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Talvolta incontriamo persone che hanno avuto una buona formazione cristiana, ma che con il passar del tempo sono diventate agnostiche. Potremmo pensare che si tratti di casi eccezionali. Tuttavia siamo convinti che questi casi sono un sintomo di un fatto evidente: in Paesi tradizionalmente cristiani si manifesta una crisi che colpisce sia la fede sia la vita dei battezzati. Essi smettono di essere praticanti, diventano agnostici, o vivono come tali, o cercano alternative a una religione cristiana che ha perso forza e credibilità[1].
La questione
La verità del cristianesimo si concretizza e si concentra nella verità della figura di Cristo. Gesù di Nazaret continua a suscitare interesse e ammirazione, ma la piena verità della sua realtà è diventata fragile ed evanescente, e per alcuni anche contraddittoria.
L’apologetica cristiana tradizionale voleva dimostrare la verità di Cristo, portando come argomenti i fatti straordinari narrati nei Vangeli: l’eccellenza dell’insegnamento, i miracoli e la risurrezione. Oggi si riconosce che una dimostrazione della verità di Cristo è impossibile e si vuole giustificarla a partire da una «convergenza di senso» degli argomenti a suo favore[2].
Ma anche questa soluzione non appare convincente. Secondo Monserrat, l’argomento decisivo a favore della verità di Cristo non sono gli eventi straordinari che caratterizzano la vita di Gesù secondo i Vangeli, ma la sua «debolezza», ossia l’annientamento umano che egli ha vissuto e ha sofferto, e che san Paolo chiama kénosis.
Per giungere a questa conclusione, è necessario seguire un ragionamento, che esporremo qui di seguito. Partiamo dal dato che la risposta comune e tradizionale all’enigma della realtà è l’affermazione dell’esistenza di Dio, realtà trascendente, origine e fondamento del mondo e interessato alla salvezza dell’uomo. Questa risposta religiosa viene trasmessa soprattutto per mezzo della tradizione familiare e sociale, e di solito le persone, assorbite dai problemi concreti della vita quotidiana, l’accettano pacificamente. Ma, accanto a questa risposta, anche quella di un «mondo senza Dio» è plausibile. Pertanto, quando si affronta la questione dell’enigma della realtà, sono possibili due risposte: esistenza di Dio e mondo senza Dio.
Un «mondo senza Dio»?
La ragione umana dovrà valutare queste due risposte, vedere quale delle due è più ragionevole e optare per essa, sapendo però che essa non possiede una certezza assoluta, ossia che l’altra possibilità non viene eliminata. A questo punto si presenta il problema del credere in Dio, il problema classico della teodicea.
In effetti, la ragione può domandarsi: «Dove stava Dio quando l’uomo sperimentava la sua indigenza, soffriva ingiustamente e moriva inevitabilmente? Non aveva nulla da dire? Non poteva fare nulla? O, cosa peggiore, non voleva fare nulla?». Di fatto, il credente vive immerso nell’esperienza del silenzio e del nascondimento di Dio.
L’affermazione di Dio offre una risposta alle incognite dell’uomo: origine, fondamento, fine del mondo e salvezza umana; ma l’esperienza del suo silenzio può far pensare che l’idea di Dio appaia come contraddittoria, priva di verità e di realtà effettiva. L’idea di un «mondo senza Dio» lascia aperte questioni molto serie, che la scienza dovrà investigare e a cui dovrà cercare di rispondere, ma si è liberata dalla contraddizione di un Dio che rimane silenzioso e inoperoso di fronte alla sofferenza umana. A questo punto del processo razionale, un «mondo senza Dio» sembrerebbe la risposta più ragionevole all’enigma della realtà.
Superamento della «contraddizione»
La risposta «mondo senza Dio» appare più ragionevole a motivo dello scandalo causato dall’esperienza del silenzio di Dio di fronte alla sofferenza umana. Ora, tale scandalo può essere superato. A partire dalla situazione umana di indigenza, l’esperienza del silenzio di Dio può essere ammessa quando in essa si scopre un significato per l’uomo: proprio con il suo silenzio e nascondimento Dio ha creato uno spazio nel quale è possibile per l’uomo la realizzazione della sua libertà.
Se Dio fosse presente nella creazione mostrando un’infinita superiorità, non sarebbe possibile la libertà della creatura. Ma la libertà è il più grande bene che Dio ha creato, e Dio lo vuole conservare e rispettare in modo incondizionato, anche a costo dell’apparizione del peccato e del male[3].
La contraddizione che si manifestava tra il silenzio di Dio e l’indigenza umana allora viene superata. La persona religiosa può mantenere razionalmente la verità del suo credo solo se riconosce – esplicitamente o implicitamente – il profondo significato del silenzio di Dio: rendere possibile la cosa più preziosa che l’essere umano possiede, cioè realizzarsi nella libertà, a qualsiasi livello.
L’affermazione di Dio come risposta all’enigma della realtà ha a suo favore vari argomenti, tra i quali risalta la spiegazione religiosa dell’origine del mondo e della salvezza dell’uomo. Ma si deve affermare in modo categorico che l’argomento decisivo è il riconoscimento del significato che il silenzio di Dio ha per l’uomo.
A questo punto, ci possiamo domandare: «Dio, la cui esistenza può essere ammessa razionalmente, si è rivelato in qualche momento della storia umana?». E possiamo formulare questa domanda in modo più preciso: «Si può riconoscere nella figura di Cristo una vera rivelazione di Dio?».
La rivelazione di Dio in Cristo
Se Dio si è rivelato in Cristo, si deve poter constatare una corrispondenza tra il contenuto essenziale della fede cristiana e il ragionamento che conduce all’affermazione di Dio.
I contenuti essenziali della fede cristiana si devono trovare nella Scrittura, che è il testo trasmesso dalla Chiesa con la convinzione che esso contiene in forma scritta la rivelazione di Dio. Una lettura di tale testo permette di ricavare i seguenti punti fondamentali.
L’uomo è nella realtà e in relazione con Dio a partire dall’origine. Dio però non impone la sua presenza: infatti, egli può anche essere respinto. Respingere Dio e vivere come se egli non esistesse appaiono come una possibilità propria della situazione dell’essere umano nella creazione. Questa è stata l’opzione umana originaria (cfr Gen 3).
Ma Dio non abbandona la sua creatura. Chiama Abramo, stabilisce con lui un’alleanza e gli offre una benedizione e una promessa di salvezza destinate a tutti i popoli. La promessa avrà compimenti diversi e provvisori: popolo d’Israele, esodo, Terra promessa, regno, esilio e post-esilio.
Secondo la lettura credente del messaggio biblico, il compimento definitivo avviene in Gesù Cristo. Egli è il centro del messaggio biblico e della fede cristiana. È il profeta promesso simile a Mosè (cfr Dt 18,18), il discendente di Davide il cui regno sarà eterno (cfr 2 Sam 7,12-16). In lui troveranno compimento le figure profetiche di salvezza: il Servo sofferente di Isaia (cfr Is 52,13–53,12) e il Figlio dell’uomo di Daniele (cfr Dn 7,14). In Cristo si realizzano le promesse dell’Antico Testamento, che però vengono anche superate: l’annientamento di Cristo fino alla morte in croce, la risurrezione e la sua propria e unica figliolanza divina vanno oltre le promesse di salvezza dell’Antico Testamento.
Secondo i Vangeli, Cristo ha offerto molti segni soprannaturali e ha dimostrato di avere il potere di vincere l’indigenza umana: ha guarito malati, ha liberato indemoniati, ha risuscitato morti, ha calmato tempeste, e ha moltiplicato i pani e i pesci perché la folla che lo seguiva potesse saziarsi. Ha mostrato anche di possedere una misteriosa uguaglianza con Dio, al quale si rivolgeva chiamandolo «Padre» in senso proprio e originale.
Tuttavia, secondo i racconti evangelici, questi segni di potenza, pur essendo evidenti, non venivano operati con la pretesa di imporsi in quanto tali: essi hanno potuto essere ignorati, fraintesi e respinti dalle persone, fino al punto di suscitare contro Gesù l’accusa di essere un indemoniato e un blasfemo, meritevole di un processo che lo ha condannato alla morte di croce.
Ci troviamo di fronte a questo sorprendente paradosso: Cristo appare dotato di un potere soprannaturale, che egli esercita a favore degli altri, ma, quando è arrestato e condannato, non si difende con poteri straordinari, bensì si sottomette al processo che lo condanna e non impone il silenzio a quelli che lo accusano. Sembra che nella «figura»[4] di Cristo avvenga il misterioso paradosso di una rivelazione di Dio che rispetta pienamente la libertà umana.
Valutazione del contenuto
Si può constatare facilmente una corrispondenza tra l’affermazione razionale di Dio e i contenuti della fede cristiana. Infatti, secondo l’affermazione razionale di Dio, esiste una realtà divina e trascendente. Essa è origine e fondamento del mondo e ha collocato l’uomo in un ambito in cui è possibile la sua realizzazione nella libertà. Dio vuole la salvezza dell’uomo, sebbene permetta la dura esperienza del proprio silenzio e dell’indigenza umana. Proprio il riconoscimento del significato del silenzio di Dio rende possibile il completo carattere razionale dell’affermazione della sua esistenza.
I contenuti della fede cristiana hanno una corrispondenza con l’affermazione razionale di Dio, ma presentano anche novità significative. Dio si è rivelato all’uomo, ha stabilito con lui un’alleanza e ha promesso il possesso di una terra e la costituzione di un regno. Le promesse sembrano avere un compimento nel regno di Davide, ma questo compimento si rivela provvisorio: il regno davidico viene distrutto, e il popolo deve andare in esilio. Nelle disgrazie e nelle sofferenze della disfatta, nell’esilio e nel ritorno dall’esilio si costituisce un «resto fedele» – i «poveri del Signore» – che, nonostante i fallimenti, conserva la fede in un futuro compimento definitivo delle promesse di Dio.
La grande novità del cristianesimo è la convinzione di fede che Dio ha portato a compimento le sue promesse in Cristo. Gesù è stato il testimone della verità di Dio e si è presentato come il suo inviato definitivo. Ha dimostrato di possedere un potere soprannaturale, ma lo ha esercitato sempre a favore degli altri, e mai in proprio favore. La proclamazione della verità e i segni di potere soprannaturale si sono manifestati in modo convincente, e tuttavia non hanno avuto mai un carattere «impositivo». Questo viene spiegato con il fatto che Cristo ha vissuto una vera vita umana, condividendo la debolezza e l’indigenza umane fino al punto di morire in croce senza difendersi con poteri soprannaturali.
Pertanto, in Cristo Dio rivela la sua verità, ma rispetta pienamente l’ambito di libertà dell’uomo. Offre segni sufficienti della sua verità e una salvezza definitiva, ma non li impone. Vuole la realizzazione umana nella libertà, e la rispetta anche a prezzo dell’opposizione e del rifiuto.
In conclusione, a partire dall’affermazione razionale di Dio la valutazione critica della fede cristiana deve essere positiva, ma essa possiede soltanto una certezza morale, ossia una certezza che rende ragionevole l’opzione senza eliminare opzioni alternative: in questo caso, quella per un «mondo senza Dio».
Quanto abbiamo detto sulla certezza morale non significa che il credente non possa vivere la sua fede con una certezza assoluta della sua verità. Ma questa è possibile solo se agli argomenti razionali si aggiunge l’esperienza interiore dello Spirito. I momenti dell’esperienza spirituale sono momenti che accadono nell’interiorità, sono strettamente personali e non possono diventare argomento di discussione razionale.
L’argomento decisivo: la figura di Cristo
Abbiamo seguito un ragionamento che ha condotto alla conclusione della verità della fede cristiana. Questa conclusione possiede solo una certezza morale, e pertanto l’opzione alternativa «mondo senza Dio» non viene eliminata.
Nella valutazione della fede cristiana è emersa la figura di Cristo come argomento decisivo della sua verità. Il motivo è evidente: da una parte, egli ha dato una testimonianza convincente della verità di Dio, basata sulla manifestazione di poteri soprannaturali al servizio del bene dell’uomo; dall’altra parte, secondo i Vangeli, egli ha vissuto una vera condizione umana, si è realizzato come vero uomo e ha condiviso in modo incondizionato l’indigenza umana, sperimentando il rifiuto, le offese, una condanna ingiusta e la morte in croce.
Secondo la Scrittura, l’intero evento di Cristo possiede una ricca serie di elementi: l’esistenza divina, l’incarnazione, la predicazione, la guarigione di malati e la liberazione di indemoniati, il potere di dominare la natura e di risuscitare morti, la sua morte e la sua risurrezione, le testimonianze nella vita della Chiesa. In passato si è voluto dimostrare la verità di Cristo ricorrendo alla manifestazione di poteri soprannaturali e, in particolare, alla sua risurrezione, ma non è possibile pretendere di ottenere una dimostrazione.
Secondo il ragionamento che abbiamo esposto, tutti gli elementi dell’intero evento di Cristo contribuiscono alla giustificazione della sua verità. Ma l’argomento decisivo non sono le manifestazioni di un potere straordinario, bensì l’apparizione della forza di verità che nasce dal momento di massima debolezza.
I contenuti della fede cristiana parlano della rivelazione di Dio nella storia umana. È possibile ammetterlo a partire da testimonianze scritte duemila anni fa? La risposta è affermativa, se rivolgiamo l’attenzione alla figura di Cristo, centro e sintesi della fede cristiana. Secondo la Scrittura trasmessa dalla Chiesa, egli ha dato segni convincenti della sua condizione divina, nella quale Dio si rivela nel mondo; ma, nello stesso tempo, ha sperimentato una vera condizione umana, che si è realizzata fino a concludersi con la croce.
La morte in croce potrebbe essere considerata il fallimento dell’attività di Cristo, ma, in realtà, costituisce la conclusione positiva della sua missione: rivelare il Dio vero senza danneggiare la libertà umana, che è il bene più grande della creazione. Per questo la figura del Crocifisso, conclusione della realizzazione umana di Cristo, è il segno più potente della rivelazione di Dio nel mondo. Il momento della massima debolezza diventa l’argomento più forte a favore della verità di Cristo e del suo messaggio.
Conferma biblica e liturgica
Siamo giunti a questa conclusione seguendo un ragionamento, ma questa conclusione ha anche una conferma nel Nuovo Testamento. Nei Vangeli sinottici troviamo i «tre annunci della passione»: Gesù dice ai discepoli che il Figlio dell’uomo deve «soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere» (Mc 8,31; 9,31; 10,33-34 e par.), suscitando incomprensione nei discepoli e scandalo in Pietro (cfr Mt 16,22). Dopo la risurrezione, Gesù rimprovera i discepoli di Emmaus perché non hanno creduto all’annuncio dei profeti, secondo il quale «bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria» (Lc 24,26). Si presuppone che sia stata «annunciata» la morte e la risurrezione di Cristo.
Nel Vangelo di Giovanni, Gesù predice che il momento più forte della rivelazione sarà la sua morte: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna» (Gv 3,14-15); «Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora conoscerete che Io Sono» (Gv 8,28); «Io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32). In questi versetti Gesù annuncia che il suo «essere innalzato», la sua morte in croce sarà un momento dotato di una forza particolare di rivelazione.
Secondo i Vangeli, la morte di Gesù ha potuto essere considerata un fallimento; i passanti, i capi dei sacerdoti e gli scribi dicevano a Cristo in croce: «Salva te stesso, se tu sei Figlio di Dio, e scendi dalla croce!» (Mt 27,40); «Il Cristo, il re d’Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo!» (Mc 15,32); «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto» (Lc 23,35). Ma la morte in croce è stata anche un momento di rivelazione: «[Il centurione disse:] “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!”» (Mc 15,39; Mt 27,54); «Veramente quest’uomo era giusto» (Lc 23,47); «[Il malfattore disse:] “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno» (Lc 23,42). Nel processo, l’accusa rivolta a Gesù di essere re suscitò burle e derisione, ma l’accusa di pretendere di essere Figlio di Dio suscitò un rispetto timoroso in Ponzio Pilato, il quale gli domandò: «Di dove sei tu?» (Gv 19,9).
Nelle Lettere di san Paolo viene riconosciuta una particolare forza di salvezza nella morte di Cristo. L’Apostolo, testimone della risurrezione, ha compreso la morte di Gesù come fonte di salvezza. Egli afferma infatti: «Siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo» (Rm 5,10); «In lui, mediante il suo sangue, abbiamo la redenzione» (Ef 1,7); Cristo ha voluto «riconciliare tutti e due [giudei e gentili] con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce» (Ef 2,16); e ha voluto riconciliare «tutte le cose […] con il sangue della sua croce» (Col 1,20). Riguardo alla predicazione, Paolo dichiara: «Noi annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati […] potenza di Dio e sapienza di Dio» (1 Cor 1,23-24).
Infine, ricordiamo che il motivo che sta alla base della celebrazione liturgica cristiana è l’azione di grazie, l’Eucaristia, per il «corpo dato» e per il «sangue versato». Cristo è risorto, e il momento della sua «debolezza» rimane presente tra i credenti, alimentando e confermando la loro fede. La morte di Cristo appartiene al contenuto integrale della fede cristiana: preesistenza, incarnazione, miracoli e predicazione, morte e risurrezione, glorificazione come Signore di tutte le cose. Ma il momento di massima «debolezza» di Cristo, la sua morte in croce, costituisce l’argomento razionale decisivo della sua verità, il centro della fede cristiana, la fonte della speranza, e il motivo della celebrazione liturgica come «azione di grazie», «Eucaristia»[5].
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[1]. In questo articolo intendiamo mostrare come Javier Monserrat, gesuita, filosofo e scienziato, discepolo di Xavier Zubiri, abbia affrontato la questione e abbia cercato una risposta soddisfacente. Infatti egli si è occupato della crisi attuale del cristianesimo, ne ha precisato i punti chiave, ha fatto una diagnosi e ha proposto una linea originale e convincente di superamento della crisi. Cfr J. Monserrat, Hacia el Nuevo Concilio, Madrid, San Pablo, 2010. Per approfondire il suo pensiero sull’argomento di cui tratta questo articolo, cfr J. M. Millás, Cristianesimo e Realtà. La credibilità di Cristo nell’epoca della scienza, Roma, Gregorian & Biblical Press, 2013; Id., La figura di Cristo. Il segno della verità del Cristianesimo, Roma, AdP, 2006.
[2]. Cfr S. Pié-Ninot, La teologia fondamentale, Queriniana, Brescia, 2002, 197 s.
[3]. Cfr J. M. Millás, Cristianesimo e Realtà. Novità teologiche nel pensiero di Xavier Zubiri, Roma, Gregorian & Biblical Press, 2014, 57-75.
[4]. Il termine «figura» è zubiriano e significa l’attualità nel mondo della realtà umana. Zubiri afferma che la vita umana è «configurazione»; l’attualità dell’uomo «ha in ogni istante una figura determinata» (X. Zubiri, L’ uomo e Dio, Bari, Edizioni di Pagina, 2013, 45).
[5]. La confessione di fede nel sacrificio di Cristo (omologia) diventa rendimento di grazie (eucaristia) nella liturgia cristiana; in essa «la omologia è l’eucaristia» (G. Bornkamm, «Das Bekenntnis im Hebräerbrief», in Id., Studien zu Antike und Urchristentum. Gesammelte Aufsätze, vol. 2, München, Kaiser, 1970, 196).
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THE «WEAKNESS» OF CHRIST, THE CORE OF HIS TRUTH
There are times when we meet honest people who have had a solid Christian formation, but then have become agnostics. The claim that the truth of the Christian faith can be justified with a theoretical demonstration of it is unsustainable. Today, when a person submits living religiosity to criticism, they encounter an obstacle that seems insuperable; the paradox of God’s silence in the face of human destitution. In order to overcome this obstacle, this article shows that it is necessary to discover the meaning of God’s silence: the realization of man in freedom. From this emerges the «weakness» of Christ as the decisive argument for the truth of Christianity.