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Il Papa emerito, Benedetto XVI, si è spento il 31 dicembre 2022 all’età di 95 anni, nel convento Mater Ecclesiae sul Colle Vaticano, dove si era ritirato dopo la rinuncia al pontificato e dove ha trascorso gli ultimi anni della sua lunga vita nel ritiro e nella preghiera. Un’eccezione significativa era stato il viaggio compiuto a Regensburg dal 18 al 22 giugno 2020 per visitare e incontrare un’ultima volta l’amatissimo fratello maggiore, mons. Georg Ratzinger, pochi giorni prima della sua morte. La sua ultima «apparizione in pubblico» era avvenuta il 28 giugno 2016, nella Sala Clementina del Palazzo apostolico, per un atto di augurio e di omaggio alla presenza di papa Francesco, in occasione del 65° della sua ordinazione sacerdotale. Papa Francesco si era recato a trovarlo diverse volte; ma anche non pochi amici e visitatori potevano avvicinarlo e ne riportavano notizie e immagini che circolavano tramite i social media, cosicché continuavamo a sentirci accompagnati dalla sua presenza discreta ma vigile, che si manifestava talvolta anche con risposte a lettere o brevi messaggi, da cui trasparivano invariabilmente la sua gentilezza e l’acutezza e intensità della sua presenza spirituale. Gli interventi scritti di contenuto più rilevante erano stati invece veramente pochissimi.
Tappe di una lunga vita: dalla Baviera a Roma
Joseph Ratzinger era nato il 16 aprile 1927 a Marktl am Inn, in Baviera. Era la mattina presto del Sabato Santo e in quella mattina stessa venne battezzato, come egli racconta, «con l’acqua appena benedetta della “notte pasquale”, che allora veniva celebrata al mattino. […] Personalmente sono sempre stato grato per il fatto che, in questo modo, la mia vita sia stata fin dall’inizio immersa nel mistero pasquale, dal momento che non poteva che essere un segno di benedizione»[1]. Joseph viene al mondo in una famiglia bavarese di radicata tradizione cattolica e di condizioni modeste – il padre, che si chiama Joseph anch’egli, è gendarme, e la madre Maria è casalinga, ma occasionalmente svolge servizi come cuoca per le esigenze del bilancio familiare – ed è il terzo e ultimo figlio, essendo stato preceduto dalla sorella Maria e dal fratello Georg[2].
L’infanzia di Joseph si svolge in modo sostanzialmente normale e sereno, con spostamenti della famiglia in diverse località bavaresi a seguito delle destinazioni di servizio assegnate al padre: dopo Marktl, nel 1929 si passa a Tittmoning (che rimarrà per Joseph il paese dei sogni infantili e dei tempi felici), nel 1932 ad Aschau am Inn, nel 1937 a Traunstein. Qui nel 1939, a 12 anni, Joseph entra nel seminario arcivescovile, dove era stato preceduto dal fratello Georg. Sono gli anni dell’avvento del regime hitleriano; Joseph sente nell’aria l’avvicinarsi della bufera, ma ne vive le vicende protetto dall’ambiente profondamente cattolico della provincia bavarese e della sua famiglia, dove l’atteggiamento antinazista è inequivocabile, anche se non militante.
Comincerà a pagare direttamente le spese dell’avvento del nazismo quando il seminario verrà requisito poco dopo il suo ingresso e dovrà venire iscritto obbligatoriamente alla Hitlerjugend (la «Gioventù hitleriana»), anche se non parteciperà alle sue attività. Scoppiata la Seconda guerra mondiale, a 16 anni viene assegnato ai servizi di contraerea della città di Monaco: è un soldato, ma con altri seminaristi può continuare a studiare, frequentando lezioni presso un ginnasio della città.
Nel settembre del 1944 è congedato dalla contraerea e viene inviato nel Burgenland – al confine fra Austria, Ungheria e Slovacchia – per un servizio lavorativo e poi, in seguito a un’infezione, alla caserma di Traunstein. Nella confusione degli ultimi mesi del crollo della Germania, diserta e torna a casa, ma all’arrivo degli americani viene unito ai prigionieri di guerra e condotto, insieme ad altre 50.000 persone, in un campo di prigionia all’aperto, in condizioni durissime, vicino ad Ulm. Finalmente liberato, il 16 giugno è di nuovo a casa.
Attraverso tutte queste vicende, la sua vocazione al sacerdozio si è conservata solida. Anche se le istituzioni sono ancora in condizioni precarie, Joseph riprende gli studi a Monaco e a Frisinga. Si prepara al sacerdozio con maturo discernimento spirituale ed entra in profondità, con gusto e con passione, nel mondo degli studi teologici, favorito dalla vicinanza e dalla guida di personalità di levatura culturale e spirituale di prim’ordine. È il tempo in cui nasce in lui la familiarità con il pensiero di sant’Agostino, che rimarrà sempre l’autore di riferimento, preferito e fondamentale, ma vi sono anche letture affascinanti di grandi teologi contemporanei, come Henri de Lubac.
Il 29 giugno 1951 Georg e Joseph sono ordinati sacerdoti nel duomo di Frisinga dal card. Michael von Faulhaber, arcivescovo di Monaco. È una pietra miliare nel corso della sua vita: pur attratto con forza dalla passione per la ricerca teologica e per l’insegnamento, il sacerdozio rimarrà sempre per Joseph dimensione primaria della sua vocazione, vissuta con gioia, gratitudine e grande responsabilità, unendo in una sintesi vitale il servizio liturgico, il ministero della Parola e pastorale con la profondità della riflessione culturale.
Dopo l’ordinazione, il novello sacerdote è assegnato a un anno di lavoro parrocchiale in un quartiere di Monaco, vicino a un parroco molto zelante. Svolgerà questo compito con tanto impegno e gusto da ricordarlo, molti anni dopo, come «il periodo più bello della mia vita»[3]. Sarebbe quindi del tutto sbagliato considerare la personalità di Ratzinger come quella di un freddo o astratto intellettuale, mentre la sensibilità pastorale vibrava nel più profondo del suo cuore. Ma la via degli studi e della carriera accademica appare la più adatta per un giovane che ha già dimostrato doti eccezionali in questo campo. Dopo il dottorato su sant’Agostino, discusso nel 1953, viene il traguardo dell’abilitazione all’insegnamento.
Qui egli vive un passaggio difficile e quasi drammatico della sua vita, per lo scontro aperto fra due autorevoli professori della Facoltà di Monaco – Gottlieb Söhngen, il suo maestro, e Michael Schmaus – a proposito della sua dissertazione su san Bonaventura. Alla fine il lavoro viene accettato, e Ratzinger diventa libero docente nel 1957. Ma queste tensioni lasceranno un’eredità profonda. Il giovane teologo, che aveva mietuto fino ad allora soprattutto brillanti successi e ricevuto grandi elogi, fa l’esperienza nuova di una critica dura, al punto da mettere radicalmente a rischio la sua carriera. Saggiamente alla fine egli osserva – a prescindere dal merito delle discussioni – che «le umiliazioni sono necessarie […]. È un bene che un giovane conosca i suoi limiti, subisca anche critiche, debba sperimentare una fase negativa»[4].
E così Ratzinger diventa professore. È una tappa fondamentale nel suo itinerario: dura quasi vent’anni. In fondo è quella in cui fa ciò a cui si sentiva chiamato e che desiderava fare. Una tappa che però attraversa anch’essa fasi molteplici. Dopo un incarico di Dogmatica e di Teologia fondamentale presso le Scuole superiori di Frisinga, la prima cattedra a cui è chiamato è quella di Teologia fondamentale all’Università di Bonn, dove rimane dal 1959 al 1963; poi passa a Münster per la Teologia dogmatica (1963-66), quindi a Tübingen (1966-69), infine a Regensburg (1969-77). Le testimonianze sulla qualità eccezionale del suo insegnamento universitario, come profondità di contenuti, chiarezza dell’esposizione, cura e finezza del linguaggio, sono unanimi. Gli studenti assiepavano le aule per ascoltarlo. Di queste qualità abbiamo potuto risentire l’eco e godere a un livello più largo e universale, leggendo i documenti, ascoltando discorsi, catechesi, omelie del professore divenuto papa.
In questo periodo si inserisce un evento cruciale per la vita di Ratzinger: la partecipazione al Concilio Vaticano II in qualità di esperto teologo dell’anziano cardinale di Colonia, Joseph Frings. All’annuncio del Concilio, Ratzinger sta insegnando a Bonn, nella diocesi di Colonia, e si segnala presto con un’importante conferenza sulla teologia del Concilio, a cui il cardinale assiste. Scocca la scintilla. Frings, pur quasi cieco, sarà un protagonista del Vaticano II, una figura di spicco di quell’episcopato dell’Europa centro-settentrionale – Francia, Germania, Belgio ecc. – che eserciterà un ruolo decisivo nell’orientamento conciliare. Ratzinger, poco più che trentenne, formato in un ambiente accademico diverso dalle Facoltà romane, accompagna Frings e prepara per lui memorie e bozze di interventi che lasceranno il segno[5].
Ma, oltre al contributo alla formulazione dei documenti, la permanenza a Roma nelle sessioni conciliari rappresenta per il giovane professore un’occasione unica per conoscere ed entrare in dialogo personale con i maggiori teologi del tempo – Rahner, de Lubac, Congar, Chenu, Daniélou, Philips ecc. – e respirare a pieni polmoni l’universalità della Chiesa e le sfide del suo tempo, vivendo dall’interno il più grande evento ecclesiale del secolo. I suoi orizzonti si allargano ai confini del mondo, la riflessione teologica e pastorale si confronta con le domande cruciali e non potrà mai più chiudersi in prospettive limitate o di corto respiro.
Non tutto però è facile e senza problemi. I frequenti cambiamenti delle sedi universitarie ne sono un indizio. Al tempo entusiasmante e creativo del Concilio seguono anche sviluppi negativi e divisioni nel campo ecclesiale e in quello teologico. Il dibattito sulla funzione del teologo nella Chiesa diventa acceso, in particolare in Germania. Così, mentre era stato proprio Hans Küng a invitare Ratzinger a trasferirsi a Tübingen, le strade di questi due teologi si dividono e si allontaneranno inesorabilmente. A un certo punto Ratzinger deve prendere atto che per Küng e altri «la teologia non era più l’interpretazione della fede della Chiesa cattolica, ma stabiliva essa stessa come poteva e doveva essere. E per un teologo cattolico, quale ero io, ciò non era compatibile con la teologia»[6].
In questo contesto, che coincide con le agitazioni studentesche del 1968 che turbano profondamente la vita delle università, Ratzinger lascia Tübingen per la più tranquilla Regensburg. Ma non bisogna pensare che quegli anni non siano stati anch’essi intensi e fecondi. Proprio il 1968 è l’anno di pubblicazione di quella Introduzione al cristianesimo, nata da un corso offerto agli studenti di tutte le Facoltà e strutturato come commento al «Credo apostolico», che rimarrà il libro più letto di Ratzinger, testo di straordinario successo, con le sue traduzioni in 20 lingue e le continue riedizioni fino a oggi. È caratterizzato dall’affascinante contrasto tra la profondità del contenuto e la semplicità del linguaggio che lo rende noto anche fuori dall’ambito accademico. Ratzinger sottolinea il carattere personale della fede cristiana: «Il senso del mondo è […] il “tu” […]. La fede, pertanto, è trovare un “tu” che mi sostiene e che, nell’incompiutezza di ogni incontro umano, mi accorda la promessa di un indistruttibile amore, che non solo aspira all’eternità, ma ce la accorda»[7]. Nei successivi anni di Regensburg l’attività del docente si esprime non solo nelle lezioni, ma anche nel seguire con più impegno gli studenti che lo hanno scelto come Doktorvater («relatore») per i loro studi di dottorato. Prende così forma e stabilità quello Schülerkreis («circolo degli allievi») che Ratzinger continuerà a seguire con fedeltà ammirevole fino agli anni del pontificato, a testimonianza della profondità eccezionale del rapporto culturale e spirituale che si era costituito fra il professore e i discepoli.
Ma la morte improvvisa per infarto, il 24 luglio 1976, a soli 62 anni, del card. Julius Döpfner, arcivescovo di Monaco e indiscusso leader del cattolicesimo tedesco, sconvolgerà la vita del professor Ratzinger proprio nel tempo della sua raggiunta piena maturità accademica e culturale, a cinquant’anni. Paolo VI chiede proprio a lui l’obbedienza difficile di succedere a Döpfner. Non è raro che i papi pensino opportuno affidare a personalità di grande levatura culturale le principali sedi episcopali della Germania. Ratzinger è un teologo di autorevolezza riconosciuta, ha dimostrato attaccamento profondo alla Chiesa nel corso delle tensioni postconciliari ed è anche un «patriota bavarese», come egli stesso si definisce. L’accettazione è per il professore una decisione «immensamente difficile», ma il senso di disponibilità al servizio richiestogli prevale. Il 28 maggio 1977 è consacrato vescovo. Paolo VI lo crea subito cardinale: il 27 giugno a Roma Ratzinger riceve l’imposizione della berretta.
Come motto episcopale ha scelto Cooperatores veritatis («Collaboratori della verità»), una citazione della Terza lettera di san Giovanni (1,8). Difficilmente si potevano trovare parole più espressive della continuità fra l’impegno di ricerca e insegnamento del teologo e quello di magistero e guida pastorale del vescovo. Ma ciò varrà anche per gli impegni successivi: uno splendido motto per una vita intera! Il servizio come arcivescovo di Monaco sarà intenso, per gli impegni della cura pastorale della grande arcidiocesi, ma anche piuttosto breve. Coinciderà con «l’anno dei tre Papi» e dei due Conclavi (1978), e quindi con l’elezione di papa Wojtyła e la sua prima visita in Germania (1980), che si conclude proprio a Monaco. Giovanni Paolo II conosceva già e stimava molto Ratzinger. Lo sceglie come relatore del Sinodo sulla famiglia del 1980, il primo del nuovo pontificato, e gli fa capire subito che desidera averlo a Roma alla guida della Congregazione per la dottrina della fede. Sulle prime Ratzinger resiste, ma la volontà del Papa è troppo chiara: il 25 novembre 1981 è nominato Prefetto, e nel marzo del 1982 si trasferisce a Roma.
Il Cardinale Prefetto
Questa nuova tappa sarà assai lunga. Per 23 anni Ratzinger sarà uno dei principali e più fidati collaboratori di Giovanni Paolo II, che non vorrà assolutamente rinunciare al suo contributo fino alla fine di uno dei pontificati più lunghi della storia. Il rapporto fra il Papa e il Prefetto è intenso, schietto e cordiale, fondato su stima e ammirazione reciproca, pur nella differenza delle due personalità. La figura di Ratzinger costituisce dunque certamente uno degli elementi caratterizzanti di quest’epoca della vita della Chiesa e dà un supporto di grande spessore teologico al magistero di Giovanni Paolo II, interpretando fedelmente gli orientamenti papali. Viene spontaneo parlare di un’«accoppiata formidabile» e straordinariamente felice fra un grande Papa e un grande Prefetto.
Il lavoro compiuto dal card. Ratzinger in questi anni sarà imponente, anche grazie alla sua capacità di guidare il lavoro comune dei suoi collaboratori, ascoltandoli e orientandone i contributi con una straordinaria capacità di sintesi, così che i documenti non siano tanto frutto del suo lavoro personale quanto dello sforzo dell’intero organismo. Ma non sarà facile, perché i dibattiti nella Chiesa postconciliare sono accesi anche dal punto di vista teologico.
Pensiamo che si possano mettere in luce tre vicende salienti, fra le innumerevoli di questo periodo. Anzitutto gli interventi della Congregazione sul tema della teologia della liberazione nella prima parte degli anni Ottanta. La preoccupazione del Papa per l’influsso dell’ideologia marxista sulle correnti di pensiero della teologia latinoamericana è grande, e il Prefetto la condivide e affronta il delicato problema con coraggio.
Ne risultano due famose Istruzioni, con l’intenzione rispettivamente di opporsi alle derive negative (la prima, del 1984) e di riconoscere il valore degli aspetti positivi (la seconda, del 1986). Le reazioni critiche, soprattutto al primo documento, e le discussioni vivaci non mancano, anche per casi specifici di singoli teologi controversi (fra cui il più noto sarà il brasiliano Leonardo Boff). Ratzinger, nonostante la sua riconosciuta finezza culturale, non sfugge dunque al comune destino dei responsabili del Dicastero dottrinale di avere la fama di rigido censore, guardiano dell’ortodossia e avversario principale della libertà della ricerca teologica e, essendo tedesco, gli verrà affibbiato il nomignolo non benevolo di Panzerkardinal.
Un altro documento della Congregazione, molti anni dopo, darà luogo anch’esso a un’ondata di critiche: la Dichiarazione Dominus Iesus, pubblicata durante il Grande Giubileo del 2000, sulla centralità della figura di Gesù per la salvezza di tutti. Questa volta a sentirsi toccati e a reagire sono soprattutto gli ambienti più impegnati nelle relazioni ecumeniche e nel dialogo con le altre religioni. Ma anche in questo caso non c’è dubbio che la presa di posizione corrisponda pienamente all’intenzione di Giovanni Paolo II di tutelare alcuni punti essenziali della fede della Chiesa da equivoci o deviazioni dalle implicazioni gravi.
Un terzo impegno, anch’esso sulle prime molto discusso ma alla fine coronato da largo consenso e successo, è lo sforzo davvero ciclopico della redazione di un nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica. Un’esposizione organica dell’intera fede cattolica, specchio del rinnovamento conciliare e formulata con linguaggio adatto al tempo odierno, era stata richiesta dal Sinodo del 1985. Il Papa ne affidò il compito al card. Ratzinger e a una Commissione da lui presieduta. Il fatto che dopo un’epoca di dibattiti e tensioni teologiche ed ecclesiali assai forti, nel giro di pochi anni, cioè già nel 1992, l’opera sia giunta in porto in modo largamente convincente ha qualcosa di miracoloso.
Solo un’eccezionale capacità di visione organica e sintetica della dottrina e dell’intero campo della vita cristiana poteva guidare l’impresa e venirne a capo. E la sensibilità per le attese contemporanee non fa difetto. Non sono proprio queste le qualità che avevamo riconosciuto e ammirato 25 anni prima nell’autore dell’Introduzione al cristianesimo? Il Catechismo rimane probabilmente l’apporto dottrinale positivo più rilevante del pontificato di Giovanni Paolo II, strumento sicuro e prezioso per la vita della Chiesa: non per nulla papa Francesco vi fa frequente riferimento.
Il Papa e la «priorità suprema» del pontificato
Giungiamo così alla tappa penultima, ma ecclesialmente più importante, della lunga strada di Joseph Ratzinger, inaspettata anch’essa come le due precedenti. Tuttavia, alla morte di Giovanni Paolo II, sono diversi i motivi che inducono a guardare verso di lui come possibile successore: la prolungata e stretta collaborazione in piena sintonia, le qualità eminenti di intelligenza e di spirito, l’assenza di qualsiasi ambizione di potere che lo colloca al di sopra delle parti, a cui si aggiunge infine la serena padronanza con la quale, in qualità di Decano del Collegio cardinalizio, conduce gli atti e presiede i riti della preparazione e attuazione del Conclave. Nonostante l’età avanzata, la scelta di continuità prevale rapidamente. Il 19 aprile, a 78 anni, Joseph Ratzinger è il 265° Papa della Chiesa cattolica, sceglie il nome di Benedetto XVI e si presenta al popolo riunito in piazza San Pietro come «semplice ed umile lavoratore nella vigna del Signore».
Nonostante l’età del nuovo Papa, il pontificato, che durerà poco meno di otto anni, sarà denso di attività, in Italia e all’estero. Oltre all’attività «ordinaria» di celebrazioni e udienze in Vaticano, si possono ricordare 24 viaggi all’estero, diversi dei quali coronati da grande successo di popolo, con 24 Paesi toccati nei cinque continenti; 29 viaggi in Italia; cinque Assemblee del Sinodo dei Vescovi – tre generali ordinarie: sull’Eucaristia (2005, già indetta da Giovanni Paolo II), sulla Parola di Dio (2008), sulla Promozione della nuova evangelizzazione (2012); e due speciali: per l’Africa (2009) e per il Medio Oriente (2010) –, seguite ognuna (tranne l’ultima del 2012) da un’importante Esortazione apostolica.
Altri documenti magisteriali principali sono da considerare le tre Encicliche. Di particolare importanza è anche la Lettera ai cattolici nella Repubblica Popolare Cinese, della Pentecoste del 2007. Da ricordare anche gli «Anni» con cui Benedetto XVI ha inteso dare coerenza e orientamento alla sua guida pastorale della Chiesa: dopo aver condotto a termine quello «dell’Eucaristia», già iniziato dal suo Predecessore, ha indetto successivamente l’«Anno paolino» (28 giugno 2008 – 29 giugno 2009, per il bimillenario della nascita dell’Apostolo), l’«Anno sacerdotale» (19 giugno 2009 – 11 giugno 2010, per il 150° della morte del curato d’Ars) e infine l’«Anno della fede» (iniziato l’11 ottobre 2012, nel 50° dell’apertura del Concilio Vaticano II). A proposito di quest’ultimo, che il Papa non condurrà a termine personalmente in seguito alla rinuncia, è giusto osservare quanto ne dice egli stesso, rispondendo a questa domanda di Seewald: «Quale ritiene sia a posteriori, il segno distintivo del suo pontificato?». «Direi – risponde Benedetto – che è ben espresso dall’Anno della fede: un rinnovato incoraggiamento a credere, a vivere una vita a partire dal centro, dal dinamismo della fede, a riscoprire Dio riscoprendo Cristo, dunque a riscoprire la centralità della fede»[8].
Queste parole ci introducono direttamente a riflettere sulle priorità del pontificato come chiave per la sua rilettura. Benedetto ne parlò esplicitamente in un documento assai particolare, appassionato e intenso: quella Lettera ai vescovi del 10 marzo 2009, scritta in seguito alle critiche e agli attacchi che gli erano stati mossi dopo il ritiro della scomunica ai vescovi seguaci di mons. Lefebvre e al «caso Williamson», in cui intende quasi «rendere ragione» del suo governo della Chiesa. «Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio. Non a un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto fino alla fine (cfr Gv 13,1), in Gesù Cristo crocifisso e risorto»[9].
A questa priorità, coerente con tutta la sua vita precedente, papa Benedetto si dedica con impegno totale e con un suo stile di governo che verrà caratterizzato acutamente come «governo magisteriale». Come egli stesso ha detto: «Provengo dalla teologia e sapevo che la mia forza, se ne ho una, è annunciare la fede in forma positiva. Per questo volevo soprattutto insegnare partendo dalla pienezza della Sacra Scrittura e della Tradizione»; e allo stesso tempo: «Bisogna rinnovare, e io ho cercato di portare avanti la Chiesa sulla base di un’interpretazione moderna della fede»[10].
È facile vedere come si inseriscano in questa linea la scelta dei temi e lo sviluppo delle sue Encicliche. Benedetto ne ha intenzionalmente limitato il numero, e ha voluto dedicarle anzitutto alle virtù teologali. La carità: Deus caritas est (2005); la speranza: Spe salvi (2007); la fede: Lumen fidei (rimasta incompiuta, e che vedrà la luce «postuma», ripresa e completata dal suo Successore).
Quanto Benedetto dice dell’amore e della speranza affronta molto profondamente il modo in cui queste parole vengono interpretate nella cultura contemporanea, le domande che ciò pone alla fede e alla testimonianza cristiana e le risposte che possono sgorgare dal cuore della fede per i turbamenti del nostro tempo, la perdita del senso più alto dell’amore e la tentazione di disperazione di fronte al potere del male.
Anche la Caritas in veritate (2009), da collocare nel filone dell’insegnamento sociale della Chiesa, dice la risposta offerta dalla fede cristiana, tramite l’impegno operativo della carità, alla gravissima crisi economica, sociale, morale in cui è incorsa l’umanità di oggi. Analogamente, è evidente la coerenza con le priorità prima indicate dei temi assegnati dal Papa alle Assemblee sinodali ordinarie: «La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa» e «La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana». A questo proposito, è interessante osservare che papa Benedetto non ha ritenuto suo compito impegnarsi in una riforma della Curia romana; tuttavia una decisione innovativa l’ha presa: quella di istituire un nuovo Dicastero dedicato appunto alla «promozione della nuova evangelizzazione».
Il secondo aspetto della «priorità suprema» – non un qualsiasi dio, ma il Dio rivelatoci da Gesù Cristo – risulta evidente da un elemento veramente unico del pontificato di Benedetto XVI, sul quale bisogna richiamare l’attenzione. Ratzinger aveva iniziato nel 2003 a lavorare a una grande opera su Gesù, a cui si sentiva chiamato come credente e come teologo nella sua ricerca «personale del “volto del Signore” (cfr Sal 27,8)»[11]. Questo lavoro gli appariva urgente, anche perché era cresciuta in lui la preoccupazione che i metodi moderni di interpretazione della Scrittura ci portino a perdere il rapporto vivo con la persona di Gesù.
Eletto papa, Ratzinger non abbandona l’impresa, ma la ritiene così importante da dedicarvi tutti i tempi che gli rimangono «liberi» dagli impegni prioritari del servizio di governo, e riesce effettivamente a condurla in porto. Sottolinea che «non è in alcun modo un atto magisteriale» e che il risultato può essere liberamente discusso e criticato, ma, dato che egli è Pietro che deve «confermare i suoi fratelli», la sua ricerca e la sua testimonianza personale di fede hanno un valore immenso per tutta la Chiesa, ed egli se ne rende ben conto. La composizione del libro su Gesù ha di fatto accompagnato tutto il suo pontificato[12], ne ha costituito in certo senso una dimensione interiore. Benedetto XVI dice che è stato profondamente coinvolto da questo lavoro. Quando Seewald gli domanda: «Si potrebbe dire che questo lavoro ha costituito un’insostituibile fonte di energia per il suo pontificato?», egli risponde subito: «Certo. Per me è stato quel che si dice un attingere costantemente acqua dal profondo delle fonti»[13].
Anche la grande attenzione di Benedetto XVI per la liturgia della Chiesa discende direttamente dalla «priorità suprema». Vi è una vera preoccupazione perché essa abbia il posto dovuto nella vita della comunità e del credente e perché sia conservata la dignità della sua celebrazione che mette al centro l’incontro con Cristo. Nell’intenzione di Benedetto XVI non vi è dunque alcuna nostalgica restaurazione dell’antico, ma la cura per una dimensione fondamentale della vita della Chiesa. In questa luce va visto anche il suo sforzo per evitare rotture nella tradizione, espresso nel «Motu proprio» Summorum pontificum (7 luglio 2007), che riammette come «forma straordinaria» la celebrazione della Messa secondo la liturgia romana precedente alla riforma conciliare.
Ma in questo contesto vorremmo ricordare soprattutto la felice intuizione di inserire l’adorazione eucaristica fra i momenti salienti delle Giornate Mondiali della Gioventù (GMG), in occasione della grande Veglia: innovazione in certo senso «controcorrente» per un immenso e festoso incontro giovanile, ma accolta e vissuta con piena adesione dalle centinaia di migliaia di giovani partecipanti a Colonia, a Sydney, a Madrid. Momenti impressionanti di silenzio e di spiritualità, fra i più belli e intensi dell’intero pontificato. Questa è stata la sola innovazione – di non poco conto! – apportata da Benedetto alle GMG.
Parlando del suo pontificato, Benedetto XVI aggiungeva che dal primato di Dio «deriva come logica conseguenza che dobbiamo avere a cuore l’unità dei credenti […]. Per questo lo sforzo per la comune testimonianza di fede dei cristiani è incluso nella priorità suprema. A ciò si aggiunge la necessità che tutti coloro che credono in Dio cerchino insieme la pace, tentino di avvicinarsi gli uni agli altri per andare insieme verso la fonte della Luce, e questo è il dialogo interreligioso»[14]. L’impegno ecumenico senza incertezze di Benedetto XVI si è espresso in moltissime occasioni, fra cui rimangono memorabili gli incontri durante i viaggi: a Istanbul con il Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo (2006), a Londra con il Primate anglicano Rowan Williams (2010), a Erfurt con i luterani nel famoso convento di Martin Lutero (2011).
Qui Benedetto evocherà con forza impressionante la grande domanda di Lutero: «Come posso avere un Dio misericordioso?», per sfidare il dialogo ecumenico a cercare l’unione andando – ritornando! – alla radice della fede e non restando alla superficie. Momento delicato è la pubblicazione della Costituzione apostolica Anglicanorum coetibus (4 novembre 2009), con cui il Papa stabilisce la prassi da seguire per accogliere nella Chiesa cattolica fedeli anglicani che chiedono di aderirvi, non come singoli ma come gruppi[15]. Nel servizio per l’unità della Chiesa rientra anche il generoso impegno di Benedetto XVI per ristabilire la piena unità con la «Fraternità San Pio X» di mons. Lefebvre, che gli costerà non poche critiche e difficoltà, ma purtroppo non sarà coronato da successo.
Nel campo del dialogo con le altre religioni, durante il pontificato non sono mancati momenti difficili: con gli ebrei, soprattutto in occasione del «caso Williamson» e del decreto sulle «virtù eroiche» per la causa di beatificazione di Pio XII; con l’islam, soprattutto in occasione del discorso di Regensburg e secondariamente anche per il battesimo del noto giornalista egiziano Magdi Allam nella notte di Pasqua del 2008. Tuttavia l’evidente dedizione dell’intera vita di Ratzinger per il dialogo con l’ebraismo e il suo atteggiamento di rispetto e apprezzamento per l’islam, in coerenza con la linea del Concilio Vaticano II, hanno permesso di superare equivoci e difficoltà. Alla fine del pontificato, Benedetto XVI, sulle tracce delle prime visite fatte da Giovanni Paolo II, oltre al Muro del Pianto aveva visitato ben tre sinagoghe (Colonia, Park Avenue a New York, Roma) e tre moschee (Moschea Blu a Istanbul, Amman, Cupola della Roccia a Gerusalemme).
Il dialogo con la cultura: la «ragione aperta»
L’annuncio del Dio di Gesù Cristo nel nostro tempo implica il dialogo con la cultura odierna. Joseph Ratzinger lo ha sempre esercitato senza paura, ben preparato dall’inserimento delle Facoltà teologiche nella vita delle università tedesche e dai dibattiti che seguivano le sue conferenze. Rimane famoso il suo dialogo con Jürgen Habermas all’Accademia cattolica di Monaco (2004). La tradizione cattolica sostiene da sempre il valore della ragione umana, coerentemente con una visione di Dio che è Amore, ma allo stesso tempo Logos.
Il teologo e papa pensa che su questa base si possano cercare punti di incontro e terreni comuni anche con persone che non condividono la fede cristiana. Insiste sul tema della ricerca della verità anche con le forze della ragione umana, e per questo polemizza ripetutamente contro il relativismo e la sua «dittatura» nel tempo presente.
I discorsi giustamente più famosi del pontificato di Benedetto XVI possono essere letti in questa prospettiva. All’Università di Regensburg (2006) egli mostrava come «la convinzione che agire contro la ragione sia in contraddizione con la natura di Dio», e vedeva nella ragione la necessaria cura contro le giustificazioni religiose della violenza; al Collège des Bernardins di Parigi (2008) ricordava come lo sviluppo della cultura europea, compresa l’affermazione della dignità della persona umana, sia originariamente connesso con la ricerca di Dio dei monaci medioevali; alla Westminster Hall di Londra (2010) insisteva sul fatto che la fede religiosa non deve essere esclusa dallo spazio pubblico e relegata in quello privato, perché il suo contributo all’etica e al pluralismo non è da vedere come causa delle difficoltà, ma come parte necessaria della costruzione della società libera e democratica; al Reichstag, il Parlamento di Berlino (2011), metteva in guardia dai rischi di una visione limitata e positivistica del diritto che ne mina i fondamenti stessi, mentre una «ragione aperta» al trascendente contribuisce a costruire la città degli uomini, a sviluppare quella concezione convincente dello Stato di cui abbiamo bisogno per superare le sfide opposte di concezioni radicalmente atee oppure radicalmente religiose, fondamentaliste.
L’idea della «ragione aperta» o «allargata», capace di ricerca perché chiamata a conoscere e amare la verità, è una caratteristica costante del pensiero e dei discorsi di Benedetto XVI. È la ragione che non si lascia rinchiudere nei limiti imposti da una visione puramente empirica delle scienze e da un linguaggio esclusivamente matematico, ma è capace di più ampia riflessione sull’umano, sulla filosofia e sulla morale, sul senso della vita e della morte, sulla trascendenza e infine su Dio; e così non si chiude in se stessa, rischiando di non vedere più nulla oltre a ciò che è funzionale.
La ragione «chiusa» «assomiglia agli edifici di cemento armato senza finestre, in cui ci diamo il clima e la luce da soli»[16]: alla fine l’umano ne risulterà soffocato, e il rapporto con la natura sarà guidato dalla sola dinamica del potere della tecnica, che diventerà distruttivo. In questa prospettiva va letta una delle iniziative originali e feconde del pontificato, il «Cortile dei gentili», lo spazio di dialogo aperto a tutti, anche a non credenti: idea che viene ripresa con creatività dal Pontificio Consiglio della Cultura, coniugandola in molte direzioni diverse.
Non tutti accetteranno le proposte di dialogo di Benedetto XVI: emblematico è il rifiuto che lo porta a rinunciare alla visita all’Università «La Sapienza» di Roma, prevista per il 17 gennaio 2008. La vicenda è un esempio del problema dell’alternativa fra la ragione «aperta» e «chiusa», ma il valore della proposta rimane inalterato.
Difficoltà e crisi
Nel corso del suo pontificato Benedetto XVI ha incontrato diversi momenti di difficoltà e di sofferenza, che sono stati spesso sottolineati con atteggiamento non benevolo dal mondo dei media. È giusto ricordarli. Il primo in ordine di tempo è stato rappresentato da un’ondata di forti reazioni negative nel mondo islamico ad alcune frasi del suo discorso all’Università di Regensburg (2006): crisi superata grazie a una serie di interventi di chiarimento e, infine, alla visita alla Moschea Blu di Istanbul. Altro momento molto delicato si ebbe per le reazioni alla già ricordata revoca della scomunica ai quattro vescovi seguaci di mons. Lefebvre, fra cui Williamson, vero infortunio poiché il Papa non era consapevole che si trattasse di un negazionista dell’Olocausto: a questa crisi Ratzinger rispose con la famosa «Lettera ai vescovi» del marzo 2009. Un altro episodio di cui si parlò molto fu una frase del Papa in una conversazione con i giornalisti in aereo a proposito dell’uso del condom e della diffusione dell’AIDS in Africa (2009): la frase era formulata in modo infelice, ma avrebbe potuto facilmente essere interpretata bene nel contesto del discorso, ciò che evidentemente non avvenne, anzi fu un’occasione colta al balzo da molti per attaccare il Papa in base alla loro visione pregiudiziale di una Chiesa oscurantista e quindi corresponsabile dei mali dell’umanità.
Ma la vera croce del pontificato fu la vicenda degli abusi sessuali contro minori da parte di membri del clero. Una questione che era già «esplosa» nell’ultima parte del pontificato di Giovanni Paolo II e di cui il Prefetto della Congregazione della dottrina della fede si era dovuto occupare approfonditamente, ma che continuò a emergere con drammatica evidenza in tutto il corso del suo pontificato. Non è qui il caso di ripercorrerne le tappe, ma riteniamo che a papa Ratzinger vada riconosciuto un vero merito storico per il modo in cui vi ha fatto fronte. Egli non solo ha dato una testimonianza personale di umiltà, trasparenza e rigore, ma ha offerto anche una serie di orientamenti fondamentali e di norme giuridiche per la condotta e la pastorale della Chiesa, che vanno dal riconoscimento delle responsabilità all’incontro personale con le vittime, alla domanda di perdono, all’impegno per intervenire nello stabilire la verità e sanzionare i colpevoli, all’azione di prevenzione e di formazione, allo sviluppo di una vera cultura della protezione dei minori nella Chiesa e nella società. La testimonianza di coinvolgimento personale è brillata in particolare nei toccanti incontri con vittime di abuso in tutti i viaggi in cui i vescovi dei Paesi visitati gli avevano chiesto di farlo (Stati Uniti, Australia, Malta, Inghilterra, Germania). L’espressione più completa e organica della sua linea di risposta al drammatico problema si è avuta con la Lettera pastorale ai cattolici d’Irlanda, del 19 marzo 2010, che ovviamente aveva un valore non limitato al Paese a cui era stata indirizzata[17].
Altra vicenda complessa e dolorosa dell’ultima fase del pontificato è quella passata alle cronache sotto il nome di Vatileaks, con la fuga e la pubblicazione di documenti riservati, provenienti da fonte vaticana, che hanno alimentato un disagio crescente.
Alla fine, nel giugno del 2012 esce un libro intero[18], composto da documenti e corrispondenze riservate, diverse delle quali provengono dalla cerchia più ristretta e vicina al Papa. A questo punto diventa facile identificare il responsabile della fuga della massima parte dei documenti: si tratta purtroppo del «maggiordomo» del Papa, vicinissimo a lui nella vita quotidiana. L’emozione è grande. Il colpevole viene arrestato e processato dal Tribunale Vaticano con un processo che attirerà un’ampia attenzione della stampa mondiale. Condannato a 18 mesi di carcere, verrà infine graziato dal Papa, che lo andrà a trovare personalmente pochi giorni prima di Natale[19]. Benedetto XVI ha ritenuto doveroso che, di fronte a un fatto così grave, la giustizia facesse il suo corso, ma poi ha esercitato quella misericordia che albergava nel suo cuore nonostante la sofferenza.
La rinuncia e la vita ritirata al convento «Mater Ecclesiae»
Anche questa vicenda era dunque sostanzialmente conclusa alla fine del 2012. Quando l’11 febbraio 2013, in occasione di un Concistoro convocato di per sé per stabilire la data della canonizzazione dei martiri di Otranto, Benedetto XVI prende inaspettatamente ancora una volta la parola e legge in latino la dichiarazione della sua volontà di rinunciare al pontificato, la sorpresa è grande in tutto il mondo, perché davvero pochissime persone vi erano preparate: «Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino».
Il Papa dice brevemente, ma con piena chiarezza, che ha sentito una diminuzione «del vigore sia del corpo sia dell’animo», che lo rende incapace «di amministrare bene il ministero a lui affidato», tenendo presenti le esigenze del governo della Chiesa «nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della Chiesa». La rinuncia è compiuta «in piena libertà», e la Sede Vacante inizierà il 28 febbraio, alle ore 20.
Anche se su questa rinuncia e sulle sue motivazioni sono stati scritti fiumi d’inchiostro, in fondo l’atto è semplice, e le ragioni addotte da Benedetto XVI sono evidenti e del tutto plausibili: un grande atto di responsabilità davanti a Dio e alla Chiesa. Un atto di umiltà di fronte alle altissime esigenze del servizio di Pietro e di coraggio nell’aprire una via che già era prevista dal diritto della Chiesa, ma da secoli nessuno aveva ancora percorso. L’elezione del Papa è ad vitam, ma non è detto che il pontificato debba necessariamente concludersi con la morte del Papa.
La «novità» della rinuncia viene considerata da molti un atto «storico» che rivela con particolare chiarezza la lungimiranza e la grandezza spirituale di Benedetto XVI, e in questa luce contribuisce a rileggere con più attenzione e profondità l’intero pontificato.
Prima delle celebrazioni pasquali la Chiesa avrebbe avuto il nuovo Papa. Il tempo successivo alla rinuncia è noto a tutti: tempo di preghiera per la Chiesa, di contatti personali riservati, di rarissimi interventi scritti, soprattutto di preparazione all’incontro con il Signore. La benevolenza e attenzione di papa Francesco, la discrezione e la preghiera del «Papa emerito» hanno permesso alla Chiesa di apprezzare una situazione che era stata finora inedita e di godere sinceramente di un esempio luminoso di fraternità cristiana. Le bellissime immagini degli abbracci e delle preghiere in comune delle due figure vestite di bianco sono state fonte di consolazione ben più grande dei tentativi – infondati e strumentali – di contrapporre Benedetto a Francesco.
Gli orizzonti del pensiero e del servizio ecclesiale di Joseph Ratzinger si sono allargati, durante otto decenni, dalla natìa Baviera fino ai confini del mondo, poi il suo sguardo si è concentrato sul volto affascinante e misterioso di Gesù, fino al momento dell’Incontro. L’eredità che ci lascia è quella caratteristica di un teologo chiamato alla sede di Pietro, che ha confermato nella fede i suoi fratelli con l’insegnamento, il servizio sacramentale e la testimonianza di vita.
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[1]. J. Ratzinger, La mia vita, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 2005, 6.
[2]. Maria non si sposerà e dedicherà la maggior parte della sua vita ad assistere il fratello minore, vivendo e spostandosi con lui nelle varie tappe fino a Roma, dove morirà nel 1991, accompagnata dall’affetto e dalla gratitudine di Joseph. Georg, sacerdote anch’egli, si dedicherà alla musica sacra, divenendo Maestro del coro dei pueri cantores della cattedrale di Regensburg, i famosi Regensburger Domspatzen (i «passeri del duomo»). Morirà a Regensburg il 1° luglio 2020.
[3]. Benedetto XVI, Ultime conversazioni, a cura di P. Seewald, Milano, Garzanti, 2016, 92.
[4]. Ivi, 96 s.
[5]. Tutti questi contributi sono ora pubblicati nel volume 7/1 dell’Opera omnia.
[6]. Benedetto XVI, Ultime conversazioni, cit., 149.
[7]. J. Ratzinger, Introduzione al Cristianesimo, Brescia, Queriniana, 122003, 46 s.
[8]. Benedetto XVI, Ultime conversazioni, cit., 217.
[9]. Id., Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica riguardo alla remissione della scomunica dei 4 vescovi consacrati dall’arcivescovo Lefebvre.
[10]. Id., Ultime conversazioni, cit., 180; 222.
[11]. Premessa a J. Ratzinger – Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007, 20.
[12]. Il primo volume, sulla vita pubblica di Gesù, esce nel 2007; il secondo, sulla passione e risurrezione di Gesù, nel 2011; il terzo, sull’infanzia di Gesù, che completa la trilogia, nel 2012. L’ultimo volume è introdotto da una Premessa, firmata il 15 agosto 2012, ossia proprio nel tempo in cui il Papa ha maturato la decisione della rinuncia.
[13]. Benedetto XVI, Ultime conversazioni, cit., 194.
[14]. Id., Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica…, cit.
[15]. La cosa rimane limitata ad alcune comunità particolari (in Inghilterra, negli Stati Uniti e in Australia) e si realizza fortunatamente senza turbare i rapporti con la Confessione anglicana nel suo insieme, apportando anzi alla comunità cattolica la ricchezza di elementi liturgici e spirituali della tradizione anglicana, che vengono conservati come tali.
[16]. Benedetto XVI, Discorso al Parlamento tedesco, 22 settembre 2011.
[17]. Anche la rapidità con cui Benedetto, appena eletto Papa, intervenne sullo sconvolgente caso del fondatore dei Legionari di Cristo, Marcial Maciel, e in seguito provvide ad affrontare la situazione di quella Congregazione religiosa, depone a suo favore in questo tema cruciale per la purificazione della Chiesa.
[18]. G. Nuzzi, Sua Santità. Le carte segrete di Benedetto XVI, Milano, Chiarelettere, 2012.
[19]. Il Tribunale non aveva individuato altri responsabili. Anche per far luce sul contesto più ampio di tensioni manifestatesi in Vaticano, il Papa aveva nominato una Commissione di tre cardinali, che svolse un numero notevole di interrogatori e alla fine consegnò al Papa un ampio rapporto, che egli a sua volta consegnerà al suo Successore, ma che resterà riservato e senza conseguenze esternamente visibili.