a cura di V. FANTUZZI
Acque silenziose (Francia – Germania – Pakistan, 2003). Regista: SABIHA SUMAR. Interpreti principali: K. Kher, A. A. Malik, A. Mahmud, S. Shahid, S. Shukla, S. Ansari.
La regista quarantaquattrenne Sabiha Sumar, nata in Pakistan, ha studiato cinema a New York ed è tornata nel suo Paese di origine per girare un film, Acque silenziose, che, avendo vinto il «pardo d’oro» al festival di Locarno nel 2003, giunge sugli schermi italiani dopo due anni. Il film sarebbe piaciuto a Roberto Rossellini, propugnatore di un «cinema utile» e indagatore a suo tempo degli usi e costumi del subcontinente indiano con una pellicola intitolata India (1959), che univa i pregi del documentario a quello dell’apologo, con l’intento di rendere i «misteri» dell’Oriente accessibili alla mentalità razionalistica dell’uomo occidentale.
Il cinema, nel confronto con altri mezzi di comunicazione, ha il vantaggio di poter immergere lo spettatore all’interno di un mondo lontano, ma reale, e di fargliene percepire i sapori e gli odori, prima ancora che la sua mente cominci a riflettere sul significato delle immagini che gli passano davanti agli occhi. Acque silenziose trasporta lo spettatore a Chaudry, un villaggio del Punjab, e gli consente di percorrerne le strade polverose, dove si affacciano botteghe artigiane e si addensano le bancarelle del mercato, di penetrare nell’intimità delle case, i cui recessi ombrosi sono completati da cortili, dove si svolge all’aperto la maggior parte della vita domestica.
Al centro del film si trovano due figure: una madre (Ayesha, interpretata dalla brava attrice Kiron Kher, che ha vinto un premio a Locarno) e un figlio (il diciottenne Saleem). Soffrono entrambi per la perdita del rispettivo marito e padre. Ayesha, che fa la sarta, lavora per mandare avanti la famiglia. Saleem, sfaticato e innamorato di una ragazza più attiva e intraprendente di lui, avrebbe bisogno di un padre che lo raddrizzi un po’, avviandolo verso quella assunzione di responsabilità nei confronti della quale si mostra riluttante.
L’azione si svolge nel 1979, anno cruciale nella tormentata storia del Pakistan. Il generale Zia ul-Haq, salito al potere due anni prima con un colpo di Stato militare, ha fatto imprigionare e condannare a morte il deposto presidente Z. A. Bhutto. Ha inizio, per ordine di Zia, un processo di islamizzazione del Paese con l’introduzione di leggi penali e misure economiche conformi al diritto islamico. Nel bel mezzo di una festa nuziale, allietata da canti e danze che ripropongono le antiche usanze della comunità musulmana, giungono a Chaudry due barbuti attivisti, che hanno studiato nelle scuole coraniche di Lahore, le famose madrassas, dalle quali usciranno i taleban che faranno parlare di sé nei decenni successivi.
Il giovane Saleem si lascia irretire dai propugnatori del rinnovamento islamico su basi fondamentaliste. Intuisce che, per un ragazzo come lui, senza arte né parte, l’impegno politico-religioso rappresenta una possibilità di affermazione, che non richiede una grande fatica. Litiga con la fidanzata, che ha scelto un’altra strada e non condivide le sue prese di posizione. Il vero dramma, destinato a sfociare in tragedia, scoppia tra Saleem e la madre. Fa da detonatore un pellegrinaggio di sikh, che, dopo 32 anni dalla separazione del Pakistan dall’India, hanno ottenuto il permesso di tornare a visitare i luoghi sacri della loro religione.
Ayesha nasconde nel cuore un doloroso segreto, che affiora progressivamente nel film mediante una serie di flash back, prima sfocati, poi sempre più nitidi, relativi a fatti accaduti nel 1947, quando il Pakistan nacque come dominion indipendente (al pari dell’Unione Indiana) nell’ambito del Com-monwealth. La divisione per etnia e religione tra i due Paesi comportò trasferimenti in massa da una parte e dall’altra dei rispettivi confini, accompagnati da eccidi, dei quali fecero le spese soprattutto le donne. Si calcola che 50.000 donne musulmane furono rapite, violate o uccise in India, mentre 33.000 indù e sikh subirono sorte analoga in Pakistan.
Sfuggita alla morte impostale dal padre, salvata e sposata da un musulmano, Ayesha, nata in una famiglia sikh, ha avuto più fortuna di tante altre donne, comprese sua madre e sua sorella. Ha cambiato nome e religione. Crede in un Dio misericordioso che ama indistintamente tutti gli uomini. Ma non riesce a dimenticare. Suo fratello che, in occasione del pellegrinaggio, torna nei luoghi dai quali è fuggito bambino, tenta di convincerla a recarsi presso il padre morente. Ma la risposta è no. La ferita non si è rimarginata. Il comportamento del figlio rende insostenibile la già difficile situazione della madre, la quale si toglie la vita. Questo film, che rifugge da ogni consolazione illusoria, è un atto di accusa contro il fanatismo religioso da qualunque parte provenga.