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Il counseling è uno strumento di lavoro utile in varie situazioni: scuole, parrocchie, centri d’ascolto, attività sociali; e questo libro intende offrire una valida metodologia, con l’obiettivo di dare struttura e sistematicità all’intervento del counselor.
Il counseling ha lo scopo di facilitare le relazioni in un percorso «basato sulla comunicazione in cui, attraverso la dimensione empatica, si realizza una alleanza terapeutica efficace» (p. 63). Il gesuita p. Vittorio Soana, psicologo e psicoterapeuta, presentando questa definizione, aggiunge che essa non è sufficiente: necessita di essere letta in un’apposita struttura che prevede quattro passaggi – domanda, accordo, programmazione, attività –, a loro volta suddivisi in ulteriori elementi che ne precisano il lavoro. L’obiettivo è quello di facilitare le relazioni, aiutando la persona a uscire dalla situazione di disagio in cui si trovava. Ciò di cui spesso la persona non è consapevole è la struttura di fondo che la imprigionava, il ruolo in essa giocato e le aspettative che vorrebbe raggiungere in modo negativo (indicato con il vocabolo «tornaconto»), senza però ottenere i risultati sperati. È quello che l’autore, con un termine noto all’analisi transazionale, chiama «il copione».
Nel corso del lavoro si cerca di evidenziare il copione per cambiarlo, consentendo alla persona di vivere in maniera più consapevole la piena espressione di sé, passando dal «tornaconto» al «guadagno». Nel fare ciò, il counselor considera le paure, lavora sull’aspetto più sensibile del corpo, delle emozioni, cercando di «scioglierle», di rendere la persona più disponibile a esprimere aspetti finora non consentiti, e quindi di intravedere strade differenti per affrontare il problema che è all’origine della richiesta di aiuto.
È un processo di decodifica degli elementi basilari del proprio patrimonio emozionale, senza tuttavia entrare nella profondità della psiche. Per questo il counseling non è una psicoterapia, alla quale però si può rimandare nel caso in cui le difficoltà siano il segnale di conflitti più profondi.
Il libro presenta la struttura articolata di questo processo, attraverso i quattro passaggi sopra menzionati. La domanda significa attenzione a ciò che ha spinto il cliente a chiedere aiuto, al problema presentato, ma anche all’atteggiamento che egli ha di fronte a esso. Scopo di questa fase è costruire l’alleanza, condizione indispensabile per il lavoro.
Nel secondo passaggio – l’accordo – si formula una prima valutazione del problema (se, in altre parole, esso non sia il sintomo di altre difficoltà più generali) e un possibile percorso terapeutico.
Il programma riprende i dati raccolti, li codifica per elaborare una mappa della personalità, esplicitando le ipotesi e le domande, probabilmente sorte fin dal primo incontro, e predisponendo un piano di trattamento, «gli elementi prognostici che il counselor sta attivando perché la persona possa raggiungere la sua sanità e meglio rispondere al suo problema» (p. 52).
Ciò è fondamentale per la fase successiva: il cambiamento del copione (l’attività). Questo era in qualche modo presente nelle fasi precedenti, ma ora il focus specifico è leggere gli elementi mostrati dal copione per sbloccarlo, ponendo degli obiettivi graduali, da verificare insieme, per consentire alla persona di compiere il passo più importante: terminare il lavoro con il counselor, perché ora essa stessa è in grado di compierlo autonomamente.
Ogni counselor a sua volta ha bisogno di aiuto, cioè di un supervisore, che ha un compito simile al suo: «formare il counselor a conseguire la propria autonomia analitica e diagnostica dell’intervento» (p. 160). La supervisione è caratterizzata da tre focus specifici: sul transfert e controtransfert, sulla problematica del cliente, sulla lettura che se ne è data, per valutare la correttezza delle fasi del programma.
Il counseling non è un’operazione magica, ma è un incontro tra due umanità. La parte finale del libro lo evidenzia, presentando le caratteristiche proprie dell’arte di accompagnare, e quindi di ogni percorso dialogico capace di unire verità e accoglienza. Tra esse emerge la presa di contatto con la propria vulnerabilità, il limite e la morte. Solo così il counselor può aiutare l’altro, perché non si fissa in un ruolo, ma condivide la propria umanità. In tal modo la vulnerabilità può diventare terapeutica, rendendo possibile la fiducia dell’altro, il dono della sua storia, la possibilità di abbandonare le paure alla base del copione e di instaurare una relazione vera.
Il counselor viene formato all’aiuto; proprio per questo, di fronte alle problematiche incontrate, non può fare a meno di chiedersi: «Ma io cosa ho di diverso da lui? In che cosa sono migliore di lui?» (p. 197). Questo apre all’empatia, condizione per una relazione autentica, capace di guardare senza paura alle possibilità che la vita non smette di presentare.
VITTORIO SOANA
Il processo di counseling. Metodi e strumenti di lavoro
Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 2020