|
Martedì 16 gennaio 2018, alla fine del primo giorno pieno del suo viaggio apostolico in Cile e Perù, papa Francesco ha incontrato, intorno alle 19,00, novanta gesuiti cileni nel «Centro Hurtado» di Santiago. Giunto sul luogo, ha potuto vedere la riproduzione di un furgoncino verde, marca Ford, con cui il gesuita sant’Alberto Hurtado portava aiuto agli emarginati della città: un vero simbolo di passione apostolica. Il Papa è stato accompagnato dal provinciale, p. Cristián del Campo, nella cappella che conserva le spoglie del Santo. Inaugurato nel 1995, il santuario ne custodisce la tomba, un sarcofago in pietra contenente zolle di terra di ogni regione del Cile, così da simboleggiare l’abbraccio di tutti i fedeli del Paese. Il padre Provinciale ha salutato il Papa a nome di tutti i gesuiti – tra i quali si notavano molti giovani – e gli ha chiesto: «Come si trova in Cile e come ha percepito l’accoglienza nel Paese?». L’incontro è stato da subito molto familiare e caloroso. P. del Campo ha presentato due tra i presenti, i padri Carlos e José Aldunate, fratelli di sangue, che hanno compiuto l’uno 101 e l’altro 100 anni.
Segue il testo della conversazione trascritto e approvato in questa forma per la pubblicazione dallo stesso Pontefice.
Antonio Spadaro S.I.
Francesco ha esordito con queste parole:
Sono contento di vedere padre Carlos! È stato il mio direttore spirituale nel 1960, nel mio juniorato. José era il maestro dei novizi, poi lo fecero provinciale. Carlos era bidello ed era… il re del buon senso! Riusciva a dare consigli spirituali davvero con grande buon senso. Ricordo che una volta andai da lui perché ero molto arrabbiato con una persona. Volevo affrontarla a tu per tu e rimproverarla. Lui mi disse: «Calmati! Davvero vuoi rompere con lui subito? Prova altre vie…». Non ho mai dimenticato questo consiglio, e lo ringrazio adesso per questo. Sì, in Cile mi sono sentito subito bene. Sono arrivato ieri. Nel percorso di oggi sono stato accolto molto bene. Ho visto molti gesti di grande affetto. Adesso chiedetemi quello che volete.
Si fa avanti un gesuita: «Vorrei domandarle quali sono stati le grandi gioie e i grandi dispiaceri che lei ha avuto durante il suo pontificato».
Questo del pontificato è un periodo piuttosto tranquillo. Dal momento in cui in Conclave mi sono reso conto di quello che stava per succedere – una sorpresa istantanea per me –, ho provato molta pace. E fino ad oggi quella pace non mi ha lasciato. È un dono del Signore, di cui sono grato. E davvero spero che non me lo tolga. È una pace che sento come un puro dono, un puro dono. Le cose che non mi tolgono la pace, ma sì mi addolorano, sono i pettegolezzi. E a me i pettegolezzi dispiacciono, mi rattristano. Accade spesso nei mondi chiusi. Quando questo accade in un contesto di sacerdoti o di religiosi, a me viene da chiedere alle persone: ma come è possibile? Tu che hai lasciato tutto, hai deciso di non avere accanto una donna, non ti sei sposato, non hai avuto figli… vuoi finire come uno scapolone pettegolo? Oh, mio Dio, che vita triste!
Un gesuita della provincia argentino-uruguayana chiede: «Quali resistenze ha incontrato durante questo tempo di pontificato e come le ha vissute? Ha fatto discernimento?».
Davanti alla difficoltà non dico mai che è una «resistenza», perché significherebbe rinunciare a discernere, cosa che invece voglio fare. È facile dire che c’è resistenza e non rendersi conto che in quel contrasto può esserci anche un briciolo di verità. E dunque io mi faccio aiutare dai contrasti. Spesso domando a una persona: «Che cosa ne pensa?». Questo mi aiuta anche a relativizzare molte cose che, a prima vista, sembrano resistenze, ma in realtà è una reazione che nasce da un fraintendimento, dal fatto che alcune cose bisogna ripeterle, spiegarle meglio… Può essere un mio difetto il fatto che a volte considero scontate alcune cose o faccio qualche salto logico senza spiegare bene il processo, perché sono convinto che l’altro abbia capito al volo il ragionamento che faccio. Mi rendo conto che, se torno indietro e spiego meglio, allora a quel punto l’altro dice: «Ah, sì, d’accordo…». Insomma, mi è molto d’aiuto esaminare bene il significato dei contrasti. Quando invece mi rendo conto che c’è vera resistenza, certo, mi dispiace. Alcuni mi dicono che è normale che ci sia resistenza quando qualcuno vuol fare dei cambiamenti. Il famoso «si è sempre fatto così» regna dappertutto: «Se si è sempre fatto così, perché dovremmo cambiare? Se le cose stanno così, se si è sempre fatto così, perché fare in maniera diversa?». Questa è una grande tentazione che tutti abbiamo vissuto. Ad esempio, l’abbiamo vissuta tutti nel post-Concilio. Le resistenze dopo il Concilio Vaticano II, che sono tuttora presenti, hanno questo significato: relativizzare il Concilio, annacquare il Concilio. Mi dispiace ancora di più quando qualcuno si arruola in una campagna di resistenza. E purtroppo vedo anche questo. Tu mi hai domandato delle resistenze, e non posso negare che ce ne siano, dunque. Le vedo e le conosco.
Ci sono le resistenze dottrinali, che voi conoscete meglio di me. Per salute mentale io non leggo i siti internet di questa cosiddetta «resistenza». So chi sono, conosco i gruppi, ma non li leggo, semplicemente per mia salute mentale. Se c’è qualcosa di molto serio, me ne informano perché io lo sappia. Voi li conoscete… È un dispiacere, ma bisogna andare avanti. Gli storici dicono che ci vuole un secolo prima che un Concilio metta radici. Siamo a metà strada.
A volte ci si domanda: ma quell’uomo, quella donna, ha letto il Concilio? E ci sono persone che il Concilio non l’hanno letto. E se l’hanno letto, non l’hanno capito. A distanza di cinquant’anni! Noi abbiamo studiato filosofia prima del Concilio, ma abbiamo avuto il vantaggio di studiare teologia dopo. Abbiamo vissuto il cambio di prospettiva, e c’erano già i documenti conciliari.
Quando percepisco resistenze, cerco di dialogare, quando il dialogo è possibile; ma alcune resistenze vengono da persone che credono di possedere la vera dottrina e ti accusano di essere eretico. Quando in queste persone, per quel che dicono o scrivono, non trovo bontà spirituale, io semplicemente prego per loro. Provo dispiacere, ma non mi soffermo su questo sentimento per igiene mentale.
A seguire, la domanda di un novizio: «Molti sono d’accordo nell’identificare la Chiesa con i vescovi e i sacerdoti, e sono molto critici con alcuni di loro per come vivono la povertà, per le restrizioni alla partecipazione delle donne e il limitato spazio dato alle minoranze… Di fronte a questa opinione, che cosa ci propone per avvicinare la Chiesa gerarchica, di cui facciamo parte, alle persone?».
Ho appena detto ai vescovi che cosa penso della relazione tra vescovo e popolo di Dio. E quindi quello che penso sui vescovi è in quel discorso, molto breve, visto che abbiamo avuto due lunghi incontri l’anno scorso nella visita ad limina. Il danno più grave che può subire oggi la Chiesa in America Latina è il clericalismo, cioè il non rendersi conto che la Chiesa è tutto il santo popolo fedele di Dio, che è infallibile in credendo, tutti insieme. Parlo dell’America Latina, perché è quella che conosco meglio.
Tempo fa ho scritto una lettera alla Pontificia Commissione per l’America Latina, e oggi sono tornato sull’argomento. Bisogna rendersi conto che la grazia della missionarietà è insita nel battesimo, non nell’Ordine sacro o nei voti religiosi.
Consola vedere che ci sono molti sacerdoti, religiosi, religiose che si mettono totalmente in gioco, cioè con quell’opzione conciliare di mettersi al servizio del popolo di Dio. Ma quell’atteggiamento principesco resiste in alcuni. Si deve dare al popolo di Dio lo spazio che è suo.
E possiamo pensare lo stesso sul tema della donna. Ho avuto un’esperienza singolare da vescovo di una diocesi: bisognava trattare un certo tema, e si era avviata una consultazione – ovviamente solo tra preti e vescovi – e avevamo fatto una riflessione che ci portava a una serie di questioni sulle quali prendere una decisione. Però la stessa cosa, trattata in una riunione congiunta di uomini e donne, ha portato a conclusioni molto più ricche, molto più praticabili, molto più feconde. È una mia semplice esperienza che mi viene in mente adesso, ma che mi fa riflettere. La donna deve dare alla Chiesa tutta quella ricchezza che von Balthasar chiamava «la dimensione mariana». Senza questa dimensione la Chiesa resta zoppa o deve usare le stampelle, e allora cammina male. E credo che ci sia molto da camminare… E, ripeto, come ho detto oggi ai vescovi: deprincipare, stare vicini alla gente…
Juan Díaz prende la parola e il Papa lo riconosce…
Juanito!
Dopo un saluto affettuoso, il p. Díaz prosegue: «Francesco, in diverse occasioni e nella “Evangelii gaudium” ci hai messo in guardia dal pericolo della mondanità. In quali aspetti della nostra vita di gesuiti dovremmo stare attenti a non cadere in questa tentazione della mondanità?».
L’allarme sulla mondanità me l’ha fatto scattare l’ultimo capitolo delle Meditazioni sulla Chiesa di Henri de Lubac. Cita un benedettino, dom Anscar Vonier, che parla della mondanità come del peggior male che possa capitare alla Chiesa. Questa cosa mi ha risvegliato il desiderio di capire che cosa sia la mondanità. Certo, sant’Ignazio ne parla negli Esercizi, nel terzo esercizio della prima settimana, là dove chiede di scoprire gli inganni del mondo. Il tema della mondanità è nella nostra spiritualità di gesuiti. Le tre grazie che chiediamo in quella meditazione sono il pentimento dei peccati, cioè il dolore dei peccati, la vergogna e la conoscenza del mondo, del demonio e delle sue cose. Pertanto, nella nostra spiritualità la mondanità è da tenere presente e considerare come una tentazione.
Sarebbe superficiale affermare che la mondanità è condurre una vita troppo rilassata e frivola. Queste sono solamente conseguenze. Mondanità è usare i criteri del mondo e seguire i criteri del mondo e scegliere secondo i criteri del mondo. Significa fare discernimento e preferire i criteri del mondo. Pertanto, quello che dobbiamo chiederci è quali sono questi criteri del mondo. E questo è proprio ciò che sant’Ignazio fa chiedere in quel terzo esercizio. E fa fare tre richieste: al Padre, al Signore e alla Vergine, perché ci aiutino a scoprire questi criteri. Ciascuno, dunque, deve mettersi a cercare che cosa nella propria vita è mondano. Non basta una risposta semplice e generale. In che cosa sono mondano io? Questa è la vera domanda. Non basta dire che cos’è la mondanità in generale. Per esempio, non so, un professore di teologia può rendersi mondano se va alla ricerca dell’ultima pensata per essere sempre alla moda: questo è mondano. Ma gli esempi possono essere mille. E bisogna chiedere al Signore di non essere ingannati cercando di discernere quale sia la propria mondanità.
Segue un’altra domanda: «Santo Padre, lei è stato un uomo di riforme. In quali riforme, a parte quella della Curia e della Chiesa, noi come gesuiti possiamo appoggiarla meglio?».
Credo che una delle cose di cui la Chiesa oggi ha più bisogno, e questa cosa è molto chiara nelle prospettive e negli obiettivi pastorali dell’ Amoris laetitia, è il discernimento. Noi siamo abituati al «si può o non si può». La morale usata nell’ Amoris laetitia è la più classica morale tomista, quella di san Tommaso, non del tomismo decadente come quello che alcuni hanno studiato. Ho ricevuto anch’io, nella mia formazione, la maniera del pensare «si può o non si può», «fin qui si può, fin qui non si può». Non so se ti ricordi [e qui il Papa guarda uno dei presenti] di quel gesuita colombiano che venne a insegnarci morale al «Collegio Massimo»; quando si venne a parlare del sesto comandamento, uno si azzardò a fare la domanda: «I fidanzati possono baciarsi?». Se potevano baciarsi! Capite? E lui disse: «Sì, che lo possono! Non c’è problema! Basta però che mettano in mezzo un fazzoletto». Questa è una forma mentis del fare teologia in generale. Una forma mentis basata sul limite. E ce ne portiamo addosso le conseguenze.
Se date un’occhiata al panorama delle reazioni suscitate dall’ Amoris laetitia, vedrete che le critiche più forti fatte contro l’Esortazione sono sull’ottavo capitolo: un divorziato «può o non può fare la Comunione?». E invece l’ Amoris laetitia va in una direzione completamente diversa, non entra in queste distinzioni e pone il problema del discernimento. Che era già alla base della morale tomista classica, grande, vera. Allora il contributo che vorrei dalla Compagnia è di aiutare la Chiesa a crescere nel discernimento. Oggi la Chiesa ha bisogno di crescere nel discernimento. E a noi il Signore ha dato questa grazia di famiglia di discernere. Non so se lo sapete, ma è una cosa che ho già detto in altre riunioni come questa con gesuiti: alla fine del generalato di p. Ledóchowski, l’opera culmine della spiritualità della Compagnia è stata l’Epitome. In essa quello che voi dovevate fare era tutto regolamentato, in un enorme miscuglio tra la Formula dell’Istituto, le Costituzioni e le regole. C’erano perfino le regole del cuoco. Ed era tutto mescolato, senza gerarchizzazione. P. Ledóchowski era molto amico dell’abate generale dei benedettini, e una volta che andò a fargli visita, gli portò quello scritto. Poco tempo dopo, l’abate lo cercò e gli disse: «Padre generale, con questo lei ha ammazzato la Compagnia di Gesù». E aveva ragione, perché l’Epitome toglieva qualsiasi capacità di discernimento.
Poi è venuta la guerra. Il p. Janssens ha dovuto guidare la Compagnia nel dopoguerra, e l’ha fatto bene, come poteva, perché non era facile. E poi è venuta la grazia del generalato di p. Arrupe. Pedro Arrupe con il Centro ignaziano di spiritualità, la rivista Christus e l’impulso dato agli Esercizi spirituali ha rinnovato questa grazia di famiglia che è il discernimento. Ha superato l’Epitome, è tornato alla lezione dei padri, a Favre, a Ignazio. In questo va riconosciuto il ruolo della rivista Christus a quel tempo. E poi anche il ruolo del p. Luis González con il suo Centro di spiritualità: è andato in giro per tutta la Compagnia a dare Esercizi spirituali. Andavano aprendo le porte, rinfrescando questo aspetto che oggi vediamo che è cresciuto molto nella Compagnia. Ti direi, ricordando questa storia di famiglia, che c’è stato un momento in cui avevamo perduto – o non so se l’avessimo perduto, diciamo che non si usava molto – il senso del discernimento. Oggi datelo – diamolo! – alla Chiesa, che ne ha tanto bisogno.
L’ultima domanda è di un teologo della provincia del Perù: «Una domanda sulla collaborazione: quale aiuto le sta dando la Compagnia durante il suo pontificato, in che modo c’è stata collaborazione, come sono stati i suoi rapporti con la Compagnia?».
Fin dal secondo giorno dopo l’elezione! P. Adolfo Nicolás è venuto nella mia camera a Santa Marta… La collaborazione è cominciata così. Venne a salutarmi, abitavo ancora nella stanzetta che mi era toccata durante il Conclave, non quella che ho adesso, e là abbiamo conversato. E i generali, entrambi, Adolfo e adesso Arturo, entrambi hanno puntato molto su questo. Credo che su questo punto… c’è qui p. Spadaro…
Spadaro: «Sono qua».
Eccolo nel loggione… Credo che lui sia stato testimone fin dal primo momento di questa relazione con la Compagnia. La disponibilità è totale. E poi con intelligenza, come per esempio sulla dottrina della fede: davvero un grande appoggio. Ma nessuno può accusare il pontificato attuale di «gesuitismo». Lo dico, e credo di essere sincero nel dirlo. Si tratta di una collaborazione ecclesiale, nello spirito ecclesiale. È un sentire con la Chiesa e nella Chiesa, nel rispetto del carisma della Compagnia. E i documenti dell’ultima Congregazione Generale non hanno avuto bisogno dell’approvazione pontificia. Io non l’ho ritenuta affatto necessaria, perché la Compagnia è adulta. E se fa uno sbaglio… arriverà una lamentela e poi si vedrà. Credo sia questa la maniera di collaborare.
Bene, vi ringrazio molto… e voglio dirvi però ancora una cosa importantissima, una raccomandazione: il rendiconto di coscienza! Per i gesuiti è una gemma, una grazia di famiglia… Per favore, non trascuratelo!
L’incontro privato si è naturalmente aperto nella spianata del santuario, dove erano presenti un gruppo di persone che beneficiano dei programmi di solidarietà della chiesa, rappresentanti di lavoratori, studenti, anziani, persone che vivono in strada e migranti. Nel suo saluto, il cappellano generale dell’«Hogar de Cristo», il gesuita p. Pablo Walker, ha detto: «Caro papa Francesco, il tavolo è pronto e ti diamo il benvenuto con calore. Anni fa ti abbiamo invitato a bere con noi, e oggi è arrivato quel giorno». Ricordando che «mangiare è un miracolo», il cappellano ha chiesto al Papa di benedire le «sopaipillas» preparate dalla signora Sonia Castro e da sua figlia Isabella Reinal. Il Papa ha pronunciato la preghiera di benedizione: «Il Signore benedica questo cibo che stiamo condividendo, che è stato fatto da voi stessi; benedica le mani che l’hanno fatto, le mani che lo distribuiscono e le mani che lo ricevono. Che il Signore benedica i cuori di tutti noi, e che questa condivisione ci insegni anche a condividere il cammino, a condividere la vita, e poi a condividere il paradiso. Amen». Ha quindi mangiato con i presenti una «sopaipilla». Dopo aver ricevuto in dono una Bibbia del Popolo di Dio e aver offerto al Santuario un quadro di Gesù Misericordioso, dipinto da Terezia Sedlakova, il Papa ha recitato con tutti i partecipanti il Padre Nostro. Poi ha impartito la sua benedizione.
* * *
Alla fine del suo primo giorno intero in Perù, il 19 gennaio 2018, dopo la visita di cortesia al presidente Pablo Kuczynski, il Papa si è recato presso la chiesa di San Pedro, retta dai padri gesuiti. La chiesa è stata edificata a partire dal XVI secolo dalla Compagnia di Gesù ed è considerata uno dei più importanti complessi religiosi del Centro storico di Lima. Essa è anche il Santuario nazionale del Sacro Cuore di Gesù. La pianta evoca quella della chiesa del Gesù di Roma. La facciata è in stile neoclassico e presenta tre porte di accesso. Imponenti i campanili. L’ interno è riccamente decorato in stile barocco e ben illuminato dalla luce solare. Sulle tre navate si affacciano dieci cappelle. San Pedro è ritenuta una delle chiese più belle del Perù.
Francesco è stato accolto dal provinciale, p. Juan Carlos Morante, e dal superiore locale, p. José Enrique Rodríguez, all’ingresso della cappella della Penitenzieria. Attraversando la navata sinistra della chiesa, il Papa è arrivato nella sagrestia, dove erano riuniti circa 100 gesuiti. Il p. Morante ha ringraziato Francesco per la sua visita e ha parlato dell’impegno della Compagnia per l’evangelizzazione dei popoli originari, per l’educazione, citando i padri Alonso de Barzana (1528-1598), Francisco del Castillo (1615-1673), Antonio Ruiz de Montoya (1585-1652) e altri. Ha parlato delle nuove prospettive a partire dal Concilio Vaticano II e delle nuove sfide: l’opzione preferenziale per i poveri, gli Esercizi spirituali, la collaborazione con i laici e le nuove sfide apostoliche, che richiedono un nuovo discernimento apostolico. Quindi ha preso la parola il Papa. Il testo della conversazione qui trascritta è stato approvato in questa forma per la pubblicazione dal Pontefice.
Francesco ha salutato i presenti così:
Buonasera… Grazie. Cominciamo a conversare per non perdere tempo. Avete preparato alcune domande… in tutta libertà…
Ecco la prima domanda: «Noi gesuiti peruviani, da sempre, specialmente ai nostri tempi siamo impegnati con i temi della riconciliazione e della giustizia. Adesso sembra che le forze politiche giungano a un accordo all’improvviso, e la riconciliazione appare come un appello a tutti. Ci si propone una riconciliazione senza che ci sia stato un processo. La mia domanda è: quale atteggiamento assumere, di quali elementi tener conto quando vogliamo una riconciliazione? Sentiamo che la parola “riconciliazione” viene manipolata, e sentiamo che si propone una giustizia che non è stata ben elaborata. Lei che ne pensa?».
Grazie. La parola «riconciliazione» non è soltanto manipolata: è bruciata. Oggi – e non soltanto qui, ma anche in altri Paesi dell’America Latina – la parola «riconciliazione» è stata svigorita. Quando san Paolo descrive la riconciliazione di tutti noi con Dio, in Cristo, intende usare una parola forte. Oggi invece «riconciliazione» è diventata una parola di cartone. L’hanno fiaccata. L’hanno indebolita, non soltanto nel contenuto religioso, ma nel contenuto umano, quello che si condivide quando ci si guarda negli occhi. Oggi invece si tratta sottobanco.
Direi che non bisogna accettare queste acrobazie, ma nemmeno remare contro. Bisogna dire a quanti l’adoperano indebolita: usatela voi, ma noi non la useremo, perché oggi è bruciata. Ma bisogna continuare a lavorare, dunque, cercando di riconciliare le persone. Dal basso, dai fianchi, con una buona parola, con una visita, con un corso che aiuti a capire, con l’arma della preghiera, che ci darà la forza e farà miracoli, ma soprattutto con l’arma umana della persuasione, che è umile. La persuasione agisce così: con umiltà.
Io suggerisco questo: andare a trovare l’avversario, mettersi davanti all’altro, se c’è l’opportunità… La persuasione! Sulla riconciliazione che oggi si propone: non voglio toccare a fondo e nel dettaglio il problema peruviano, perché non lo conosco, ma mi fido delle tue parole, e dato che, come ti dicevo, questo fenomeno accade anche in altri Paesi dell’America Latina, posso dirti che non si tratta di una vera riconciliazione profonda, ma di un negoziato. Va bene: l’arte della guida politica implica anche la capacità di negoziare. Il problema però riguarda che cosa si negozia quando si negozia. Se tu nel mucchio delle cose che porti al negoziato metti anche i tuoi interessi personali, allora è finita… Non possiamo parlare neanche di un negoziato. È un’altra cosa…
Allora, invece che di «riconciliazione», è meglio parlare di «speranza». Cercate una parola che non sia un cavallo di battaglia meschino, usato senza il suo pieno significato. Voglio ripeterlo: non conosco nel dettaglio la situazione del Perù, mi fido delle tue parole, ma è un fenomeno di vari Paesi dell’America Latina, per questo posso dire quello che dico.
Segue questa domanda: «Santo Padre, la nostra provincia è andata riducendosi nei numeri, ci sono persone che invecchiano, ci sono giovani che vanno assumendo nuove responsabilità… Abbiamo ancora molte istituzioni. La situazione non è delle più facili… Come ci può incoraggiare, come ci può invitare a continuare a rafforzare la nostra vocazione di seguire Gesù, di vivere nella Compagnia di Gesù in queste circostanze che a volte possono sembrarci scoraggianti? Come fare per non amareggiarci, per non risentirci, ma invece per cercare di vivere queste circostanze con gioia? Che cosa dire a coloro che vanno invecchiando negli anni e vedono che dietro di loro ci sono meno persone, che non potranno continuare a seguire quello che c’era prima con le stesse forze? Che cosa dire ai più giovani che trovano situazioni di difficoltà attorno a loro?».
Hai detto che abbiamo parecchie «istituzioni». Mi permetto di correggere la parola: abbiamo parecchie «opere». E bisogna distinguere tra opere e istituzioni. L’aspetto istituzionale nella Compagnia è essenziale. Ma non tutte le opere sono istituzioni. Forse lo sono state, ma il tempo ha fatto sì che smettessero di essere istituzioni. Bisogna discernere tra quello che oggi è istituzione – che attrae, che ti dà forza, che promette, che è profetico –, e quello che è invece un’opera che, sì, è stata un’istituzione a suo tempo, ma che adesso sembra aver smesso di esserlo. E va fatto quello che si fa sempre: un discernimento pastorale e comunitario.
Arrupe insisteva su questo. Bisogna scegliere le opere con questo criterio: che siano istituzioni, nel senso ignaziano della parola, vale a dire che attraggano persone, che diano risposta alle esigenze di oggi. E questo richiede che la comunità si metta in stato di discernimento. E forse è questa la vostra sfida… Considerando questa diminuzione di giovani e di forze, si potrebbe entrare in desolazione istituzionale. No, non ve lo potete permettere. La Compagnia ha attraversato un momento di desolazione istituzionale durante il generalato di p. Ricci, che finì prigioniero a Castel Sant’Angelo[1]. Le lettere che p. Ricci scrisse alla Compagnia in quel periodo sono una meraviglia di criteri di discernimento, di criteri di azione per non lasciarsi risucchiare dalla desolazione istituzionale. La desolazione ti tira verso il basso, è una coperta fradicia che ti tirano addosso per vedere come te la cavi, e ti porta all’amarezza, al disinganno. È il discorso post-trionfalista di Emmaus: «Noi speravamo…», che facciamo anche noi, per esempio, quando usiamo espressioni come «la gloriosa Compagnia era un’altra cosa», «la cavalleria leggera della Chiesa… ora invece…». E così via.
Lo spirito di desolazione lascia segni profondi. Vi consiglio di leggere le lettere di p. Ricci. Più tardi p. Roothaan[2] ha attraversato un altro periodo di desolazione della Compagnia a motivo della massoneria, ma non così forte come quella di p. Ricci, che invece è culminata nella soppressione. E ci sono stati altri periodi così nella storia della Compagnia.
D’altra parte, bisogna cercare i padri, i padri dell’istituzionalizzazione della Compagnia: ovviamente Ignazio, Favre… Qui possiamo parlare di p. Barzana[3]. Io sono rimasto affascinato da Barzana: quando era a Santiago del Estero, in Argentina, parlava dodici lingue indigene. Lo chiamavano «il Francesco Saverio delle Indie Occidentali». E quell’uomo, lì, nel deserto, seminò la fede, ha fondato la fede. Dicono che era di origini ebraiche e che il suo nome era Bar Shana. Fa bene guardare a questi uomini che sono stati capaci di istituzionalizzare, e che non si sono lasciati scoraggiare. Io mi domando se Saverio, davanti al fallimento di vedere la Cina senza poterci entrare, fosse desolato. No, io immagino che egli si sia rivolto al Signore, dicendo: «Tu non lo vuoi, quindi ciao, va bene così». Ha scelto di seguire la strada che gli veniva proposta, e in quel caso era la morte!… Ma va bene!
La desolazione: non dobbiamo lasciare che entri in gioco. Anzi, dobbiamo cercare i gesuiti consolati. Non so, non voglio dare un consiglio, ma… cercate sempre la consolazione. Cercatela sempre. Come pietra di paragone del vostro stato spirituale.
Come Saverio alle porte della Cina, guardate sempre avanti… Sa Dio! Ma il sorriso del cuore non si deve appannare. Non so, non mi viene da darti ricette. Ci vuole il discernimento dei ministeri e dell’aspetto istituzionale in un clima di consolazione. Leggete le lettere di p. Lorenzo Ricci, dunque. È una meraviglia come egli abbia voluto scegliere la consolazione nel momento di maggiore desolazione che la Compagna abbia avuto, quando sapeva che le corti europee stavano per dare il colpo di grazia alla Compagnia.
«Vorrei che ci dicesse qualche parola su un tema che provoca molta desolazione nella Chiesa, e in modo speciale tra i religiosi e nel clero, cioè il tema degli abusi sessuali. Siamo molto segnati da questi scandali. Che cosa può dirci a questo riguardo? Una parola di incoraggiamento…».
Ieri ne ho parlato ai sacerdoti, ai religiosi e alle religiose cileni nella cattedrale di Santiago. È la desolazione più grande che la Chiesa sta subendo. Questo ci spinge alla vergogna, ma bisogna pure ricordare che la vergogna è anche una grazia molto ignaziana, una grazia che sant’Ignazio ci fa chiedere nei tre colloqui della prima settimana. E quindi prendiamola come grazia e vergogniamoci profondamente. Dobbiamo amare una Chiesa con le piaghe. Molte piaghe…
Ti racconto un fatto. Il 24 marzo, in Argentina è la memoria del colpo di Stato militare, della dittatura, dei desaparecidos… e ogni 24 marzo la Plaza de Mayo si riempie per ricordarlo. In uno di quei 24 marzo sono uscito dall’arcivescovado e sono andato a confessare le monache carmelitane. Al ritorno, ho preso la metropolitana, e sono sceso non a Plaza de Mayo, ma sei isolati più in là. La piazza era piena… e ho percorso quegli isolati per entrare dal lato. Mentre stavo per attraversare la strada, c’era una coppia con un bambino di due o tre anni, più o meno, e il bambino correva avanti. Il papà gli ha detto: «Vieni, vieni, vieni qua… Attento ai pedofili!». Che vergogna ho provato! Che vergogna! Non si sono resi conto che ero l’arcivescovo, ero un prete e… che vergogna!
A volte si tirano fuori «premi di consolazione», e qualcuno perfino dice: «D’accordo, guarda le statistiche… il… non so… 70% dei pedofili si trova nell’ambito familiare, dei conoscenti. Poi nelle palestre, nelle piscine. La percentuale dei pedofili che sono preti cattolici non raggiunge il 2%, è dell’1,6%. Non è poi tanto…». Ma è terribile anche se fosse uno soltanto di questi nostri fratelli! Perché Dio l’ha unto per santificare i bambini e i grandi, e lui, invece di santificarli, li ha distrutti. È orribile! Bisogna ascoltare che cosa prova un abusato o un’abusata! Di venerdì – a volte lo si sa e a volte non lo si sa – mi incontro abitualmente con alcuni di loro. In Cile pure ho avuto un incontro. Siccome il loro processo è durissimo, restano annientati. Annientati!
Per la Chiesa è una grande umiliazione. Mostra non soltanto la nostra fragilità, ma anche, diciamolo chiaramente, il nostro livello di ipocrisia. Sui casi di corruzione, nel senso dell’abuso di tipo istituzionale, è singolare il fatto che vi siano varie Congregazioni, relativamente nuove, i cui fondatori sono caduti in questi abusi. Sono casi pubblici. Papa Benedetto ha dovuto sopprimere una Congregazione maschile numerosa. Il fondatore aveva seminato queste abitudini. Era una Congregazione che aveva anche il ramo femminile, e anche la fondatrice aveva seminato queste abitudini. Lui abusava di religiosi giovani e immaturi. Benedetto aveva avviato il processo al ramo femminile. A me è toccato sopprimerlo. Voi qui avete molti casi dolorosi. Ma questo è curioso: il fenomeno dell’abuso ha toccato alcune Congregazioni nuove, prospere.
L’abuso in queste Congregazioni è sempre frutto di una mentalità legata al potere, che va guarita nelle sue radici maligne. E aggiungo, anzi, che ci sono tre livelli di abuso che vanno insieme: abuso di autorità – con ciò che significa mescolare il foro interno e quello esterno –, abuso sessuale, e pasticci economici.
Il denaro c’è sempre di mezzo: il diavolo entra dal portafoglio. Ignazio mette il primo gradino delle tentazioni del demonio proprio nella ricchezza… poi vengono la vanità e la superbia, ma per prima c’è la ricchezza. Nelle Congregazioni nuove che sono cadute in questo problema degli abusi spesso i tre livelli si trovano insieme.
Perdonando la mancanza di umiltà, ti suggerirei di leggere quello che ho detto ai cileni, che è più pensato e più ragionato di quanto potrebbe venirmi da dire ora a braccio.
«Ci aiuti in questo processo di discernimento, che è della Compagnia universale. Il Proposito generale p. Sosa ci chiama a riflettere verso dove la Compagnia deve andare di questi tempi, considerando le nostre debolezze e le nostre forze. Lei ha una visione universale, ci conosce bene, sa quale potrebbe essere il nostro contributo alla Chiesa universale. Potrebbe aiutarci dicendo, per esempio, come vede che lo Spirito adesso stia muovendo la Chiesa verso il futuro, verso l’avvenire. Verso dove dovremmo seguire i sentieri dello Spirito, da gesuiti, nel luogo in cui siamo – e non soltanto nella provincia del Perù – per mantenerci al suo servizio. Alcune linee che potrebbero trasformarsi in parte del nostro programma…».
Grazie. Ti rispondo con una parola sola. Sembrerà che non dico nulla, e invece dico tutto. E questa parola è «Concilio». Riprendete in mano il Concilio Vaticano II, rileggete la Lumen gentium. Ieri con i vescovi cileni – o l’altro ieri, non so più che giorno è oggi! – li esortavo alla declericalizzazione. Se c’è una cosa molto chiara, è la coscienza del santo popolo fedele di Dio, infallibile in credendo, come ci insegna il Concilio. Questo porta avanti la Chiesa. La grazia della missionarietà e dell’annuncio di Gesù Cristo ci viene data con il battesimo. Da lì possiamo andare avanti…
Non bisogna mai dimenticare che l’evangelizzazione viene fatta dalla Chiesa come popolo di Dio. Il Signore vuole una Chiesa evangelizzatrice, lo vedo con chiarezza. È quello che mi è venuto dal cuore e con semplicità nei pochi minuti in cui ho parlato nelle Congregazioni generali previe al Conclave. Una Chiesa che va verso fuori, una Chiesa che esce ad annunciare Gesù Cristo. Dopo o nel momento stesso in cui lo adora e si riempie di Lui. Uso sempre un esempio legato all’Apocalisse, dove leggiamo: «Sto alla porta e busso. Se qualcuno mi apre, entrerò». Il Signore è fuori e vuole entrare. A volte però il Signore è dentro e bussa affinché lo lasciamo uscire! A noi il Signore sta chiedendo di essere Chiesa fuori, Chiesa in uscita. Chiesa fuori. Chiesa ospedale da campo… Ah, le ferite del popolo di Dio! A volte il popolo di Dio è ferito da una catechesi rigida, moralista, del «si può o non si può», o da un’assenza di testimonianza.
Una Chiesa povera per i poveri! I poveri non sono una formula teorica del partito comunista. I poveri sono il centro del Vangelo. Sono il centro del Vangelo! Non possiamo predicare il Vangelo senza i poveri. Allora ti dico: è su questa linea che sento che ci sta portando lo Spirito. E ci sono forti resistenze. Ma devo anche dire che per me il fatto che nascano resistenze è un buon segno. È il segno che si va per la via buona, che la strada è questa. Altrimenti il demonio non si affannerebbe a fare resistenza.
Ti direi che questi sono i criteri: la povertà, la missionarietà, la coscienza di popolo fedele di Dio… In America Latina, in particolare, dovreste chiedervi: «Ma dov’è che il nostro popolo è stato creativo?». Con alcune deviazioni, sì, ma è stato creativo nella pietà popolare. E perché il nostro popolo è stato capace di essere così creativo nella pietà popolare? Perché ai chierici non interessava, e allora lasciavano fare… e il popolo andava avanti…
E poi, sì, quello che la Chiesa oggi chiede alla Compagnia – questo l’ho già detto dappertutto, e Spadaro, che pubblica queste cose, si è già stancato di scriverlo – è di insegnare con umiltà a discernere. Sì, questo ve lo chiedo ufficialmente da Pontefice. In generale, soprattutto noi che rientriamo nella cornice della vita religiosa, sacerdoti, vescovi, a volte dimostriamo poca capacità di discernere, non lo sappiamo fare, perché siamo stati educati in un’altra teologia, forse più formalista. Ci fermiamo al «si può o non si può», come dicevo anche ai gesuiti cileni a proposito delle resistenze all’ Amoris laetitia. Qualcuno riduce tutto il risultato di due Sinodi, tutto il lavoro fatto, al «si può o non si può». Aiutateci, dunque, a discernere. Certo, non può insegnare a discernere chi non sa discernere. E per discernere si deve entrare in esercizi, bisogna esaminarsi. Bisogna cominciare sempre da se stessi.
Il rettore della chiesa poi illustra al Papa il significato della sedia che è stata preparata per lui. Dice che nel 1992 ci fu un attentato di «Sendero luminoso»[4], e che una parte della chiesa rimase danneggiata. Nel restauro, sono stati messi dei rinforzi alle pareti ed è stato estratto un architrave di legno del 1672. Proprio questo adesso è servito per la sedia fatta per questa visita, intagliata nello stile barocco di Lima. Il Papa ringrazia sorridendo e scherza: «Sono seduto sul 1672. Giocherò questo numero alla lotteria!». Alla fine, il Provinciale ringrazia il Papa, prima di chiedere una foto di gruppo. Il Papa risponde al ringraziamento con queste parole:
Vi ringrazio molto. Pregate per me! Vi confido una grazia molto grande: dal momento in cui mi sono reso conto che sarei stato eletto Papa ho avvertito una grande pace, che non mi ha abbandonato fino a oggi. Pregate che il Signore me la conservi!
Alla fine dell’incontro, il Papa ha donato ai gesuiti una croce in argento realizzata nel 1981 dall’orafo italiano Antonio Vedele, che rappresenta al suo interno le varie stazioni della Via Crucis. Le stazioni non sono quattordici, ma quindici, e questo perché l’artista ha voluto inserire al centro dei due bracci la rappresentazione della risurrezione di Cristo. Vedele è l’orafo che ha disegnato la croce pettorale di papa Francesco, che nel 1998 è stata poi realizzata in argento dal suo allievo Giuseppe Albrizzi, autore anche del pastorale usato dall’allora cardinale di Buenos Aires, Jorge Mario Bergoglio.
Al termine, il Papa ha posato per una foto di gruppo. Quindi ha attraversato la chiesa di San Pedro e, prima di uscire dalla porta principale, si è soffermato davanti alla tomba del venerabile p. Francisco del Castillo, apostolo di Lima.
[1]. Superiore generale della Compagnia di Gesù, p. Lorenzo Ricci (1703-1775) ha esercitato questo ruolo in un momento delicato della storia della Compagnia, a causa delle tensioni con i governi europei. Sotto di lui l’Ordine fu espulso prima da alcuni Paesi come il Portogallo, la Francia e la Spagna. Fu solamente con Clemente XIV che la Compagnia fu soppressa e, mentre i gesuiti furono integrati nel clero diocesano e religioso, p. Ricci fu imprigionato a Castel Sant’Angelo. Lì visse fino alla sua morte, avvenuta due anni dopo, solo e vittima di umiliazioni di ogni tipo, sostenendo fino all’ultimo momento che la Compagnia non aveva dato nessun motivo per essere soppressa.
[2]. Joannes Philippe Roothaan (Amsterdam, 23 novembre 1783 o 1785 – Roma, 8 maggio 1853) è stato un gesuita olandese, preposito generale dell’Ordine (il secondo dopo la sua restaurazione) dal 9 luglio 1829 alla sua morte. Il suo lavoro come Preposito generale fu molto fruttifero per l’Ordine da poco restaurato. La sua prima attenzione fu quella di preservare e rafforzare lo spirito della Compagnia. A questo fine dedicò nove delle sue undici lettere generali. Incrementò il lavoro nelle missioni. L’Ordine raddoppiò il numero dei suoi membri, arrivando ad avere 5.000 professi. La Compagnia dovette soffrire però anche l’espulsione in molti Paesi, specialmente nell’anno della Rivoluzione, il 1848.
[3]. P. Alonso de Barzana (Cuenca, 1530 – Cuzco, 1597), fu assegnato alla missione di Juli, sulle rive del Lago Titicaca, oggi a sud-est del Perù. Rimase nella zona centrale dell’attuale Bolivia per 11 anni, finché fu inviato a Tucumán. Svolse il suo lavoro missionario tra gli indiani della valle della Calchaquies, e successivamente nel Gran Chaco fino al 1593. Continuò il suo lavoro tra le molte tribù di quella regione e quelle del Paraguay fino al 1589. Conosceva molte lingue indigene e ha scritto grammatiche, vocabolari e catechismi in gran parte di queste lingue.
[4]. Il «Partito Comunista del Perù sul sentiero luminoso di Mariátegui» è un’organizzazione guerrigliera peruviana di ispirazione maoista, fondata fra il 1969 e il 1970 da Abimael Guzmán a seguito di una scissione dal Partido Comunista Peruano – Bandera Roja (PCP-BR). Sendero Luminoso si propone di sovvertire il sistema politico peruviano e di instaurare il socialismo attraverso la lotta armata.
*******
«WHERE HAVE OUR PEOPLE BEEN CREATIVE?» Conversations with the Jesuits in Chile and Peru
«¿Dónde es que nuestro pueblo ha sido creativo?» Conversaciones con jesuitas de Chile y Perú
« En quoi donc notre peuple a-t-il été créatif ? » Conversation avec les jésuites du Chili et du Pérou
“Onde é que o nosso povo foi criativo?” Conversa com jesuítas do Chile e do Peru