette sotto accusa la politica portata avanti dal governo piemontese contro il Papa: «Voi pretendete – continuava Montalembert – dimostrare con evidenza ai più increduli la schiettezza della vostra proposta. Dite che il vostro sistema vuole la libertà in ogni cosa, la libertà compiuta nei rispetti fra la Chiesa e lo Stato. Promettete al Papa […] la riverenza e la libertà, con l’unico patto che prima lo dobbiate spogliare del suo dominio temporale. Ma in che modo avete voi trattato i Vescovi suoi fratelli […], e che già vi sono sudditi, come pretendete che egli diventi?[…] Avete cacciato – egli scriveva – dalle loro sedi gli arcivescovi di Torino, Cagliari, Pisa, Napoli senza minimamente curarvi del bene spirituale del popolo cristiano. Sono questi i pegni che debbono rassicurare i fedeli del mondo intero circa la sorte futura del padre loro, e il Papa stesso circa la futura libertà del suo ministero? Voi avevate monasteri sopravvissuti alla tempesta delle rivoluzioni, e che cosa sono divenuti? Da per tutto io li veggo spogliati, profanati, confiscati» (ivi, 396).
[29]. Cfr G. Sale, «“La Civiltà Cattolica” nei suoi primi anni di vita», in Civ. Catt. 1999 I 544-557.
[30]. Cafagna scrive che, dal punto di vista personale, Cavour non aveva nulla di affascinante, non era una figura elegante e raffinata come Minghetti, e non creava o trasmetteva motti o messaggi che girassero di bocca in bocca. La sua voce era dura e metallica, quasi stridula, «nulla che potesse colpire la fantasia popolare». Vittorio Emanuele II, che non gli era amico, lo chiamava in modo sprezzante «l’avvocato», che allora significava «borghese», per il suo modo di vestire, semplice e a volte sciatto. «Non portava né divise, né tenute da collare dell’Annunziata, né, tanto meno, abbigliamenti fantasiosi alla Garibaldi» (L. Cafagna, Cavour, cit., 235).