a cura di V. FANTUZZI
Il mercante di Venezia (Italia – Gran Bretagna – Lussemburgo, 2004). Regista: MICHAEL RADFORD. Interpreti principali: Al Pacino, J. Irons, J. Fiennes, L. Collins.
Il teatro elisabettiano (l’edificio in legno a forma di O, di cui parla il prologo dell’Enrico V di Shakespeare) era privo di sipario. Non c’era nessuna barriera, né effettiva né simbolica, tra attori e spettatori. Parte di questi sedevano addirittura sul palcoscenico. La presenza di una tenda-fondale, che separava il palco dal retropalco, rendeva possibile articolare scene che l’assenza di un’autentica scenografia e di sofisticati macchinari non avrebbe altrimenti consentito. Di qui l’insistente invito, da parte del prologo o del coro che si rivolgevano direttamente al pubblico, a supplire con l’immaginazione a ciò che la ristrettezza dello spazio e l’essenzialità dei mezzi scenici non consentiva di vedere: campi di battaglia coperti di soldati, distese del mare con flotte schierate, città irte di torri, giardini con fiori esotici, ravvivati da zampilli di fontane…
Le limitazioni entro le quali si è trovato ad agire hanno fatto di Shakespeare un elaboratore di copioni che, prima ancora che il cinema esistesse, sembravano invocarne la duttilità soprattutto per quanto riguarda la composizione degli spazi, con primi e primissimi piani che si attagliano ai monologhi (pronunciati da registi-attori come Laurence Olivier e Orson Welles con la voce off per suggerire l’aprirsi di spazi interni alla mente dell’uomo) e campi lunghi nei quali la messinscena può dilatarsi in soluzioni spettacolari che consentano di far vedere ciò che il testo scritto (e parlato) si limita a indicare.
Il mercante di Venezia di Michael Radford è l’ennesimo omaggio che il cinema tributa al drammaturgo inglese. Al posto della tenda-fondale del teatro a O, la Venezia vera, scenografia in natura rimasta intatta dal XVI secolo a oggi, con il suo dedalo di canali, ponti, calli e campielli. Il testo di Shakespeare, non esente da una punta di antisemitismo, dovuta all’epoca in cui vide la luce (tra il 1594 e il 1596), merita di essere riletto oggi con occhi nuovi. Radford provvede a una contestualizzazione storica pre-mettendo alle battute iniziali relative all’inspiegabile malinconia dalla quale si sente assalito il mercante Antonio (Jeremy Irons), protagonista del dramma, un’introduzione didascalica che descrive una delle tante azioni violente alle quali venivano sottoposte indiscriminatamente le comunità ebraiche che vivevano in condizione di minoranza nelle città cristiane, cosa che di tanto in tanto si ripeteva anche a Venezia.
Benché Antonio, nella sua qualità di protagonista, dia il titolo all’opera, la figura che assume maggiore rilievo nel corso del dramma è quella del suo antagonista Shylock (Al Pacino), ricco ebreo che pratica l’usura. Per aiutare l’amico Bassanio (Joseph Fiennes), che versa in difficoltà economiche, Antonio chiede in prestito a Shylock tremila ducati. L’ebreo acconsente a prestare il denaro contro un’obbligazione per la quale, se la somma non sarà pagata entro il giorno fissato, Shylock avrà diritto di prelevare una libbra di carne dal corpo di Antonio. Per giustificare questa pretesa, che a molti pare assurda, l’ebreo adduce la sua esasperazione di uomo disprezzato e umiliato a motivo della sua razza e della sua religione. «Non ha occhi un ebreo? — dice con parole diventate famose — Non ha mani, organi, membra, sensi, affetti, passioni… Non si nutre degli stessi cibi, non è ferito dalle stesse armi, non è soggetto alle stesse malattie […]? Se ci pungete, non versiamo sangue? Se ci fate il solletico non ridiamo? Se ci avvelenate, non moriamo? E se ci oltraggiate, non dobbiamo vendicarci?».
I vascelli del mercante Antonio fanno naufragio. Quando le cose stanno per prendere una brutta piega, ci penserà un giovane leguleio (novello Daniele) a evitare la catastrofe annunciata. Shylock insiste per ottenere il diritto di prelevare dal corpo del debitore insolvente la libbra di carne pattuita. L’avvocato dimostra che Shylock potrà prelevare la carne a patto che non sia versata una sola goccia di sangue. In caso contrario, pagherà con la morte l’attentato alla vita di un cristiano. L’avvocato, che agisce in qualità di deus ex machina altri non è che Porzia (Lynn Collins), giovane sposa di Bassanio, che ha scelto il sotterfugio del travestimento per correre in aiuto di chi si trova nei guai a motivo della propria generosità nei confronti di suo marito.
Il travestimento della giovane donna in uomo doveva risultare più credibile sulle tavole del teatro elisabettiano (dove i ruoli femminili erano interpretati da ragazzi travestiti) di quanto non risulti sullo schermo cinematografico. Quello che noi oggi consideriamo come realismo scenico era allora regolato da convenzioni che avevano alle spalle una tradizione consolidata. Travestire da uomo una donna interpretata da un ragazzo travestito da donna equivaleva a una doppia capriola che consentiva al teatro di manifestarsi per quello che è: sogno di un sogno, illusione di un’illusione… Per restituire questa dimensione metalinguistica, che è l’anima stessa del teatro di Shakespeare, il cinema non dovrebbe limitarsi a una messinscena accurata e diligente com’è quella alla quale si attiene Radford con un’aderenza alla lettera del testo che, per eccesso di fedeltà, rischia di comprimerne la dimensione poetica anziché dilatarla.