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Medici a metà di Paolo Cattorini

Medici a metà

Quaderno 4025 - pag. 516 - 517

1 Marzo 2018


La medicina contemporanea è talora oggetto di rappresentazioni ambivalenti: da un lato, è venerata come una nuova religione secolare dotata di virtù onnipotenti e investita di compiti totalizzanti; dall’altro, è accostata con sospetto, diffidenza e persino risentimento, come se i suoi limiti fossero stati nascosti dietro un fumoso linguaggio esoterico e i suoi cultori non si fossero sempre assunti una leale, fattiva responsabilità assistenziale verso il singolo soggetto sofferente. L’enfasi sulle prestazioni tecnologiche, le forme collettive del lavoro d’équipe, il peso delle mansioni burocratiche e certe pressioni aziendalistiche avrebbero concorso a un disimpegno umano dei professionisti e avrebbero conseguentemente disorientato i profani, posti di fronte a scelte delicate e complesse. L’ottica specialistica avrebbe frantumato la relazione medico-paziente e impoverito le capacità di sintesi nell’indicare le decisioni terapeutiche appropriate per una determinata persona, che attraversi la sua originale e irripetibile storia di malattia.

Rugarli, noto immunologo clinico, professore emerito presso l’Università «Vita-Salute San Raffaele» di Milano, offre una prospettiva preziosa non solo nel denunciare antiche carenze, ma anche nel proporre un’interpretazione unitaria: la clinica non è una scienza, né una tecnica applicata, ma una pratica di cura, un’attività decisionale razionale. Su questo orizzonte s’innesta la tagliente contestazione di alcuni pregiudizi che contribuiscono alla disumanizzazione della medicina: la fallace opinione che quanto più tecnologica è un’indagine, tanto più è informativa e preferibile; la rinuncia riflettere e a formulare ipotesi, incrementando a dismisura il numero degli esami di laboratorio; la scarsa valutazione del ruolo del medico di medicina generale.

Soprattutto grave è la scissione fra aspetti oggettivi della malattia e le sue dimensioni soggettive, esistenziali, relazionali, affettive. Alla dimenticanza di queste ultime non si può rimediare con generiche esortazioni alla gentilezza, alle virtù e all’empatia, né impartendo sbrigativamente qualche nozione di psicologia, ma rifondando il carattere della clinica come alleanza, secondo la lezione dello psichiatra e filosofo Karl Jaspers.

Il volume intesse ricordi biografici con riflessioni di ordine culturale generale (su caso ed evoluzione, su vitalismo e materialismo), con pagine di divulgazione scientifica (gli anticorpi monoclonali, la nosologia, la logica bayesiana e quella fuzzy), con sintesi storiografiche (la medicina si sarebbe evoluta da un’era fenomenico-dottrinale a un’era semeiotica e poi tecnologica e informatica) e con personali valutazioni di bioetica su temi estremamente controversi.

Ci soffermiamo qui su alcune convincenti considerazioni formative. L’incontro tra alleati esige anzitutto una comunicazione veritiera, comprensibile, non traumatizzante, aperta a una ragionevole speranza. A volte il medico, purtroppo, è eccessivamente laconico, oppure si esprime in termini gergali; in tal modo non riesce a mostrare che «lo stato morboso è in realtà un cimento nel quale il paziente può avere una parte consapevole e attiva» (p. 78).

Le scuole di medicina saranno impegnate in una vera e propria rivoluzione metodologica, se punteranno sulla valutazione della capacità degli studenti di parlare in forma adeguata agli ammalati. «Io considero questo il primo passo del metodo clinico, e il medico che comunica bene deve essere considerato anche tecnicamente meglio preparato di chi è incapace di farlo» (p. 81). La comunicazione infatti ha effetti bidirezionali: consente al medico stesso di osservare meglio e di «imparare» dalle storie cliniche (p. 145).

Un accenno, infine, all’importanza della letteratura nella comprensione delle dimensioni antropologiche della sofferenza e della cura. Poiché la clinica si trova all’intersezione fra le scienze umane e quelle della natura, «mi azzardo a dire che, a parità di preparazione specifica, tra un medico che abbia letto Dostoevskij o Flaubert, tanto per fare un paio di esempi, e uno che non li abbia letti, penso che sia più bravo come clinico il primo», per il fatto che «chi ha passione per la lettura e conosce i classici ha anche predisposizione a comprendere le vicende umane e a far bene il medico» (p. 169).

CLAUDIO RUGARLI
Medici a metà. Quello che manca nella relazione di cura
Milano, Raffaello Cortina 2017, 186, € 18,00.


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