a cura di V. FANTUZZI
Fahrenheit 9/11 (USA, 2004). Regista: MICHAEL MOORE. Documentario.
Atto di accusa contro lo strapotere dei media asserviti al potere politico-economico, che inficia le moderne democrazie, Fahrenheit 9/11 di Michael Moore, vincitore della «palma d’oro» al festival di Cannes 2004, è a sua volta un film di propaganda politica a favore del partito democratico in vista delle prossime elezioni americane. Da qui lo sconcerto dei patiti dell’arte cinematografica che, non accettando per buone le parole di Quentin Tarantino (presidente della giuria del festival), il quale ha dichiarato che il premio al film di Moore è stato assegnato in base a criteri esclusivamente cinematografici, hanno giudicato la decisione della giuria come un atto scorretto sul piano artistico e quindi, implicitamente, anche su quello politico.
Rimanipolazione di immagini manipolate, Fahrenheit 9/11 utilizza materiale televisivo, in parte scartato dalle trasmissioni ufficiali e fornito sottobanco da cameramen compiacenti, per presentare George W. Bush come un uomo disorientato e incapace — ma sostenuto da amici potenti —, che vince le elezioni con il trucco e dichiara con l’inganno una guerra pericolosa. Il protagonista del film appare del tutto sprovvisto delle doti di un vero leader. Non è intelligente, non è spiritoso, non ha alcun carisma, non è in grado di richiamare l’attenzione. Raramente completa una frase, a meno che non stia leggendo. Non riesce quasi mai a pronunciare in modo corretto un nome o una parola che non gli siano familiari. Spesse volte appare incerto e sospeso, come in attesa di qualcuno che gli suggerisca la battuta da dire.
La mattina dell’11 settembre 2001 George W. si trova in una scuola elementare della Florida, intento a leggere sotto gli occhi delle telecamere alcune fiabe con i bambini. L’ora sovrimpressa alle immagini indica le 9 del mattino. Sono passati 15 minuti dal momento in cui il primo aereo dirottato è andato a esplodere contro la prima delle due torri gemelle. Il Presidente si intrattiene con i bambini. Il tempo passa. Dopo che la seconda torre è stata colpita, qualcuno gli si avvicina per suggerirgli all’orecchio: «Il Paese è sotto attacco». Il Presidente non reagisce. Passano lunghi minuti. La telecamera scruta il volto inespressivo del Presidente. La voce fuori campo del regista sovrappone alle immagini mute, con evidente intento manipolatorio, ipotesi sui pensieri che in quel momento avrebbero potuto passare per la mente di Bush.
Con l’intento di raccontare ciò che le televisioni addomesticate non dicono, il film passa in rassegna una serie di eventi: le elezioni «rubate» con un abile colpo di mano al candidato democratico Al Gore, le strette di mano con pericolosi talebani e potentissimi sauditi, i rapporti con la famiglia Bin Laden (25 componenti della quale, presenti negli Stati Uniti l’11 settembre, sarebbero stati messi in condizione di lasciare il Paese prima che l’FBI potesse interrogarli). Le lunghe e oziose vacanze del Presidente alla vigilia degli attentati strappano qualche sorriso ironico agli spettatori, ma il sorriso si trasforma in una smorfia imbarazzata quando si vede George W. che, dopo aver convocato i giornalisti su un campo da golf, dichiara: «Dobbiamo farla finita con il terrorismo una volta per tutte…». Giusto il tempo di assestare un colpo alla pallina, e il Presidente prosegue senza batter ciglio: «Guardate che tiro!».
Il documentario cambia tono quando passa a parlare della guerra. Gli affari della società Carlyle, legata alla Difesa, alla Sicurezza e alle forniture dell’Esercito, sono in America un argomento tabù come lo sono le bare dei soldati morti, delle quali giornali e televisione non mostrano mai le immagini. Fahrenheit 9/11 indugia sui metodi adottati per il reclutamento dei marines, giovanotti per lo più di colore insidiati dalla disoccupazione e dalla povertà, ai quali la propaganda promette denaro e perfino fama canora e televisiva se entreranno nell’esercito per andare «a portare la democrazia». Seguiamo quegli stessi ragazzi in Iraq. Li vediamo chiudersi nei carri armati prima di correre lungo strade devastate e ostili riempiendosi le orecchie di musica rock che ricevono in cuffia sotto l’elmetto.
La macchina da presa sosta in retrovie dove scorre il sangue: corpi straziati di donne e bambini che nessuno aveva mai visto prima. A Flint, cittadina del Michigan dove Moore è nato, facciamo conoscenza con la mamma di un soldato (Lila Lipscomb), che proclama tutta la sua fierezza di «democratica conservatrice» sapendo che suo figlio in Medio Oriente tiene alti i valori della Civiltà Occidentale. Il disinganno giunge, poco dopo, con la notizia della morte del figlio e con la sua ultima straziante lettera che la madre legge trattenendo le lacrime. A Washington, davanti alla Casa Bianca, Lila esprime il suo inascoltato dolore. «È tutta una messinscena», grida qualcuno che passa per strada. «Non è vero — replica Lila guardando dallo schermo gli spettatori del film —. Questa non è una messinscena. Mio figlio è morto veramente».