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L’opera di Martin Buber Il problema dell’uomo è stata pubblicata per la prima volta nel 1943: si trattava della trascrizione di un corso tenuto dall’autore nell’Università ebraica di Gerusalemme nel 1938. Buber era giunto dalla Germania in Palestina nell’aprile del 1938 ed era stato chiamato a tenere un corso di «Filosofia della società» in quella Università. Secondo Irene Kajon, curatrice di questa nuova edizione italiana dell’opera, è possibile rinvenire nel testo elementi che mostrano lo sviluppo della riflessione del pensatore, a partire dal suo precedente lavoro Io e Tu, con le sue vicende biografiche, legate al contesto culturale della comunità accademica ebraica a Gerusalemme.
In quest’opera Buber evidenzia la peculiarità dell’essere umano che, rispetto a ogni altro essere, si configura come sociale. Secondo il pensatore, l’io e l’altro sono messi in contatto da un a priori universalmente valido e non dalla mediazione di un interesse o utilità, come neppure dalla conseguenza di un sentimento di simpatia o compassione. Tale a priori pone immediatamente in contatto l’io e l’altro in modo gratuito, manifestando la reciproca disponibilità.
L’autore affronta la questione dell’identità dell’uomo, intraprendendo un percorso storico delle risposte date alla fondamentale domanda antropologica: «Che cos’è l’uomo?», resa esplicita da Immanuel Kant. Questa domanda fa confluire a sé i contenuti di altri interrogativi fondamentali, indicati dallo stesso Kant: 1) Che cosa posso conoscere? 2) Che cosa debbo fare? 3) Che cosa mi è consentito sperare? Essi richiamano, rispettivamente, la metafisica, la morale e la religione.
Buber sostiene che si può dare una risposta alla domanda antropologica solo se il filosofo riflette a partire da se stesso in quanto persona. Il principio di individuazione non conferisce alla persona un carattere relativizzante, bensì ne è il nucleo e la struttura. «L’antropologo filosofo – spiega Buber – non può non mettere in gioco la sua totalità vivente, se stesso nella sua reale concretezza. Anzi, non gli basterà di porsi di fronte il proprio io come oggetto di conoscenza. Egli non potrà conoscere la totalità della persona e, con essa, la totalità dell’uomo, che a condizione di non escludere la sua soggettività, e di non rimanere osservatore indifferente» (pp. 13 s).
Secondo l’autore, è possibile distinguere, nella storia del pensiero, epoche in cui l’uomo possiede una dimora da quelle in cui non la possiede. Ciò significa che, nelle prime, il pensiero antropologico esiste solo in quanto parte del pensiero cosmologico; nelle seconde, invece, il pensiero conquista la sua profondità, e con questa la sua indipendenza.
Un esempio di dimora ci viene offerto dal pensiero dei Greci, per il quale l’uomo è compreso solo in quanto è nel mondo: egli ha il suo posto ben preciso nel cosmo, e non si indaga sul mondo che è in lui. Contraria è la concezione di Agostino, il quale pone il problema antropologico in prima persona. La sua riflessione sull’uomo, secondo l’interpretazione di Buber, si sviluppa senza dimora, in modo solitario tra potenze inferiori e superiori, nonostante egli veda nel cristianesimo la redenzione già compiuta. Agostino invita gli uomini a non vivere esclusivamente lo stupore della natura, ma di sapersi meravigliare di se stessi; scrive Buber: «L’uomo di Agostino si meraviglia dell’uomo proprio perché l’uomo non si può comprendere come una parte tra le altre nel mondo, come cosa tra le cose» (p. 18).
L’excursus storico dell’autore giunge fino all’età contemporanea, soffermandosi sull’individualismo, che considera l’uomo soltanto nella relazione con se stesso; e sul collettivismo, incapace di vedere l’uomo perché concentrato sulla società. Buber suggerisce una terza prospettiva, che è in grado di superare queste due tendenze e di far includere l’antropologia e la sociologia nella scienza filosofica dell’uomo: è il regno dell’«interrelazione», nel quale il soggettivo e l’oggettivo vengono superati e l’Io e il Tu si incontrano, l’uomo si incontra con l’uomo. «Questa realtà – spiega Buber – la cui scoperta è cominciata nel nostro tempo, mostra il cammino che conduce al di là dell’individualismo e del collettivismo, per la decisione vitale delle generazioni a venire. Qui è indicato il vero terzo, la cui conoscenza contribuirà a riacquisire una vera persona e a fondare una vera comunità» (p. 118).
Imparare a comprendere l’uomo dal suo stato dialogico permetterà di dare una risposta più appropriata alla domanda: «Che cos’è l’uomo?».
MARTIN BUBER
Il problema dell’uomo
a cura di IRENE KAJON
Bologna, Marietti 1820, 2019, XXX-132, € 12,50.