Lost in Translation (USA, 2003). Regista: SOFIA COPPOLA. Interpreti principali: B. Murray, S. Johansson, G. Ribisi, A. Faris.
Bob Harris (Bill Murray nel ruolo di un maturo attore di successo, non lontano da quello che è nella realtà) gira a Tokyo la pubblicità per un whisky giapponese. Nell’albergo di lusso che lo ospita incontra Charlotte (Scarlet Johansson) giovane moglie di un indaffaratissimo fotografo di moda, il quale non ha tempo di tenerle compagnia: due americani disorientati tra un jet e un altro (complice la difficoltà di adattamento al cambio dei fusi orari) in un Paese di cui non capiscono né la lingua né le usanze. Lost in Translation è il secondo lungometraggio, dopo Il giardino delle vergini suicide (1999), di Sofia Coppola (figlia del regista Francis Ford Coppola). I due non sanno come riempire i tempi morti del loro soggiorno nel «limbo» giapponese. Di immagine in immagine, di dettaglio in dettaglio si passa da una sospensione di senso a un’altra.
La macchina da presa è fatta per sostituirsi all’occhio e consentire a chi guarda di osservare con attenzione anche ciò che normalmente non si vede. Lo stesso si può dire dei suoni captati dal microfono e registrati nella colonna sonora. Guardare, sentire non sempre equivale a percepire, comprendere. Ci sono immagini nitide, che si lasciano afferrare con facilità, e danno sicurezza. Chi le vede trova in esse conferma alle idee «chiare e distinte» sulle quali si basa il suo modo di ragionare. Altre immagini, invece, appaiono confuse e indistinte. Chi le guarda ne trae una sensazione di disequilibrio che si collega con uno stato di esitazione e incertezza interiore. Nel confronto tra ciò che è chiaro e ciò che non lo è si concretizza la perenne ambiguità del cinema, la confusione (inerente alla natura di questo mezzo di espressione) tra essere e apparire, la capacità che il linguaggio audiovisivo ha di cambiare i connotati della realtà facendo sembrare vero il falso e viceversa. Allo stesso tempo però la possibilità di manipolare l’aspetto esteriore delle immagini rende il cinema capace di evocare, al di là ciò che è visibile, la presenza di ciò che non lo è.
Lost in Translation può essere visto come un invito ad andare al di là delle apparenze, a cogliere nel fluire delle sensazioni e delle emozioni, che com-pongono il continuum della vita, non i sussulti e i trasalimenti, che ne accompagnano le accelerazioni improvvise o i repentini cambiamenti di rotta, ma le sfumature quasi impercettibili che ne colorano le stasi, i momenti nei quali non succede apparentemente nulla, quando le acque ristagnano e, allo stesso tempo, lasciano intravedere ciò che si muove nel loro fondo limaccioso tra incrostazioni, detriti e residui di vecchie situazioni: problemi mai affrontati e risolti, ma accantonati, sepolti sotto strati di trascuratezza che, con il passare del tempo, sono diventati inamovibili.
In questo stato di imponderabilità avviene l’incontro tra due solitudini (quella di Bob, star silenziosa, e quella di Charlotte, moglie trascurata) che giungono appena a sfiorarsi, a percepire il profumo l’una dell’altra. Anche Bob ha alle spalle una famiglia (moglie assillante e figli lagnosi). L’incontro, privo di conseguenze concrete, lascerà traccia soltanto nella mente di chi lo ha vissuto. La Tokyo che li ospita è una perfetta «terra di nessuno». La compassata gentilezza del personale dell’albergo non fa che accentuare il senso di lontananza che i due avvertono nei confronti del mondo circostante. Bob si accorge della presenza di Charlotte perché, essendo solo, non può non avvertire una strana attrazione nei confronti della solitudine di lei. La vita moderna delle persone ricche è corrosa dal tarlo della solitudine, che genera un malessere diffuso. Nell’osservarsi reciprocamente i due hanno l’impressione di rispecchiarsi l’uno nell’altra. In lei lui vede se stesso da giovane, quando ancora non sapeva chi era e cosa voleva. In lui lei vede se stessa come sarà tra 25 anni, quando non potrà non avvertire, al pari di tanti altri, una sorta di nausea provocata dalla stanchezza di stare al mondo.
Tra corridoi, ascensori, hall deserte e bar notturni ecco dunque affiorare il senso di una delle possibili interpretazioni allegoriche dei segni e dei simboli che, come veli trasparenti, avviluppano le immagini eleganti di questo film. Ci riferiamo, al di là della difficoltà di comunicazione dovuta alla incomprensibilità dei linguaggi, al sottile gioco delle reciproche imitazioni in base al quale i giapponesi adottano toni duri all’americana per darsi un’aria di efficientismo nel lavoro, mentre gli americani, stanchi e annoiati, assumono atteggiamenti di relax desunti dalle tecniche di meditazione orientale. Un modo indiretto, sfumato e allusivo, scelto dalla regista per esprimere una insopprimibile esigenza di autenticità.