|
Il tema delle emozioni è estremamente complesso, sia per le discipline che se ne sono occupate, sia per la difficoltà stessa a precisarne il significato all’interno di una famiglia di termini affini, spesso considerati sinonimi: sentimenti, affetti, passioni. Emergono grandi distinzioni: le emozioni basilari, universali e facilmente riconoscibili (gioia, tristezza, rabbia, paura, disgusto). Ci sono poi le emozioni complesse (invidia, gelosia, orgoglio, nostalgia ecc.), che hanno una durata più lunga e plasmano un atteggiamento stabile, l’umore.
Il libro si sofferma in particolare sulle emozioni suscitate in sede artistica (nei confronti di un quadro, un romanzo, un film, una musica) e sul modo in cui vengono rappresentate dai loro autori. È possibile stabilire somiglianze e differenze in questa complessa tipologia? Che si tratti di realtà o di finzione, l’emozione suscitata è la stessa: la paura è sempre tale, sia che riguardi un pericolo sia la visione di un film; ciò che fa la differenza è l’atteggiamento con il quale ci si raffronta alla situazione. Emozione e cognizione, finzione e realtà stanno su un equilibrio sempre precario, ma che non può essere confuso.
L’autore prende a esempio il protagonista de L’opera di Zola, che dipinge l’agonia del figlio «perché affascinato dalle espressioni che vi coglie» (p. 138), il che nella vita reale sarebbe ritenuto giustamente una cosa orribile. La rappresentazione delle emozioni richiede una presa di distanza che nella realtà apparirebbe problematica: «Se nella vita reale Carducci avesse espresso il suo dolore [per la morte del figlio] a rime baciate anziché con urla e pianti, probabilmente la gente avrebbe pensato che era impazzito» (p. 182).
Questa compresenza, a livelli differenti, di emozione e cognizione è ancora più evidente se si pensa a colui che ha fatto delle emozioni una professione: egli deve provare ciò che rappresenta? Evidentemente no. «Difficile immaginare un artista figurativo disgustato mentre assembla elementi che susciteranno disgusto, o uno scrittore arrabbiato mentre racconta una storia che magari ci farà arrabbiare (ma non con lui; eventualmente con i responsabili della storia)» (p. 182). La presa di distanza in questi casi è ancora più importante per la riuscita dell’opera: «Il musicista comporrà fughe o sinfonie, con uno schema compositivo preesistente, relativamente fisso, e spesso di grande complessità tecnica» (p. 183).
La distanza diviene ancora più palese quando, come nel caso di un film, si richiede la collaborazione di molte persone. Proprio la conoscenza di queste tecniche consente all’attore di comunicare precise emozioni al suo pubblico, al contrario di chi, coinvolto dall’emozione, si trova impossibilitato a esprimerla. Questo non significa che l’attore sia privo di emozioni, tuttavia egli le vive in modi differenti: «In primo luogo, la scena è […] un “luogo magico”; la reazione del pubblico agisce come moltiplicatore dell’esperienza emozionale dell’attore; infine, la tensione emotiva che precede l’andata in scena può trasformarsi in emozioni di tipo diverso» (p. 194).
È fondamentale distinguere emozioni reali da emozioni rappresentate per tutelarsi dal loro potere tirannico-manipolatorio, illudendosi di condividere una situazione solo perché si provano delle emozioni. È il rischio del virtuale. L’autore riferisce come esempio la realizzazione Carne y arena del regista Iñárritu, allestita alla Fondazione Prada di Milano nel 2017. I partecipanti, dotati di cuffie e visori, rivivono la situazione del rifugiato (onde del mare, fucili delle guardie, rumori di elicotteri ecc.) e così possono rendersi conto di «cosa si prova a essere un migrante» (p. 7). Ma essi hanno davvero vissuto tale esperienza? La morte di una persona cara, amputazioni, percosse, lo stigma, tutto questo può essere simulato da una rappresentazione? Per l’autore, risulta ipocrita e irritante «pensare che la vera sofferenza di una persona che ha lasciato la propria casa, che non si sa se riuscirà mai ad arrivare dove vorrebbe […], consista nel freddo sotto i piedi o nella luce negli occhi» (p. 9).
Mantenere la differenza tra emozioni vissute ed emozioni comunicate è fondamentale per la comprensione e la pietà che, come notava già Aristotele, richiede «compartecipazione, ma non esclude la percezione della differenza tra sé e l’oggetto della pietà» (p. 211). L’incomprensione di ciò rende Carne y arena – e i suoi derivati – non una forma di condivisione, ma una mancanza di rispetto, offensiva per chi soffre.
PAOLO D’ANGELO
La tirannia delle emozioni
Bologna, il Mulino, 2020, 240, € 22,00.