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I «Dialoghi dell’umana decenza» potrebbe essere il titolo di queste conversazioni tra Martin Scorsese e Antonio Spadaro. Persino un ateo convinto, o qualcuno a cui non piaccia neppure un solo film del grande regista americano, ci ritroverebbe una generosità, una temperatura etica e un’onestà intellettuale di cui nutrirsi come con del buon pane.
Aiutano, naturalmente, l’affetto sincero tra i due e una reciproca capacità di attenzione, un ascolto profondo che va oltre il racconto della carriera e delle convinzioni religiose di Scorsese, per toccare i precordi di una seria riflessione esistenziale. Dialoghi che mettono il dito nella piaga dell’umana imperfezione piuttosto che gongolare sui successi di critica e di pubblico del lavoro del regista.
E le lezioni di questo straordinario manuale del fare cinema e del credere sono anche molto gustose e rivelatorie, a cominciare dalla biografia di Scorsese – «Un miscuglio di legami di sangue, violenza e sacro» –, nato e cresciuto nella Lower East Side di Manhattan, che era zona di miseria e di guerra tra poveri, ma anche l’ambiente fertilissimo dalla cui memoria trarrà materiale per alcuni tra i suoi film più belli e più crudi, come Taxi Driver, Mean Streets e Goodfellas.
Al centro dei Dialoghi c’è il tema onnipresente della divina umanità di Cristo, della grazia, della natura umana. «Brillantemente creativi e altrettanto brillantemente distruttivi» sono gli uomini, per citare la felice formulazione di Marilynne Robinson, la grande scrittrice americana che è un costante riferimento intellettuale per il regista.
Riconoscere intanto la possibilità della violenza, e quindi del male, in sé stessi, la trave nei propri occhi prima di illudersi di essere tra i salvati immaginando che il male, anche quello più estremo, sia cosa altrui e di altre epoche. E con lo stesso moto ascensionale dell’anima, sentire la possibilità, sempre presente per tutti, della grazia: avvisaglie d’amore verso la redenzione, intimazioni di morte quando l’amore lo neghiamo. Non c’è creta umana che non possa farsi torturatore, ma quella stessa creta – diverse le scelte, diverse le circostanze, diverso l’agire della grazia – può odorare di santità.
La grazia, appunto – «qualcosa che avviene nel corso della vita, quando non te l’aspetti» – che Scorsese insegue da quando bambino, appena uscito dalla chiesa dopo la Messa, si domandava interdetto come fosse possibile che «la vita andasse avanti come se niente fosse accaduto. Perché il mondo non veniva scosso dal corpo e dal sangue di Cristo?». E con la grazia, il mistero della pienezza umana e divina del Cristo è l’altra grande preoccupazione del regista, come di ogni cristiano: come riconoscersi particola del Dio vivente, e sentirne la presenza, nella misericordia come nell’oltraggio, nella predazione sistematica di una nazione (la tribù di nativi americani Osage, in Killers of the Flower Moon) e nell’annichilazione dei soldati di Cristo, in Silence.
Scorsese è uomo di cinema e di lettere, non solo per i film – tratti da libri bellissimi, spesso di lunghissima gestazione, in cui i temi religiosi sono dominanti: Silence dal romanzo di Shūsaku Endō e Last Temptation of Christ da quello di Nikos Kazantzakis –, ma anche per le letture assidue di scrittori la cui opera tocca i temi centrali della fede, dell’etica e del rapporto tra il bene e il male, come Dostoevskij, Flannery O’Connor, Simone Weil, John Steinbeck ma anche Rudyard Kipling, Graham Greene e James Joyce.
E per le nostre esistenze, dai dialoghi con Spadaro emerge una lezione di grande semplicità e perenne attualità che, se non garantisce il cielo, almeno aiuta a non farcene distogliere lo sguardo, a non distrarci: «Accettare sé stessi, convivere con sé stessi, sforzarsi di esercitare un influsso positivo sulla vita della gente», una umanissima definizione di salvezza e quegli occhi – quei «cineocchi» immaginifici del grande maestro americano – che guardano a cosa conta davvero: «Essere. Respirare. Qui. Adesso. Tutto questo non è grazia?».