a cura di V. FANTUZZI
Il suo nome è Tsotsi (Gran Bretagna – Sud Africa, 2005). Regista: GAVIN HOOD. Interpreti principali: P. Chweneyagae, T. Pheto, K. Nkosi, M. Magano, Z. Ngqobe.
Vincitore del premio Oscar 2006 come migliore film straniero, Il suo nome è Tsotsi di Gavin Hood trasporta lo spettatore in una baraccopoli ai margini di Johannesburg, in Sud Africa. Il diciannovenne Tsotsi (Presley Chweneyagae) ha cancellato ogni ricordo del passato, compreso il suo vero nome. Tsotsi infatti nel gergo del quartiere ghetto significa semplicemente gangster. Rimasto solo in tenera età, costretto a farsi strada con le unghie e con i denti, si è costruito una corazza per spegnere, dentro di sé, ogni senso di compassione. Guidato dagli impulsi primordiali, si fa forte della paura che riesce a incutere negli altri, più deboli di lui. In questo modo è diventato il capo di una banda di coetanei, disadattati come lui. Ne fanno parte Boston (Mothusi Magano), un insegnante fallito, Butcher (Zenzo Ngqobe), capace di uccidere a sangue freddo un passante per sottrargli qualche banconota, e Aap (Kenneth Nkosi), grosso e ritardato.
Una notte in cui gli alcolici scorrono a profusione nello shebeen (squallido locale che spaccia liquori senza licenza), Tsotsi è provocato da Boston, nel quale lo stato di ubriachezza provoca un acutizzarsi della passione pedagogica frustrata, con una gragnuola di domande sul suo passato. Finché l’amico si limita a chiedergli quale è il suo nome (sapremo in seguito che si chiama David) il giovane capobanda riesce a trattenere la collera, ma quando sente che l’altro tira in ballo i suoi genitori, non ci vede più, si scaglia contro Boston e con una serie di pugni micidiali lo riduce a mal partito.
Tsotsi si volta e fugge nella notte inseguito dai suoi fantasmi. Chi lo insegue è, in realtà, il piccolo David, cioè lui stesso, visto come era anni addietro, quando era fuggito di casa. Immagini surreali informano lo spettatore che la vita di Tsotsi è una fuga senza sosta. Quando si fermerà? Correndo all’impazzata il giovane gangster passa dalla bidonville a un quartiere residenziale. Piove a dirotto. Una donna sta rincasando in automobile. Per un difetto al telecomando, non riesce ad aprire il cancello che immette nel giardino. La donna scende dall’auto (una BMW argentata) per citofonare al marito. Tsotsi ne approfitta per rubarle l’automobile. La donna reagisce. Parte un colpo di pistola. Ricoverata all’ospedale, la donna se la caverà, ma dovrà trascorrere il resto della vita su una carrozzella.
Tsotsi non sa che sul sedile posteriore della vettura, che guida nel cuore della notte e con la quale va a sbattere contro il guardrail, c’è un bambino di tre mesi. Vorrebbe abbandonarlo assieme alla vettura ridotta a un rottame ma, quando si allontana, il bambino piange a squarciagola; si calma soltanto se lui gli si avvicina. Senza pensarci due volte, Tsotsi decide di portare il poppante nella sua baracca. È suo come gli oggetti rubati che gli sono passati tra le mani. Ma questa volta si tratta di un oggetto speciale. Vediamo il giovane gangster alle prese con i princìpi rudimentali della puericultura.
Tsotsi mette gli occhi su una donna, che abita in una baracca non lontano dalla sua e allatta un bambino. Dopo averla pedinata alla fontana, la segue di nascosto fino a casa e, puntandole addosso la pistola, la costringe ad allattare il bambino. Non si accorge di essersi servito della violenza per costruire l’immagine vivente di una Madonna nera che allatta un Gesù bambino dello stesso colore. La donna, giovanissima e già vedova, si chiama Miriam (Terry Pheto) e svolge alla perfezione il ruolo iconografico che il film le attribuisce.
Quell’immagine, di fronte alla quale Tsotsi pare estasiato, è per lui come un toccasana. Sente affiorare i ricordi della sua infanzia: la malattia della madre, la crudeltà del padre… Si ricorda del suo nome, che vuole trasmettere al bambino. Liquida alla sua maniera i rapporti con gli amici della banda, decide di restituire il bambino ai genitori, si avvia insomma sul cammino della redenzione. A dispetto delle scene violente, evocate in maniera esplicita, Il suo nome è Tsotsi non è un film realistico. È piuttosto un apologo, che non rifugge dagli stereotipi, ma li sa incanalare verso esiti non banali. La colonna sonora è impreziosita dall’apporto della musica kwaito, espressione originale delle comunità di colore sudafricane.