a cura di V. FANTUZZI
Paranoid Park (USA – Francia, 2007). Regista: GUS VAN SANT. Interpreti principali: G. Nevins, D. Kiu, J. Miller, T. Momsen, L. McKinney, G. Carter, J. Williamson, J. Burrouwes.
I genitori di Alex (Gabe Nevins), sedicenne abitante di Portland (Oregon), sono separati e stanno per divorziare. A nessuno dei due, presi dai loro problemi, importa gran che di Alex e del suo fratello più piccolo, ancora bambino. Alex, dal canto suo, non si sente attratto da nulla. Non dalla famiglia, priva di stabilità e di prospettive, non dalla scuola, chiusa in un nozionismo arido. Non si sente attratto nemmeno da Jennifer (Taylor Momsen), una coetanea che si è incapricciata di lui, dalla quale si allontana dopo la prima acerba esperienza sessuale. Solitudine è il nome del Paese dove Alex vive, isolato dal resto del mondo. Eppure, nella sua inconsapevolezza di adolescente, percepisce che dentro di sé c’è un mondo intero, tutto da scoprire.
Da questo desiderio che Alex ha di conoscersi parte il movimento del film, che accompagna quello del corpo di un ragazzo, non ancora pienamente formato, che sembra sospeso in uno stato di imponderabilità. Film, alla sua maniera, sperimentale Paranoid Park di Gus Van Sant, alterna le riprese in superotto con quelle a 35 mm, immagini nitidissime con altre volutamente sfocate, inquadrature in movimento con inquadrature fisse. L’impegno più consistente del film si sviluppa sul versante del tempo. Dall’immagine del ponte con il panorama della città sullo sfondo, che fa da supporto ai titoli di testa, dove si vedono automobili sfrecciare a velocità incredibile per effetto della ripresa accelerata, si passa ai movimenti rallentati di Alex che percorre i corridoi del liceo. Inseparabile dal suo skateboard, Alex dispone di un supporto (una tavoletta munita di rotelle) che gli consente di spostarsi con rapidità e leggerezza. Alla macchina del cinema non resta che munirsi a sua volta di strumenti che consentano di ottenere una mobilità non inferiore, necessaria per seguire, precedere, accompagnare, avvolgere se necessario il ragazzo con circonvoluzioni sinuose e carezzevoli, adottando una fluidità simile a quella di cui dispone lui quando la tavoletta, manovrata con abilità, sembra mettergli le ali ai piedi.
La scommessa di un film come questo consiste nel verificare se le immagini, che girano attorno a un ragazzo in perenne movimento, riusciranno a scalfire la superficie del suo modo di vivere per consentire allo spettatore di passare dall’osservazione del comportamento esteriore a una percezione del mondo interiore dal quale Alex è abitato. Il ragazzo stesso lascia intendere, a un certo momento, di non volersi limitare a scivolare sulle cose che lo circondano, ma di essere alla ricerca di cose diverse, a differenti livelli (different stuff, at different levels). La musica del film, eterogenea e stratificata, viene in aiuto alle immagini visive. Si tratta delle canzoni di musicisti contemporanei che gli adolescenti ascoltano volentieri, parole sussurrate, strumentazione sommessa, «pae-saggi sonori» come li definisce il regista. La musica, eliminando i rumori d’ambiente, sottrae realtà alle immagini già rese evanescenti dall’uso insistito del ralenti.
Assieme all’amico Jared (Jake Miller), Alex si reca all’East Side Park, una vasta area attrezzata per le acrobazie degli skaters, che i ragazzi si ostinano a chiamare Paranoid Park, dove si raduna una strana fauna umana, abbarbicata ai margini della società. In questa sorta di non luogo o terra di nessuno, Alex incontra uno sconosciuto che lo invita a saltare su un treno merci in corsa. Una bravata come tante altre, fatta così, per ammazzare il tempo.
Un guardiano che sorveglia i treni, insegue Alex che lo colpisce con lo skateboard. Il guardiano perde l’equilibrio e viene travolto da un altro treno che sopraggiungendo tronca il suo corpo in due pezzi. Le gambe e il ventre restano inerti tra le viscere sparpagliate, mentre le mani e le braccia trascinano testa e busto su per la scarpata sotto gli occhi terrorizzati di Alex.
La sera, ascoltando il notiziario della televisione, Alex sembra rendersi conto di ciò che è accaduto la notte precedente. Un uomo è morto e lui ne è, anche se involontariamente, l’assassino. Non gli è difficile eludere la curiosità superficiale di sua madre che lo interroga su una chiamata notturna giunta sul telefonino dello zio. Ancora più facile è sbarazzarsi delle fastidiose compagne di liceo che si meravigliano vedendo che si interessa alle pagine di cronaca di un giornale. Diverso è il caso dell’incontro faccia a faccia con il poliziotto (Dan Kiu) che indaga sulla morte del guardiano dei treni. Alex se la cava con una buona dose di faccia tosta, con un po’ di fortuna e con l’instintiva abilità con la quale si è disfatto rapidamente di tutto ciò che poteva collegare la sua persona con la morte del guardiano.
Il peso che sente sulla coscienza sarà affidato a una lettera indirizzata all’amica Macy (Lauren McKinney), che Alex brucerà dopo averla scritta. Il suo segreto rimane sepolto dentro di lui. Dopo essere fuggito dal mondo degli adulti, dentro il quale avvertiva la presenza di un’oscura minaccia, Alex sa di dover convivere d’ora in avanti con una minaccia ancora più pericolosa, che non lo insidia dall’esterno, ma è radicata nel suo intimo. Questa sensazione non è espressa con parole, ma affidata alle immagini del film, fotografate con bravura da Christopher Doyle, tra le quali rimane impressa nella memoria quella di Alex che, dopo il fattaccio, indugia sotto il getto della doccia, con i lunghi capelli bagnati che gli nascondono il viso e lo fanno apparire come una macchia informe dai contorni inquietanti.