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Ricorre quest’anno il settantesimo anniversario dello sbarco alleato in Normandia, il memorabile D-Day del 6 giugno 1944. L’evento è stato celebrato, nei luoghi dove si svolse, con particolare enfasi e solennità alla presenza di tutti i capi degli Stati che durante la seconda guerra mondiale costituivano la coalizione degli Alleati, e non soltanto di questi: alla celebrazione infatti era presente anche la cancelliera della Germania, Angela Merkel. Tra tutti, l’ospite d’onore è stato certamente il presidente statunitense Barack Obama, che in quest’occasione ha rivendicato con orgoglio il primato etico del suo Paese. Egli, parlando ai reduci dello sbarco nel cimitero di Colleville-sur-Mer, dove sono sepolti circa 10.000 soldati americani, ha detto con toni enfatici che gli statunitensi sono venuti «a liberare l’Europa dal nazismo, senza chiedere nulla, solo la terra nella quale seppellire i loro morti». Tale sbarco — ha continuato — ha cambiato il corso della guerra e della storia e soprattutto ha fatto da «testa di ponte verso la democrazia»[1]. Questo discorso è stato letto dagli osservatori politici anche alla luce delle vicende degli ultimi decenni, in particolare in relazione ai recenti (e meno recenti) interventi statunitensi in alcune zone calde del pianeta, come ad esempio in Afghanistan, al fine di impiantarvi una qualche forma di democrazia e garantire i diritti fondamentali delle persone, naturalmente secondo una prospettiva occidentale.
Il 1944 fu un anno decisivo per le sorti dell’intera Europa, duramente provata da quasi cinque anni di guerra rovinosissima, che distrusse gran parte delle città e costò la vita anche a milioni di civili inermi, ma quella data fu importante anche per l’Italia. Il giorno precedente il D-Day, cioè il 5 giugno, Roma, la capitale, fu liberata dall’occupante nazista, mentre la parte Nord della penisola era ancora impegnata in una guerra dura e sanguinosa (combattuta dagli Alleati e da molti partigiani italiani) contro i nazi-fascisti, che sarebbe terminata soltanto nel maggio dell’anno successivo. In qualche modo il 1944 può essere indicato come l’anno zero per il ristabilimento, seppure ancora parziale, della democrazia e della libertà nel nostro Paese.
In questo articolo verranno ripercorsi, anche se limitatamente all’aspetto istituzionale (tenendo quindi fuori le vicende della guerra ancora in corso nel Nord Italia), i momenti più significativi che, a partire dal giugno del 1944 fino agli importanti impegni costituzionali del 1946, hanno posto le fondamenta per la costruzione di una «nuova Italia» democratica e repubblicana.
Dalla luogotenenza di Umberto di Savoia alla nascita dello Stato dei partiti
Dopo la liberazione di Roma dall’occupazione nazista, Vittorio Emanuele III, il 5 giugno, istituì con un decreto la «luogotenenza del regno» in favore di suo figlio Umberto, principe di Piemonte, e rinunciò «irrevocabilmente» ai suoi poteri sovrani, secondo gli accordi da lui precedentemente assunti con gli Alleati. Egli però non abdicò (lo avrebbe fatto soltanto nel maggio del 1946), come molti, anche tra i più convinti sostenitori della monarchia, gli consigliarono di fare al fine di salvare la Corona, troppo compromessa con il passato regime fascista. Il Re, inoltre, si era screditato per il modo autoritario e contraddittorio[2] con il quale aveva gestito il potere dopo il 25 luglio 1943 (a tale proposito si parlò addirittura di «fascismo senza Mussolini»), in particolare per aver precipitosamente abbandonato la capitale la mattina del 9 settembre, consegnandola indifesa in mano ai nemici, e per aver lasciato l’esercito senza ordini precisi e senza capi — che avevano seguito il Sovrano in fuga verso Pescara — in quei momenti decisivi.
Tutti i partiti politici che facevano parte del Comitato di Liberazione Nazionale (Cln) e che nel frattempo si erano andati ricostituendo o riorganizzando, dopo lunghi anni di assenza dalla scena politica nazionale, chiesero l’abdicazione del Re o la nomina al suo posto di un luogotenente, e non erano disposti a collaborare con un Governo che avesse giurato fedeltà nelle sue mani. Anche gli Alleati spingevano verso una soluzione di questo tipo. Per essi però era più urgente che il nuovo Governo — l’Italia, che nel mese di ottobre aveva dichiarato guerra alla Germania, era stata dichiarata potenza cobelligerante — si impegnasse a continuare insieme con loro la guerra contro i nazisti, rimandando a dopo la liberazione del Paese la soluzione del problema istituzionale. Per il momento tutte le forze politiche si erano impegnate con gli Alleati a non sollevare questo problema e a concentrare tutte le forze, allo scopo di allontanare dall’Italia l’esercito invasore.
In ogni caso fu Togliatti, che ritornò in Italia nel marzo del 1944 dopo una lunga permanenza a Mosca, a dettare l’indirizzo politico che i partiti del Cln avrebbero poi seguito. In una conferenza stampa del 31 marzo egli fissò i punti cardine del programma comunista: tregua istituzionale, unità tra le forze antifasciste e formazione di un Governo di unità nazionale, rinvio alla fine della guerra della soluzione della questione istituzionale. In realtà egli si faceva semplicemente portavoce di ordini ricevuti dal Cremlino. Stalin infatti voleva che i comunisti italiani entrassero in un Governo di unità nazionale, presieduto da Badoglio, e che esso desse la preminenza alla lotta contro il nazifascismo rispetto a ogni altra questione. Si pensava infatti che in quel momento un rovesciamento della monarchia — alla quale la maggior parte dell’esercito era ancora fedele — avrebbe potuto nuocere fortemente al conseguimento di tale obiettivo[3].
Mentre, come si è detto, sulle lontane spiagge della Normandia sbarcavano, sotto i micidiali colpi dell’artiglieria nazista, gli Alleati, il principe Umberto iniziò, il 6 giugno 1944, il suo periodo di luogotenenza, che durò meno di due anni. Prima di lasciare l’Italia meridionale, affidò al maresciallo Badoglio l’incarico di formare un nuovo Governo, di cui dovevano far parte i rappresentanti del Cln romano. Questi però si dichiararono contrari a entrare in un Gabinetto presieduto da Badoglio, a motivo del suo passato fascista, e proposero che la Presidenza del Consiglio venisse affidata a Ivanoe Bonomi, capo del Cln[4]. Tale soluzione fu caldeggiata anche dal generale Frank Noel Mason-MacFarlane, responsabile della Commissione Alleata di Controllo. Egli affermò che era desiderio degli Alleati che venisse costituito un Governo il più possibile rappresentativo delle forze politiche attive nella resistenza contro il nazismo, precisando che tale Ministero avrebbe dovuto farsi carico degli obblighi assunti da quello precedente e che non avrebbe messo in discussione il problema istituzionale[5].
Umberto accettò la proposta del Cln, e così fu creato un Governo di coalizione nazionale (18 giugno – 12 dicembre 1944) nel quale erano rappresentati tutti i partiti politici che partecipavano alla Resistenza, ad eccezione dei repubblicani, a motivo della loro pregiudiziale antimonarchica. In questo modo venivano poste le premesse per la nascita, secondo una definizione cara allo storico Pietro Scoppola, dello Stato (e successivamente della Repubblica) dei partiti[6].
I membri del nuovo Governo, alla presenza del Luogotenente, che si trovava a Napoli, si impegnarono (ma senza un giuramento formale) a esercitare le loro funzioni «per i supremi interessi della nazione e di non commettere alcun atto che possa in qualche maniera pregiudicare la soluzione del problema istituzionale, prima della convocazione dell’Assemblea Costituente». Il Consiglio dei Ministri si riunì per la prima volta il 23 giugno a Salerno, e in quell’incontro fu approvato un importante decreto-legge che riprendeva il contenuto dell’accordo politico previamente stipulato, al momento della formazione del Governo, tra i partiti politici che lo sostenevano[7].
L’art. 1 del decreto stabiliva che dopo la liberazione del territorio nazionale le forme istituzionali sarebbero state scelte dal popolo italiano, che a tal fine avrebbe anche eletto a «suffragio universale diretto e segreto un’Assemblea Costituente, per deliberare la nuova Costituzione dello Stato». Le forze politiche, a seconda delle loro preferenze ideologico-politiche o interessi di parte, diedero successivamente a tale norma un’interpretazione ora stretta (nel senso che lasciava insoluta la questione del nodo istituzionale), ora larga (nel senso che assegnava all’Assemblea eletta dal popolo il potere di decidere anche in questa materia).
L’articolo 2 del decreto invece prevedeva la convocazione di un Parlamento nazionale entro 4 mesi dalla fine della guerra. Gli articoli 4 e 5 attribuivano al Governo la potestà legislativa, il potere cioè di emettere decreti aventi valore di legge, senza la clausola della successiva presentazione al Parlamento per la loro convalida. Questa norma sarebbe poi sopravvissuta in un primo tempo anche alla Costituente e avrebbe lasciato al Governo il controllo dell’attività legislativa fino alla primavera del 1948[8].
Tale decreto, frutto di faticosi compromessi politici e insieme di volontà di mediazione, fu poi interpretato dai partiti del Cln in modi differenti: secondo alcuni (socialisti, e in particolare azionisti), con la sua promulgazione ogni potere sarebbe stato avocato al Cln e si sarebbe così operata una soppressione di fatto della monarchia; invece, secondo altri (liberali, democristiani ecc.), esso avrebbe lasciato impregiudicata la soluzione del problema istituzionale, non apportando nessuna sostanziale modifica all’ordinamento preesistente.
Per i primi, si trattava di recidere ogni legame con il passato fascista e monarchico, e ciò poteva esser fatto soltanto accentrando i poteri di indirizzo politico e programmatico nel Cln. Così si rendeva quest’ultimo depositario di un potere alternativo rispetto a quello «ufficiale», ormai screditato davanti al Paese, e su questo potere si sarebbe potuto poi ricostruire il nuovo ordinamento dello Stato repubblicano. Per gli altri, invece, si trattava di agganciare la nuova compagine istituzionale a quella democratico-liberale degli ordinamenti pre-fascisti, limitando il più possibile i poteri del Cln[9].
Sebbene il suddetto decreto fissasse norme — non sempre però sufficientemente chiare — per disciplinare quel difficile periodo di transizione, c’era tuttavia tra le forze politiche un profondo disaccordo sul modo in cui si sarebbe dovuta risolvere la questione istituzionale. Secondo i partiti di sinistra, doveva essere un’Assemblea Costituente liberamente eletta a scegliere se l’Italia dovesse rimanere monarchica o diventare repubblicana, come essi avrebbero desiderato. Secondo altri partiti (la DC, i liberali ecc.), il popolo stesso avrebbe dovuto scegliere la forma istituzionale dello Stato mediante plebiscito o referendum. Gli Alleati erano favorevoli a quest’ultima soluzione[10].
Anche Umberto dichiarò, in un’intervista rilasciata al New York Times alla fine di ottobre — intervista che gli attirò le ire della sinistra, che lo accusava di violare la «tregua istituzionale» —, che un plebiscito avrebbe espresso la volontà popolare su tale questione meglio di una decisione presa da un organo di mediazione, quale poteva essere l’Assemblea Costituente, anche se eletto democraticamente[11]. Una tale assemblea infatti, come ritenevano molti moderati, poteva essere facilmente manovrata dalle decisioni di leader particolarmente influenti, quali erano all’epoca Togliatti e Nenni. Nella stessa intervista re Umberto disse che era contrario alla creazione di un partito monarchico, perché era compito della Corona tenersi al di sopra delle parti e quindi fuori dello scontro politico, in modo da garantire il corretto funzionamento della macchina istituzionale dello Stato. Aggiunse che la monarchia avrebbe garantito meglio — eliminando il rischio di una dittatura presidenziale, insito nei regimi repubblicani deboli — lo spostamento a sinistra dell’indirizzo politico nazionale e che avrebbe visto con favore un Governo capeggiato dalle sinistre. Anzi, confessò di provare simpatia per Togliatti e di considerarlo un uomo politico di valore[12]. Esternazioni, queste, che gli alienarono la simpatia e anche la stima di alcuni settori del mondo conservatore italiano, nonché di una parte del mondo cattolico.
Alcuni provvedimenti emanati dal Governo Bonomi — sollecitati non soltanto dalle forze di sinistra, ma anche dagli Alleati — erano diretti a «defascistizzare» il Paese, a epurare cioè l’amministrazione dello Stato dalla presenza di ex-collaborazionisti fascisti che ancora vi occupavano posti di rilievo. Fu inoltre istituito un Alto Commissariato per la punizione dei delitti commessi dai fascisti e degli illeciti arricchimenti avvenuti sotto il regime, presieduto dal conte Carlo Sforza, il quale si dimise dall’incarico nel novembre del 1944, dopo aver fallito nel tentativo di incriminare il maresciallo Badoglio[13]. In realtà, il primo provvedimento in materia di «profitti di regime» era stato emanato dal Governo Badoglio il 9 agosto 1943. Esso dichiarava devoluti allo Stato i beni appartenenti a persone che, avendo ricoperto cariche pubbliche e avendo esercitato attività politiche durante il periodo decorso dal 28 ottobre 1922 al 24 luglio 1943, avevano conseguito «un rapido, rilevante accrescimento del loro patrimonio, di cui non sia data giustificazione». Su questa materia era chiamata a giudicare una speciale Commissione, composta tutta di magistrati, che agiva su istanza dei prefetti o degli intendenti di finanza.
Questa legislazione fu successivamente integrata, sotto il Governo Bonomi, con il regio decreto luogotenenziale del luglio 1944 che, fra le altre cose, disponeva che i patrimoni acquisiti dai gerarchi fascisti fossero considerati indistintamente di provenienza illecita. Con un nuovo decreto del luglio 1944 si stabilì inoltre che l’onere della prova sui beni contestati non era più a carico del «fisco accusatore», ma dell’accusato. Questa normativa fu criticata da diversi giuristi, sia liberali sia cattolici, e giudicata arbitraria e contraria al diritto comune anche dai vertici vaticani. In una relazione redatta in ambiente ecclesiastico (di cui fu inviata una copia alla Civiltà Cattolica) e probabilmente sollecitata da persone colpite dalla suddetta legislazione, si legge a tale proposito: «Questa normativa viola per la prima volta nella legislazione italiana il principio secondo il quale, in materia di responsabilità da comportamento illecito, non sono ammesse presunzioni di colpevolezza e non può esservi condanna del cittadino, nella persona e nei beni, se non in base all’accertamento della verità reale, in regolare contraddittorio e con il rispetto dei diritti della difesa»[14]. Oltre a questo — è detto nella relazione — il nuovo decreto modificava anche il sistema delle garanzie legali dell’accusato, in quanto la trattazione della causa veniva affidata non a un Collegio di magistrati (come prevedeva il decreto del 1943), ma a una sezione speciale della Commissione provinciale delle imposte[15].
Secondo la suddetta relazione, questa normativa si sarebbe basata su un presupposto errato: il concetto di profitto come materia tassabile agli effetti fiscali è sempre collegato allo svolgimento di un’attività economica, mentre in questo caso esso era legato alla semplice appartenenza del titolare del bene all’ex-partito fascista. Nel quadro fiscale «non vi è posto — continuava la relazione —, e non può esservene, per un tributo che porti il nome di profitto di regime; si tratta di null’altro che della riesumazione di uno strumento di vendetta politica, già usato in epoche che si era usi qualificare, rispetto alla nostra, incivili, e che si credeva per sempre caduto in disuso. In verità si tratta di una forma larvata di “confisca dei beni dei nemici politici” per danneggiarli economicamente, per estrometterli possibilmente dai quadri della classe politica della Nazione e pertanto colpirli coinvolgendo i familiari»[16].
Questa relazione, pur sottolineando giusti princìpi di equità giuridica, propri della scuola liberale, non teneva però conto dell’eccezionalità del momento storico e delle finalità di ordine non soltanto pratico (cioè economico), ma soprattutto politico, che la legislazione intendeva raggiungere con tale normativa volutamente punitiva. Insomma, come si evince dalla relazione stessa, per parte del mondo cattolico la concezione formale e garantista del diritto andava in ogni caso tutelata, dimenticando la dottrina — sostenuta in passato anche da alcuni gesuiti[17] — secondo la quale è il «fatto», la situazione concreta, quando non è contrario alla norma morale, che crea e dà forza al diritto positivo. Va però anche ricordato che in quel particolare momento storico la paura di un Governo totalmente in mano alle sinistre aveva indotto le autorità vaticane e le forze politiche moderate ad assumere su questa materia una linea di moderazione e di difesa dei princìpi dell’ordinamento giuridico liberale.
Alla fine la politica ciellenista di defascistizzazione e di epurazione, probabilmente anche per la sua radicalità e durezza, non ottenne i risultati sperati: negli anni successivi, quando il peso della sinistra diminuì nella gestione dello Stato, ci si orientò verso la «continuità» nella gestione amministrativa dello Stato e degli organi pubblici[18]. A questo riguardo, lo storico Hans Woller scrive che l’Italia «si è prima sottoposta a una cura assai drastica e in seguito si è proclamata guarita rifiutando ogni ulteriore terapia»[19].
In materia di defascistizzazione dello Stato, il 26 giugno si pubblicò un primo elenco dei processi per i quali era già iniziata l’istruzione (in esso figurava anche il nome di Dino Grandi), e il 5 luglio furono resi noti i nomi dei 25 professori fascisti dell’Università di Roma esonerati dall’insegnamento. La materia dell’epurazione fu molto discussa in quelle settimane, e fu utilizzata a volte in modo strumentale da alcune forze politiche per colpire determinate persone o per screditare gli avversari.
A causa di questa materia incandescente il primo Governo Bonomi entrò in crisi nel novembre 1945. A questo Governo ne seguì un secondo (12 dicembre – 21 giugno 1945), al quale però non parteciparono né i socialisti né gli azionisti: il sogno della concordia o unità ciellenista veniva così definitivamente infranto, mentre emergeva la dura realtà del frazionamento interno e della distanza politica e ideologica che esisteva fra i partiti che facevano parte del Governo.
Dal Governo Parri al primo Governo De Gasperi
Dopo la liberazione del Nord Italia e l’uccisione di Mussolini si formò, nel giugno del 1945, con tutti i sei partiti rappresentati nei Cln, un nuovo Governo, presieduto dall’azionista Ferruccio Parri (21 giugno – 10 dicembre 1945), che era stato il capo dei partigiani del Nord Italia e che godeva di grande prestigio morale presso tutte le forze politiche e nel Paese. La formazione di tale Gabinetto fu accompagnata da una certa retorica antifascista, molto sentita a quel tempo e sapientemente sfruttata a fini politici dai partiti che avevano partecipato alla Liberazione.
Il Governo Parri fu presentato come il primo della nuova Italia, nata dalla Resistenza. In esso, si diceva, si voleva dare voce a quello che Nenni aveva definito il «vento del Nord», e ciò avvenne sostanzialmente accogliendo nel nuovo Governo nazionale i rappresentanti del Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia (Clnai), in cui i partiti di sinistra avevano un peso considerevole. In questo modo si voleva anche evitare ogni tentazione insurrezionalista o rivoluzionaria fortemente auspicata da alcuni dei suoi capi più estremisti. Questa manovra politica servì alla fine per ricompattare la «sinistra nazionale» sotto l’ala protettrice del più moderato Cln romano-meridionale. Inoltre, essa fu utilizzata dalle sinistre per guadagnare i ministeri più importanti (come, ad esempio, quello degli Interni) in vista soprattutto degli imminenti appuntamenti elettorali.
I partiti moderati accettarono questa operazione, a patto però che venissero svuotati di ogni potere politico gli organi locali del Cln — che fungevano da organi consultivi dei prefetti e delle amministrazioni municipali — e che venisse assicurato il carattere interpartitico e soprattutto transitorio del Cln nazionale, riaffermando il primato dei partiti politici nel funzionamento dell’organismo istituzionale ed eliminando ogni ipotesi di gestione ciellenista della transizione politico-istituzionale in corso.
Il «Governo della Resistenza», se ebbe un alto valore simbolico in ordine alla ritrovata unità nazionale, fallì dal punto di vista operativo[20]. Esso non riuscì a far fronte ai gravi problemi che il Paese viveva in quel momento, come, ad esempio, quelli del separatismo siciliano, delle lotte mezzadrili nelle campagne e, soprattutto, quello della dilagante violenza politica delle vendette incrociate. Esso creava nel Paese un forte senso di insicurezza e di instabilità e metteva dappertutto a rischio l’ordine pubblico e la pace sociale, mentre gli Alleati, dal canto loro, minacciavano di far cessare gli aiuti economici se il Governo non avesse agito con fermezza su questo punto.
Il Governo Parri, inoltre, in politica estera non riuscì a esprimere un indirizzo politico unitario: su molte questioni che a quel tempo erano all’ordine del giorno le forze politiche che lo sostenevano avevano idee a volte non soltanto diverse, ma addirittura opposte. Spesso ciò che era confermato a Londra — è stato detto a ragione — veniva contemporaneamente smentito a Roma. Così il Governo nato dalla Resistenza e dalla lotta antifascista fu costretto, dopo neppure sette mesi di vita, a passare il testimone ad altri.
Fu il partito liberale a chiedere le dimissioni del Governo Parri, a motivo, si diceva, della sua inefficienza nella direzione della cosa pubblica e per la mancanza di unità di orientamento, in particolare in materia di politica estera, nonché di «carenza di competenza» e di «meccanica distribuzione dei ministeri». I liberali proposero un Gabinetto presieduto da un uomo politico di vasta esperienza, politicamente non legato ai partiti politici, e la partecipazione ad esso di uomini di indiscussa competenza, anche se non appartenenti ai partiti dell’esarchia. I primi tentativi di formare un nuovo Gabinetto naufragarono per l’opposizione delle sinistre alle candidature di uomini di «provata esperienza», quali erano Orlando, Bonomi e Nitti.
Il 4 dicembre i liberali presentarono un loro programma in dieci punti come condizione per una loro partecipazione al nuovo Governo. In esso si chiedeva: 1) unità di atteggiamento di tutti i ministri nella difesa degli interessi nazionali di fronte all’estero: unità che a dire il vero era mancata nel Governo Parri, per esempio nella questione dei confini orientali con la Iugoslavia; 2) consolidamento dell’autorità dello Stato e conseguente eliminazione di «ogni interferenza di singoli partiti, di Cln e di altri organi eccezionali»; 3) rapido avviamento alle condizioni di pubblica tranquillità, necessarie per un ordinato svolgimento delle elezioni; 4) sostituzione dei prefetti e dei questori politici; 5) chiusura entro febbraio di tutti i procedimenti di epurazione; 6) abolizione delle procedure speciali, ripristino nel processo penale della giuria popolare e soppressione del confino di polizia; 7) garanzia per la libertà di lavoro; 8) rispetto dell’indipendenza della magistratura; 9) libertà di stampa e imparzialità del servizio radio; 10) inizio immediato delle elezioni amministrative comunali e rapida preparazione delle elezioni per l’Assemblea Costituente[21].
I partiti di sinistra ritenevano inaccettabili alcuni punti di tale programma, che invece fu accolto favorevolmente dai partiti moderati, in particolare dalla Democrazia Cristiana. Il segretario politico di questa, Alcide De Gasperi, notò che esisteva una larga convergenza tra i suddetti punti e lo schema di programma che egli aveva presentato per la discussione comune. Inoltre si impegnò a persuadere i liberali a riprendere le trattative con gli altri partiti del Cln, e quindi a partecipare al nuovo Governo. Intanto il 6 giugno fu incaricato dai segretari politici dei partiti del Cln (e poi designato ufficialmente dal Luogotenente) di formare un nuovo Governo a cinque, cioè senza i liberali.
Con pazienza mirabile, De Gasperi continuò l’opera di persuasione nei confronti dei liberali, ottenendo la loro partecipazione al Governo; in questo modo fu ricostituita l’esarchia e allargata la base politica di consenso al nuovo ministero. In più, i liberali si impegnarono ad abbandonare la direzione del ministero degli Interni, che fu assunto dal socialista Giuseppe Romita, a condizione però che l’autorità dello Stato venisse ripristinata ed esercitata dai suoi organi costituzionali e non da quelli politici, quale era di fatto il Cln, e che si ponesse termine alla fin troppo abusata legislazione di urgenza.
Il programma politico presentato da De Gasperi, che ottenne l’approvazione dell’esarchia, accolse la maggior parte di queste istanze, che in realtà erano anche quelle della Dc. Nel discorso programmatico egli disse che il nuovo Governo si proponeva «la sostituzione rapida e progressiva degli organi esecutivi e amministrativi provvisori, costituiti per necessità di emergenza, con normali organi rappresentativi della esclusiva e superiore volontà e autorità dello Stato e con gli organi statutari previsti per i singoli enti o amministrazioni; la riassunzione da parte dei competenti organi o enti pubblici di tutte le funzioni amministrative o esecutive loro proprie, comprese quelle esercitate, spesso con molta benemerenza, dai Cln ai fini della lotta di liberazione e in dipendenza delle condizioni straordinarie dell’occupazione o della mancata funzionalità dell’apparato statale»[22].
I podcast de “La Civiltà Cattolica” | LA VIOLENZA CONTRO LE DONNE
Da parecchio tempo, le cronache italiane sono colme di delitti perpetrati contro le donne. Il fenomeno riguarda tutte le età e condizioni sociali, tanto da sembrare endemico nella nostra società. A questo tema è dedicato un episodio monografico di Ipertesti Focus, il podcast de «La Civiltà Cattolica».
In realtà il nuovo Governo (10 dicembre 1945 – 13 luglio 1946) accolse soltanto in parte le richieste avanzate dai liberali. La crisi scoppiata per dar luogo a un Presidente estraneo al Cln si concluse con l’affidamento della Presidenza del Consiglio a uno dei capi dei sei partiti presenti in quell’organismo di indirizzo politico, e le famose «competenze» dei ministri, richieste a gran voce dai liberali, rimasero un pio desiderio senza conseguenze pratiche di rilievo, come anche il tentativo di togliere ai comunisti il Ministero della giustizia, che era stato affidato a Togliatti nel Governo Parri. La crisi, insomma, nonostante le dimostrazioni di forza che si fecero sia a destra sia a sinistra, si ridusse alla fine a un semplice rimpasto governativo, da cui uscirono rafforzati i democristiani, che guadagnarono la Presidenza del Consiglio, e i socialisti, che sostituirono i liberali nel ministero degli Interni.
In ogni caso, il Governo di coalizione diretto da De Gasperi, nonostante i difficili problemi economici e sociali che dovette affrontare, riuscì a indirizzare il Paese verso la ripresa economica e a riordinare le sue istituzioni democratiche. Per la prima volta nella storia politica dell’Italia un cattolico militante, leader di un partito di ispirazione cristiana, assumeva la guida del Governo: il che si sarebbe ripetuto ancora negli anni e decenni successivi, non sulla base della designazione dei partiti politici, ma per mandato del corpo elettorale[23].
Nella primavera del 1946, durante il Governo De Gasperi, avvennero fatti molto importanti che avrebbero segnato in modo decisivo la storia politico-istituzionale dell’Italia contemporanea. In questo periodo furono indette le prime elezioni amministrative, e i maggiori partiti politici tennero i loro primi Congressi nazionali del dopoguerra[24]. Il corpo elettorale — si votava per la prima volta a suffragio universale maschile e femminile — fu chiamato a pronunciarsi sulla questione istituzionale e ad eleggere l’Assemblea Costituente, incaricata di riscrivere una nuova Carta costituzionale in sostituzione del vecchio Statuto albertino, a quel tempo ancora in vigore.
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[1]. Citato in M. Gaggi, «Obama: la spiaggia di Normandia testa di ponte della democrazia», in Il Corriere della Sera, 7 giugno 2014, 3.
[2]. Il Re fece divulgare da Badoglio, che pare non fosse convinto della decisione presa dal sovrano, la «bugia diplomatica», come la chiamò Pio XII, che la guerra a fianco dei tedeschi sarebbe continuata, mentre nel frattempo il suo Governo iniziava a prendere contatti con gli Alleati per arrivare alla firma di un armistizio. Il direttore della Civiltà Cattolica, riportando il pensiero del Papa su questo tema, disse: «Quanto al modo con cui si è concluso l’armistizio, disse il Santo Padre di disapprovare la “bugia diplomatica”, e dichiarò di non essersene mai personalmente servito» (ACC, Diario delle consulte,fondo non ordinato, 11 ottobre 1943). Su tutta questa materia, cfr E. Aga Rossi, Una nazione allo sbando. L’armistizio italiano del settembre 1943 e le sue conseguenze,Bologna, il Mulino, 2006.
[3]. Cfr E. Aga Rossi – V. Zaslavky, Togliatti e Stalin. Il Pci e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca,Bologna, il Mulino, 1997, 89 s; A. G. Ricci, La Repubblica, Bologna, il Mulino, 2001, 156-57; A. Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1943 al 1998,Bologna, il Mulino, 1999.
[4]. Ivanoe Bonomi era stato Presidente del Consiglio negli anni prima del fascismo (dal 1921 al 1922) e insignito da Vittorio Emanuele III del prestigioso Collare dell’Annunziata, la massima onorificenza di Casa Savoia.
[5]. L’influsso degli Alleati, in particolare degli Stati Uniti, negli eventi politico-istituzionali dell’Italia post-fascista fu molto grande. «In primo luogo — scrive a questo proposito Federico Romero — perché fu il primo Paese liberato, e a lungo occupato, dalle armi alleate. In secondo luogo perché il crollo del fascismo e l’ambiguo, frammentato passaggio dalla condizione di nemico delle Nazioni Unite a quella di cobelligerante […] travolgevano la continuità dello Stato nazionale fino a inficiarne l’identità, subordinando perciò il Paese agli influssi della potenza egemone e appendolo maggiormente alle suggestioni del suo modello» (F. Romero, «Gli Stati Uniti in Italia», in Storia dell’Italia repubblicana. I. La costruzione della democrazia. Dalla caduta del fascismo agli anni cinquanta, Torino, Einaudi, 1994, 233). Su questa materia, cfr D. W. Elwood, L’alleato nemico. La politica dell’occupazione angloamericana in Italia, 1943 – 1946,Milano, Feltrinelli, 1977; R. Gaja, L’Italia nel mondo bipolare. Per una storia della politica estera italiana,Bologna, il Mulino, 1995; N. Tranfaglia, Come nasce la Repubblica. La mafia, il Vaticano e il neofascismo nei documenti americani e italiani 1943-1947, Milano, Bompiani, 2004.
[6]. Cfr P. Scoppola, La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico: 1945-1996,Bologna, il Mulino, 1997, 91 s.
[7]. Si tratta del noto decreto luogotenenziale del 25 giugno 1944, n. 151.
[8]. Cfr N. Tranfaglia, Come nasce la Repubblica…,cit., 21.
[9] . Cfr C. Pavone, Alle origini della repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato,Torino, Bollati Boringhieri, 1995, 113 s.
[10]. A. Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1943 al 1998,cit., 71.
[11]. Cfr H. Matthews, in New York Times,1° novembre 1944. Questa intervista era stata rivista e approvata anche dal presidente del Consiglio Bonomi, che era di sentimenti monarchici.
[12]. Tuttavia una volta confidò di trovare Togliatti un buon compagno di conversazione, «ma di temere che egli adattasse le proprie parole all’interlocutore» (citato in D. M. Smith, I Savoia. Storia dei Re d’Italia,Milano, Rizzoli, 2002, 431).
[13]. Cfr N. Tranfaglia, Come nasce la Repubblica…,cit., 22.
[14]. ACC, Fondo p. Martegani, XV, 3, 2.
[15]. Anche il Governo De Gasperi intervenne successivamente su questa materia, che stava particolarmente a cuore ai partiti della sinistra, dettando regole integrative e norme di attuazione della legislazione precedente (D.L.L. 26 marzo 1946, n. 134).
[16]. ACC, Fondo p. Martegani,XV, 3, 2.
[17]. Cfr L. Taparelli D’Azeglio, Saggio teoretico di dritto naturale appoggiato sul fatto,Roma, Tipi della Civiltà Cattolica, 1855.
[18]. Cfr C. Pavone, Alle origini della repubblica…,cit., 50 s.
[19]. H. Woller, I conti con il fascismo. L’epurazione in Italia 1943-1948,Bologna, il Mulino, 2008, 45.
[20]. Cfr G. Bedeschi, La prima repubblica (1946-1993). Storia di una democrazia difficile,Soveria Mannelli (Cz), Rubbettino, 2013, 15.
[21]. Cfr «Cronaca contemporanea», in Civ. Catt. 1946 I 70 s.
[22]. De Gasperi continuava affermando: «Fino al ristabilimento delle normali amministrazioni comunali e provinciali i Cln potranno esercitare utili funzioni consultive e costituire comunque organismi di collegamento e cooperazione tra i partiti; l’abolizione più rapida delle misure e degli organi eccezionali; al quale riguardo corrisponde l’abolizione dell’Alto Commissariato e la già annunciata decisione di concludere l’epurazione prima delle elezioni per la Costituente; in quanto al ritorno all’ordinamento tradizionale delle Corti Penali con le giurie popolari e con la competenza estesa anche ai reati politici, l’attuale Ministro di Grazia e Giustizia ha già dichiarato che un relativo provvedimento di legge è già in stadio di avanzata preparazione» (ivi, 72).
[23]. F. Malgeri, La stagione del centrismo. Politica e società nell’Italia del secondo dopoguerra (1945-1960),Soveria Mannelli (Cz), Rubbettino, 2002, 21; P. Craveri, De Gasperi,Bologna, il Mulino, 2006, 158 s.
[24]. Cfr G. Sale, Dalla monarchia alla repubblica. 1943-1946. Santa Sede, cattolici italiani e referendum, Milano, Jaca Book, 2003; Id., De Gasperi, gli Usa e il Vaticano all’inizio della guerra fredda, Milano, Jaca Book, 2005.