a cura di V. FANTUZZI
Oro rosso (Iran, 2003). Regista: JAFAR PANAHI. Interpreti principali: H. Emadeddin, K. Sheissi, A. Rayeji, S. Vaziri, E. Amani.
«Il rifiuto dell’ingiustizia è come un singhiozzo a lungo represso, che alla fine esplode». Così dice il regista iraniano Jafar Panahi, premiato al festival di Cannes nel 1995 con Il palloncino bianco (cfr Civ. Catt. 1996 I 423 s) e al festival di Venezia del 2000, «Leone d’oro», con Il cerchio (cfr Civ. Catt. 2000 IV 417 s), ora sugli schermi italiani con Oro rosso. Da ragazzo, Panahi aiutava il padre che faceva l’imbianchino in un quartiere residenziale a Nord di Teheran. Ricorda che vedendo il lusso nel quale vivevano certi ricchi (ma le differenze sociali — a suo dire — non sono oggi meno vertiginose di quanto lo fossero allora) piombava in uno stato di malessere paragonabile a una vera e propria malattia.
Un paio di anni fa, mentre si trovava in viaggio con il regista Abbas Kiarostami, del quale Panahi è stato assistente, gli ha sentito raccontare un fatto di cronaca, letto su un giornale. Parlava di un giovane che tenta di rapinare una gioielleria e, non riuscendoci, si suicida. La sua immaginazione ha cominciato immediatamente a suggerirgli spunti narrativi e visivi legati a quella situazione. Ha detto a Kiarostami che aveva intenzione di fare un film basato su quel racconto. Kiarostami ha detto che gli sarebbe piaciuto scriverne la sceneggiatura. È stato facile per i due mettersi d’accordo.
Il racconto inizia dove finisce. Un giovanotto corpulento (Hussein) sta tentando di rapinare un gioielliere minacciandolo con la pistola. Il gioielliere cerca di prendere tempo. Il rapinatore non è esperto del mestiere. L’arrivo di una cliente ignara, che fugge spaventata, lo distrae e consente al gioielliere di far scattare l’allarme. La gioielleria si trasforma in una trappola. Hussein uccide il gioielliere e, dopo aver insultato i curiosi che si sono radunati nei pressi del negozio, punta la pistola verso la propria tempia, scivola lentamente lungo le sbarre della chiusura automatica, esce di campo dal basso… Lo sparo che si ode nella colonna sonora annuncia la sua fine. Anche il gioielliere, d’altra parte, era stato colpito ed era morto fuori campo. Una corsa in scooter per le vie di Teheran intasate dal traffico, dà il via al lungo flash-back che racconta gli ultimi giorni della vita di Hussein.
L’attore che interpreta il ruolo di Hussein è, come accade negli altri film di Panahi, un non professionista. «L’incontro con questa massa umana — dice il regista — è stata per me come un’apparizione. Comunica un senso di solidità impressionante, ma in realtà si tratta di un giovane che soffre di leggere turbe mentali. Non è stato facile lavorare con lui». Accade a Panahi in questo film qualcosa di simile a ciò che era accaduto a Bruno Dumont con L’umanità (cfr Civ. Catt. 2000 II 269-275): sfrutta l’handicap dell’interprete per mettere a fuoco il disagio esistenziale del personaggio.
Hussein consegna le pizze a domicilio per conto di una pizzeria. È un lavoro subordinato, che fa di lui lo spettatore passivo di un benessere al quale non ha alcuna possibilità di partecipare. Nei brevi dialoghi che intercalano le scene del film, veniamo a sapere che ha partecipato alla guerra Iran-Iraq. È ingrassato oltre misura dopo che ha cominciato a prendere il cortisone. Hussein ha un giovane amico, Alì, che pratica sistematicamente lo scippo. Alì è fratello della fidanzata di Hussein. In una borsetta scippata da Alì, i due amici trovano la ricevuta di una collana d’oro da ritirare in una gioielleria. Si recano dal gioielliere, ma questi, vista la loro tenuta trasandata, non li fa nemmeno entrare nel negozio. La gioielleria, situata nella parte alta della città, è lo spartiacque che separa i ricchi dai poveri. Lo sguardo sprezzante che il gioielliere gli ha rivolto attraverso i vetri chiusi del negozio pesa su Hussein come un’offesa insopportabile.
La globalizzazione e l’irrompere caotico della modernità provocano in Iran, come in altri Paesi, trasformazioni traumatiche nell’assetto sociale. Gli antichi divieti, salvaguardati con la forza dalla polizia, non possono più contare su un contesto che li renda plausibili. La classe media sparisce lasciando il posto a un enorme divario tra i privilegi, goduti da pochi, e la disperazione che attanaglia le masse. In una scena del film si vedono Hussein e la fidanzata, vestiti con i loro abiti più decorosi, presentarsi di nuovo alla gioielleria per acquistare (con i soldi provenienti, con ogni probabilità, da un furto perpetrato da Alì) qualche gioiello in vista del matrimonio. Il gioielliere non tarda a riconoscere la loro estrazione sociale e a indirizzarli, con modi cortesi, verso il bazar come luogo più adatto per loro. Hussein soffre, nel suo abbigliamento falso borghese, di un attacco che lo fa quasi svenire.
Il giovane trascorre l’ultima notte della sua vita nell’appartamento di un coetaneo ricchissimo che, abbandonato di punto in bianco dalla fidanzata con la quale intendeva passare la serata, lo invita a mangiare insieme con lui la pizza che gli aveva ordinato di portare. L’appuntamento definitivo con il gioielliere è segnato nel destino di Hussein. «Il loro rapporto reciproco — dice il regista — è regolato da una questione d’onore, il che non può essere facilmente compreso nel mondo occidentale. C’è un mondo nel quale, se qualcuno fa un torto a un altro, ci si può rivolgere al giudice, e c’è un altro mondo nel quale un’offesa impegna per la vita, soprattutto quando non si possiede nient’altro che la propria vita».