a cura di V. FANTUZZI
Kedma – Verso Oriente (Israele, 2002). Regista: AMOS GITAI. Interpreti principali: A. Kashkar, H. Yaralova, Y. Abu Warda, M. Lang, V. Nicole.
Dopo aver affrontato con i film precedenti (Kadosh, 1999; Kippur, cfr Civ. Catt. 2000 IV 626 s) alcuni problemi cruciali del suo Paese senza pace, il regista israeliano Amos Gitai dedica la pellicola più recente, Kedma, allo sbarco clandestino di un gruppo di ebrei, sopravvissuti alla Shoah, che giungono sulle coste della Palestina, nei pressi di Cesarea, allora territorio a mandato britannico, nel maggio del 1948, alla vigilia della proclamazione dello Stato di Israele. Sulla nave sgangherata che li trasporta si intrecciano racconti in lingue diverse (russo, polacco, yiddish…) alle quali in seguito se ne aggiungeranno altre: inglese, arabo… Amalgama plurilinguistico che si perde nelle copie del film doppiate in italiano. Appena messo piede a terra, gli immigrati, fuggiti da un’Europa lacerata dalla guerra, devono difendersi dai soldati inglesi, che tentano di respingerli a colpi di fucile, e aggregarsi all’esercito segreto degli ebrei (il Polmach) che combatte contro i palestinesi per aprirsi una strada verso Gerusalemme.
Facciamo conoscenza con due coppie. L’intellettuale polacco Yanush e la sua compagna, la russa Rosa. Abbracci prolungati, dialoghi som-messi, ma intensi. Giunto nella terra dei suoi padri, Yanush dice di sentirsi felice per la prima volta in vita sua. Ancora non sa quale destino lo attende. Un’altra coppia di ebrei è composta dal giovane cantore Menachem e dalla sua amica Hanka. Accompagnati da un anziano professore, incaricato della loro accoglienza, questi ultimi incontrano i resti di una tribù araba in fuga dal proprio villaggio, che è stato occupato dai guerriglieri ebrei. Profughi con alle spalle storie diverse vagano sulla stessa terra. Da una parte gli ebrei, provenienti dall’Europa, per i quali la vecchia guerra non è ancora finita. Dall’altra i palestinesi, per i quali sta per cominciarne una nuova. Disastri che si sommano ad altri disastri. Radici di un odio destinato a durare ancora a lungo.
Superate le prime scaramucce con gli inglesi e ricevute sommarie istruzioni sull’uso delle armi, i profughi ebrei vengono lanciati in un’azione di guerra contro un villaggio palestinese. Sibilano pallottole. Esplodono granate. Non si riesce a capire con chiarezza chi spara e contro chi. Il regista si tiene lontano, sia da una rappresentazione naturalistica, sia dagli effetti spettacolari che caratterizzano tanti film di guerra. Qualche critico ha azzardato un paragone con Samuel Fuller (nei cui film bellici la microstoria conta più della storia), ma la mente va piuttosto al teatro epico di Brecht, trasferito nel cinema dalla coppia Straub-Huillet. Le lacerazioni interne dei combattenti (ebrei o palestinesi che siano), più dolorose delle ferite che straziano i loro corpi, sono espresse da canti e monologhi che si prolungano mentre la macchina da presa indugia su un paesaggio aspro, non ancora contaminato dalla modernità.
Il pio cantore Menachem, la cui fede ha vacillato davanti allo spettacolo terrificante dei campi di sterminio, si lancia contro il nemico recitando i versetti di un Salmo guerriero. Cadrà crivellato di colpi. Alla sua invettiva, di stampo biblico, se ne contrappone un’altra, pronunciata da un anziano palestinese cacciato dalla sua casa: «Noi non siamo organizzati come voi. Le nostre armi sono arrugginite e ognuno di noi crede di essere il comandante. Eppure rimarremo qui, malgrado voi, fermi come un muro. I nostri bambini si ribelleranno generazione dopo generazione, e la nostra radice sopravviverà».
Al termine della battaglia, l’ebreo polacco Yanush si aggira, sotto la pioggia battente, su un terreno cosparso di cadaveri. Dalle sue labbra sgorga una sorta di lamentazione, quasi una versione attualizzata di quelle che, a suo tempo, Geremia intonava sulle rovine di Gerusalemme: «Voi non potete immaginare quanto io sia contro tutto questo. Cosa significa? Provate a riflettere! Secoli di repressioni, diffamazioni, persecuzioni orribili… La nostra storia l’hanno fatta gli altri… Alcuni pensano che il modo in cui abbiamo sopportato il dolore sia coraggio. Ma che vuol dire? Non era coraggio. Era solo disperazione. Qui non ci sono né eroi, né conquistatori, ma solo un gruppo di infelici, perseguitati e pieni di lacrime, che hanno imparato soltanto a chiedere pietà. Credo che la terra di Israele non appartenga più agli ebrei, e sarà sempre più così. Il tempo ce lo dimostrerà».