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La Chiesa in Africa fa parlare di sé, oppure se ne parla. È davvero percepibile a prima vista? Per alcuni non esiste «una» Africa, ma «tante» Afriche, che possono essere percepite solo attraverso un discorso policromo dalle molteplici sfumature di tono. Eppure, quando i cristiani africani – soprattutto subsahariani – parlano dell’Africa, la questione dell’identità culturale sembra emergere in primo piano come valore trasversale, assoluto e non negoziabile. A ciò si aggiunge la dimensione politica sullo sfondo di una storia segnata dalla tratta dei neri e dalla colonizzazione. Ora, per comprendere le rivendicazioni del presente, si deve ricorrere proprio a questo passato, a questa storia e non a una qualche «essenza africana»; poiché anche in regioni che suggerirebbero un’altra storia politica, come il Nord Africa, l’Etiopia o le Isole – ad esempio, Mauritius –, la Chiesa può essere compresa solo in base alle risonanze politiche, in particolare all’incontro tra popoli diversi. Sarebbe un’illusione dissociare la vita della Chiesa in Africa dalla storia prevalentemente ferita dei suoi popoli[1].
La domanda «Qual è questa Chiesa?» è deliberatamente intesa come espressione di stupore. Per rispondere adeguatamente ad essa, le nostre riflessioni cercheranno di passare attraverso un’altra domanda: Di quali riferimenti ci si deve munire per avviare un dialogo con la Chiesa in Africa? Proponendo dei riferimenti, speriamo che, dotato di questi strumenti, chiunque ascolti le storie della Chiesa in Africa, su di essa o attraverso di essa, abbia un punto di partenza per ascoltarla, capirla e impegnarsi in un dialogo profondo e fecondo con essa, affinché essa possa esprimersi sempre di più e sempre meglio[2]. A titolo di schema di risposta, tracciamo qui a grandi linee alcuni punti di riferimento sotto forma di tre metafore: «polmone spirituale» (l’ambiente in cui è immersa la Chiesa), «Gesù-Vita» (ciò che il cristiano cerca al seguito di Cristo) e «Chiesa-Famiglia di Dio» (la forma di comunità ecclesiale che i cristiani desiderano).
Il contesto africano come «polmone spirituale»
Gli anni Novanta hanno segnato una svolta importante nella storia recente del continente africano. Ricordiamo il viaggio apostolico di papa Giovanni Paolo II all’Isola di Gorée in Senegal (22 febbraio 1992) dove, durante la sua visita alla «Casa degli Schiavi», fece risuonare parole incisive: «Sono venuto qui per ascoltare questo grido dei secoli e delle generazioni, delle generazioni di neri, di schiavi. Allo stesso tempo, penso che anche Gesù Cristo è diventato uno schiavo, un servitore: ma anche in questa situazione di schiavitù ha portato la luce. Questa luce si chiamava presenza di Dio, liberazione in Dio»[3]. Come un’onda, tre grandi eventi si sono succeduti quasi in concomitanza: il genocidio dei tutsi in Ruanda (dal 7 aprile al 15 giugno 1994), in un Paese prevalentemente cattolico[4]; la celebrazione del Sinodo speciale per l’Africa convocato da papa Giovanni Paolo II (dal 10 aprile all’8 maggio 1994); l’ascesa di Nelson Mandela alla presidenza del Sudafrica (10 maggio 1994) dopo la sua liberazione dal carcere nel 1990[5]. Sulla scia di questi eventi, ora soffia un vento di democratizzazione.
Di fronte a questa storia recente, che riecheggia la lunga «via crucis» del continente, che mostra, nonostante tutto, una spettacolare resilienza, Benedetto XVI apre il secondo Sinodo speciale per l’Africa con questa frase: «L’Africa rappresenta un immenso “polmone” spirituale, per un’umanità che appare in crisi di fede e di speranza»[6]. Egli riprende questa intuizione nell’esortazione apostolica postsinodale Africae munus nei seguenti termini: «Un tesoro prezioso è presente nell’anima dell’Africa, in cui scorgo “un immenso ‘polmone’ spirituale per un’umanità che appare in crisi di fede e di speranza”, grazie alle straordinarie ricchezze umane e spirituali dei suoi figli, delle sue culture multicolori, del suo suolo e del suo sottosuolo dalle immense risorse»[7]. Come spiegare, infatti, che, nonostante la secolare tratta dei neri come schiavi, prima da parte del mondo arabo (musulmano) – la tratta transahariana –, poi da parte dell’Europa (cristiana) – la tratta transatlantica –, e infine l’espropriazione delle loro terre con la colonizzazione, questi popoli traumatizzati continuano a (soprav)vivere[8]? Così, ai quattro angoli del continente – a est (Zanzibar), a ovest (Gorée, Elmina, Ouidah), a sud (Robben Island) e a nord –, sono visibili le tracce delle forze di annientamento. Solo la fede nella presenza del Dio invisibile e invincibile può spiegare questa perseveranza di un popolo consapevole del fatto che tutto concorreva, all’interno e all’esterno, alla sua cancellazione.
Su questo fondamento spirituale è cresciuto il seme del Vangelo. Diverse figure di santi, uomini e donne, fungono da stella polare per la Chiesa africana. L’antichità cristiana del Nord Africa conserva viva la memoria delle martiri Felicita e Perpetua (181-203). La schiava Giuseppina Bakhita (1869-1947) divenne suora e santa. I cristiani dell’Uganda, anche nell’entourage del re, abbracciarono la fede cristiana, al punto che Joseph Mukasa Balikuddembé (1860-85), grande servitore del re Mwanga, si oppose alle pratiche omosessuali del re Mwanga in nome dei valori sostenuti dalla Chiesa[9]. Alfred Diban Ki-Zerbo, schiavo riscattato dai padri bianchi (missionari d’Africa), primo cristiano e catechista dell’Alto Volta (l’attuale Burkina Faso), fu ricevuto nel 1975 da papa Paolo VI, che gli rese onore facendolo sedere sul suo trono[10]. Maria Clementina Anuarite Nengapeta (1939-64), religiosa congolese (Repubblica Democratica del Congo), morì martire per fedeltà al voto di castità e, come Cristo sulla croce (cfr Lc 23,34) o Stefano lapidato (cfr At 7,60), perdonò il suo carnefice prima di spirare. Ecco alcuni elementi della memoria culturale professante che abita il cattolicesimo africano.
Abbracciare il cristianesimo non significa però rinunciare alla propria identità culturale. Come ha detto il cardinale Paul Zoungrana, «il nostro essere africani non può esserci conferito dall’esterno». Questa è la grande ricerca dell’identità africana iniziata dopo la colonizzazione del continente. Vi si può percepire uno sforzo di negazione della negazione dell’umanità. A titolo di esempio, si pensi al movimento della negritudine e alla Black Theology (Sudafrica). Non è questione di razza, ma di atteggiamento etico. A riprova di ciò, il vescovo anglicano britannico John William Colenso (1814-83) difese a spada tratta i fedeli sotto la sua responsabilità pastorale, nel corso dell’evangelizzazione del popolo Zulu (Sudafrica). Subì l’ira delle forze coloniali[11].
La lotta di coloro che hanno cercato di seminare il Vangelo nella cultura africana, traducendo il suo messaggio nelle categorie culturali africane e tramite la propria vita, ha provocato un terremoto da entrambe le parti. Come hanno ben mostrato Lamin Sanneh e mons. Colenso, la traduzione di questo messaggio fa spaccare i vecchi otri, siano essi occidentali (quelli del missionario)[12] o africani. La forza liberatrice di questa Parola ha toccato prima la base spirituale e poi ha trasformato i comportamenti, fino a suscitare risposte eroiche alle sfide della vita sociale e politica. È qui che, forse, si deve prestare attenzione allo scoglio dell’essenzialismo culturale. Nel corso della storia, infatti, ci sono stati elementi culturali che si sono sedimentati fino a diventare archetipi. Questi si trasmettono attraverso la vita sociale, terreno fertile di simboli, miti, riti, codici di comunicazione (proverbi, racconti, canzoni ecc.). L’inconscio delle persone è popolato da questi archetipi. In tutta l’Africa subsahariana si riconoscono questi archetipi in cui si cristallizzano delle costanti, in particolare un forte desiderio di vita. Se Gesù Cristo, lo schiavo-salvatore, viene riconosciuto come il Dio liberatore, è verso di lui che si dirigerà la ricerca frenetica e a tutto campo della vita.
Gesù Cristo come «Vita»
L’evangelista Giovanni presenta Cristo come «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). Padre Adolfo Nicolás, che è stato Preposito generale dei gesuiti, vedeva in questo tre possibili caratterizzazioni di tre diverse civiltà: l’Occidente vede Gesù Cristo come «Verità» attraverso la sua lunga tradizione filosofica; l’Asia lo comprende come «Via» attraverso i suoi metodi di meditazione spirituale; l’Africa, da parte sua, incontra Gesù Cristo come «Vita». Gesù dona la vita in abbondanza e la restituisce (cfr Gv 10,10; 11,1-44)[13]. Questa differenziazione non ha lo scopo di compartimentare le diverse aree culturali o di «dividere» il Corpo di Cristo, ma di capire attraverso quale porta ciascun patrimonio culturale dà accesso al mistero di Cristo. Perché è in lui che ciascuno riceve dagli altri le infinite ricchezze racchiuse in questo Corpo.
La concezione della vita umana nell’Africa subsahariana comprende tre livelli: le persone visibili; quelle che hanno oltrepassato l’aldilà; quelle non ancora nate[14]. Si potrebbe così dire che le tre estasi del tempo di cui parla sant’Agostino sono unite nella visione africana dallo spazio che racchiude la vita nel cosmo. Come afferma il poeta senegalese Birago Diop: I morti esistono, / essi non sono mai partiti, / sono nell’ombra che s’illumina, / e nell’ombra che scende / nella profonda oscurità. / Sono nell’albero minaccioso / e nel bosco che geme, / sono nell’acqua che scorre, / sono nell’acqua stagnante, /sono nelle capanne, / sono nelle piroghe. / I morti non sono morti[15].
La vita dunque non si limita al biologico. Lo trascende in una visione spirituale che concepisce che in ogni esistenza umana ci sono i mondi visibile e invisibile in cui essa si compie.
Eppure, l’attaccamento alla vita presente nel mondo visibile si manifesta nella conquista di una vita in buona salute. È qui che Gesù diventa il guaritore[16]. Più che il bisogno di una lunga vita, c’è il forte sentimento di dover trasmettere la vita. L’apertura alla vita non è solo un desiderio che condiziona il matrimonio: è la sua principale ragion d’essere. Poiché la moglie realizzata è quella che è madre. Avere figli con la propria moglie è ciò che appaga un marito che diventa padre. Anche nella prole si nasconde un altro desiderio: mettere al mondo il sesso che assicuri la continuità della stirpe[17]. Queste ricerche sono anche fonte di difficoltà per le coppie e le famiglie quando non sono fertili. E poiché Dio è la fonte ultima della vita, le Chiese del risveglio e alcuni movimenti carismatici che promettono il successo e nascondono il crocifisso attirano le folle. Si assiste così alla transumanza da un luogo di culto all’altro, alla ricerca di vita in abbondanza.
Sarebbe però riduttivo credere che in questo duello tra la vita e la morte l’eroismo abbia perso la sua importanza. Le testimonianze sono molto numerose. I martiri ugandesi hanno dimostrato che la vita in Cristo vale più della vita biologica e che si può morire per i valori del Regno[18]. Quando la suora ruandese Geneviève Uwamariya ha condiviso la sua testimonianza al Sinodo speciale per l’Africa, nell’ottobre 2009, ha raccontato di aver incontrato l’assassino genocida dei suoi genitori durante un processo di riconciliazione e di essere riuscita, nonostante fosse paralizzata dalla paura, a rialzare questo giovane inginocchiato ai suoi piedi, prenderlo tra le braccia e dirgli: «Tu sei e rimani mio fratello!». Al che l’altro ha risposto: «Adesso possono anche uccidermi, sono libero!». Papa Benedetto XVI ha fatto eco a queste testimonianze, quando ha affermato che «testimonianze commoventi ci hanno mostrato che, anche nei momenti più bui della storia umana, lo Spirito Santo è all’opera e trasforma i cuori delle vittime e dei persecutori perché si riconoscano fratelli»[19]. La morte non ferma il corso della vita.
Questa forza vitale ha lasciato tracce che ancora brillano come stelle nel cielo oscuro dell’Africa e del mondo: i santi e i beati. La scrittrice francese Véronique Olmi ha fatto di una di queste figure la protagonista, o meglio l’eroina, del suo romanzo: «Bakhita è il romanzo sconvolgente di questa donna eccezionale che fu di volta in volta prigioniera, domestica, religiosa e santa. Con una rara forza evocativa, Véronique Olmi ne ricostruisce il destino, le incredibili battaglie, la forza e la grandezza d’animo, la cui fonte nascosta attinge al ricordo della sua prima infanzia prima di aver subìto la violenza della razzìa»[20]. Questa risorsa dell’infanzia proviene proprio dalla famiglia africana, con le sue configurazioni complesse ma strutturanti. Anche la Chiesa in Africa vi si è riconosciuta quando, nel Sinodo speciale per l’Africa del 1994, ha scelto di identificarsi come «Famiglia di Dio»[21].
La Chiesa, «Famiglia di Dio»
Scegliendo l’immagine della «famiglia» come metafora sorgente per eccellenza, capace di mobilitare le energie della fede e dell’immaginazione dei cristiani, la Chiesa in Africa ha fatto un’opera di inculturazione. Questa comunità, tuttavia, non è costituita dal legame di sangue, bensì quello di fede. Ma cos’è la famiglia? Di quale modello di famiglia stiamo parlando? In occasione del «Giubileo d’oro» del Simposio delle Conferenze episcopali di Africa e Madagascar (Secam) (1969-2019), la rilettura causata da questo evento ha dato vita a quello che oggi viene chiamato Documento di Kampala. In esso la Chiesa d’Africa dichiara di aver portato «un messaggio chiaro alla Chiesa universale sulla vocazione e sulla missione di questa istituzione divina, che è la famiglia, il cui futuro condiziona anche il futuro dell’umanità» (n. 49)[22]. Questa affermazione unisce due livelli della nozione di famiglia: il sangue (il futuro dell’umanità) e la fede (la Chiesa universale).
Nella sua esortazione post-sinodale Ecclesia in Africa (EA), papa Giovanni Paolo II ha affermato che il Sinodo ha assunto «come idea-guida per l’evangelizzazione dell’Africa quella di Chiesa come Famiglia di Dio. In essa i Padri sinodali hanno riconosciuto un’espressione della natura della Chiesa particolarmente adatta per l’Africa. L’immagine pone, in effetti, l’accento sulla premura per l’altro, sulla solidarietà, sul calore delle relazioni, sull’accoglienza, il dialogo e la fiducia. La nuova evangelizzazione tenderà dunque a edificare la Chiesa come famiglia, escludendo ogni etnocentrismo e ogni particolarismo eccessivo, cercando invece di promuovere la riconciliazione e una vera comunione tra le diverse etnie, favorendo la solidarietà e la condivisione per quanto concerne il personale e le risorse tra le Chiese particolari, senza indebite considerazioni di ordine etnico» (EA 63).
I podcast de “La Civiltà Cattolica” | LA VIOLENZA CONTRO LE DONNE
Da parecchio tempo, le cronache italiane sono colme di delitti perpetrati contro le donne. Il fenomeno riguarda tutte le età e condizioni sociali, tanto da sembrare endemico nella nostra società. A questo tema è dedicato un episodio monografico di Ipertesti Focus, il podcast de «La Civiltà Cattolica».
A partire da questa opzione preferenziale di una metafora che mobilita l’immaginazione dei cattolici africani, la lotta contro l’etnocentrismo nel processo di costruzione della Chiesa e lo sforzo di riconciliazione e di solidarietà restano luoghi sempre attuali della lotta di fede dei discepoli di Gesù in terra africana. A tal fine, il già citato Documento di Kampala riformula questo compito nei seguenti termini: «L’opzione di edificare una Chiesa-Famiglia di Dio, che faccia delle comunità ecclesiali vive dei veri luoghi teologici, e che si metta risolutamente al servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace, ha offerto alla Chiesa in Africa un’opportunità storica unica per contribuire in modo originale alla riflessione sulla sinodalità e alla sua attuazione all’interno della Chiesa universale» (n. 50; corsivo nostro). La Relazione di Sintesi (RdS) della Sessione sinodale dell’ottobre 2023 rileva, effettivamente, la sete di un essere-Chiesa-famiglia. «Questo processo – si legge nella Relazione – ha rinnovato la nostra esperienza e il nostro desiderio di una Chiesa che sia casa e famiglia di Dio» (RdS 1b; cfr 8c; 9d; 11d). L’Assemblea dell’ottobre 2023 era tuttavia consapevole della difficoltà di universalizzare il modello. «Nei contesti in cui la Chiesa è percepita come famiglia di Dio, il Vescovo è considerato come il padre di tutti; nelle società secolarizzate invece si sperimenta una crisi della sua autorità» (RdS 12d).
L’apertura al mondo che la Chiesa d’Africa vede come una chiamata al termine del suo «Giubileo d’oro», risuona come un impegno e una sfida. Infatti, a «Kampala nel 2019, la Chiesa in Africa riafferma di essere in missione per tutta la Chiesa e che il suo cristianesimo africano non sarà un cristianesimo regionale, ma un’espressione all’interno della Chiesa Una, Santa, Cattolica e Apostolica, confessando l’unica e indivisibile Fede e ponendosi al servizio dell’unica famiglia umana»[23]. Come far sì che una tale risoluzione prenda forma nell’attuale dinamica del Sinodo sulla sinodalità? Come passare da un modo regionale di seguire Cristo a camminare insieme nelle differenze tra le regioni? Come realizzare un’autentica cattolicità in cui ogni cristiano e ogni Chiesa locale si preoccupi non solo del proprio contesto, ma anche di tutte le altre Chiese che vivono in altre parti del mondo? Come vivere, insomma, da testimoni dell’unico Cristo, la diversità di contesti, carismi, funzioni, ruoli? Questa è la sfida della sinodalità, perché camminare insieme per agire insieme presuppone l’apertura reciproca, che inizia con un ascolto autentico, vale a dire ospitale. Questa accoglienza delle differenze attraverso l’ascolto trova la sua giustificazione nella filosofia africana dell’Ubuntu – «Io sono perché tu sei!» – e nella dottrina teologica nella comune filiazione mediante il battesimo, grazie al quale siamo tutti figlie e figli di Dio nel Figlio unigenito. Poiché è lo Spirito del Padre e del Figlio che orchestra in sinfonia questa diversità, una domanda rimane in sospeso nella Chiesa d’Africa: Come vive la Chiesa, famiglia di Dio, la sua missione nello Spirito? La Chiesa in Africa è un attore importante nelle società africane, in particolare sulle questioni sociali: salute, istruzione, ambiente, migrazione ecc. In che modo questa «Famiglia di Dio» vive questo suo impegno per la sinodalità?
Conclusione
Con questa panoramica della nostra percezione della Chiesa in Africa nei tempi attuali, abbiamo voluto condividere quelli che vediamo come possibili punti di riferimento per un dialogo fruttuoso con questa Chiesa di Cristo. Tre immagini ci sono quindi servite per articolare la nostra proposta: 1) il «polmone spirituale», espressione di papa Benedetto XVI, che caratterizza questo continente, dove l’elemento religioso è dominante nel cuore della vita quotidiana; 2) la «Vita» come valore fondamentale attraverso il quale il cristiano africano trova nel mistero di Gesù Cristo il senso ultimo della sua esistenza (cfr Gv 14,6); 3) la «Famiglia» come espressione del modello di comunità ecclesiale che parla alle menti e ai cuori degli africani secondo il discernimento dei pastori della Chiesa in Africa.
Come abbiamo indicato, queste immagini provengono dal cammino della Chiesa africana nella storia, alle prese con le realtà del suo popolo[24]. Dalla celebrazione giubilare di Kampala nel 2019 emerge che la Chiesa in Africa non vuole «continuare a essere una “Chiesa sotto tutela” e che [cerca di] assumere una responsabilità missionaria verso la sua terra di insediamento – l’Africa – e anche nei confronti della Chiesa universale»[25]. Alla luce di questo, essa ha preso coscienza di una questione centrale da affrontare: «la formazione di un soggetto ecclesiale equipaggiato per proseguire l’opera missionaria»[26]. Come si vede, il cammino delle società politiche africane ha delle risonanze in quello della Chiesa africana. La sfida? Seguire allo stesso tempo un altro cammino: quello della Chiesa universale nella sinodalità.
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[1]. Cfr F. Fanon, Les damnés de la terre, Paris, François Maspero, 1961 (in it. I dannati della terra, Torino, Einaudi, 1969). In questo libro l’autore analizza il trauma dei colonizzati.
[2]. Il filo conduttore della retorica africana è, a nostro avviso, quello del bisogno di essere ascoltati. L’Africa vuole essere «soggetto» di un discorso che venga ascoltato. Al riguardo, cfr F. Sarr, Afrotopia, Paris, Philippe Rey, 2016, che costituisce sia una sintesi sia una nuova proposta per pensare l’Africa a partire dalle proprie risorse spirituali, simboliche, economiche, sociali ecc., al fine di uscire dal mimetismo e reinventarsi.
[3]. Il gesto di papa Giovanni Paolo II contribuisce a rimarginare la memoria delle popolazioni nere dell’Africa e della diaspora. Perché non c’è stata solo la tratta transatlantica degli schiavi, ma anche la schiavitù transahariana: cfr J. Heers, Les négriers en terres d’Islam. La première traite des Noirs. VIIe -XVIe siècle, Paris, Perrin, 2003; T. N’Diaye, Le Génocide voilé: Enquête historique, Paris, Gallimard, 2008; C. Sadai, «Racisme anti-Noirs au Maghreb: dévoilement(s) d’un tabou», in Hérodote 180 (2021/1) 131-148. In riferimento a questi autori e a molti altri, cfr la critica di M. Oualdi, L’esclavage dans les mondes musulmans. Des premières traites aux traumatismes, Paris, Éditions Amsterdam, 2024.
[4]. È stata pubblicata una riflessione teologica sull’evento: M. Uwineza – E. Rutagambwa – M. Segatagara Kamanzi, Reinventing Theology in Post-Genocide Rwanda: Challenges and Hopes, Washington, DC, Georgetown University Press, 2023.
[5]. Cfr N. Mandela, Long Walk to Freedom: The Autobiography of Nelson Mandela, Time Warner Books, 1995 (in it. Lungo cammino verso la libertà, Milano, Feltrinelli, 2013).
[6]. Benedetto XVI, Omelia nella Messa per l’apertura della seconda Assemblea speciale per l’Africa del Sinodo dei vescovi, 4 ottobre 2009.
[7]. Id., Esortazione apostolica post-sinodale Africae munus, Ouidah (Bénin), 19 novembre 2011.
[8]. Cfr la riflessione filosofica su questi luoghi simbolici in F. Eboussi Boulaga, La crise du Muntu. Authenticité africaine et philosophie, Paris, Présence Africaine, 1977. Cfr il romanzo dello scrittore sudanese A. Baraka Sakin, La princesse de Zanzibar, Zulman, 2022, che riecheggia le memorie di Emily Ruete, nata principessa di Oman e Zanzibar, Mémoires d’une princesse arabe, Paris, Karthala, 1991, di cui l’originale tedesco apparve nel 1886.
[9] . Il ricordo di questi eventi potrebbe spiegare l’atteggiamento dell’Uganda e della Chiesa in Africa, in generale, nel recepire la dichiarazione del Dicastero per la dottrina della fede Fiducia supplicans sul senso pastorale delle benedizioni.
[10]. Sembra che l’uomo, ormai vecchio, sia morto dopo la benedizione finale della Messa celebrata da papa Giovanni Paolo II il 10 maggio 1980, a Ouagadougou (Burkina Faso).
[11]. Cfr W. J. Jennings, The Christian Imagination. Theology and the Origins of Race, New Haven – London, Yale University Press, 2010, 119-168.
[12]. Cfr L. Sanneh, Translating the Message: The Missionary Impact on Culture, New York, Orbis Books, 2009.
[13]. Un primo progetto teologico è stato proposto da F. Mkenda – M. Amaladoss – G. J. Hughes – L. Magesa – D. B. Stinton, The Way, the Truth, and the Life. A Confluence of Asia, Europe and Africa in Jesus of Nazareth, Nairobi, Jesuit Historical Institute in Africa, 2017.
[14]. Cfr l’elaborazione di questa visione in B. Bujo, La vision africaine du monde. Pour un enseignement social de l’Église sans loi naturelle, Saint-Maurice, Éditions Saint-Augustin, 2018, 63-84.
[15]. B. Diop, «Les souffles». La vita comprende quindi l’ordine cosmico.
[16]. Cfr C. Kolié, «Jésus guérisseur?», in J. Doré – F. Kabasele – R. Luneau (edd.), Chemins de la christologie africaine, Paris, Desclée, 1986, 167-194; D. Ndubuisi-Nwuzor, A Survey of African Christology, Tesi dottorale, Pamplona, 1997, 43 s; R. Luneau – A. Titianma Sanon, Enraciner l’évangile. Initiations africaines et pédagogie de la foi, Paris, Cerf, 1982, 63-218.
[17]. Questa complessa questione della patrilinearità o matrilinearità è oggetto di ricerche antropologiche che non possono essere analizzate qui.
[18]. Il primo dei martiri dell’Uganda, Joseph Mukasa, maggiordomo e uomo stimato dalla comunità cristiana, ha mostrato l’eroismo della sua fede resistendo alle pratiche omosessuali del re Mwanga. Mukasa sottraeva abilmente i giovani paggi del palazzo al re, che aveva l’abitudine di usarli per soddisfare i suoi desideri sessuali. Cfr A. Nicq, Le Père Siméon Latourel, Maison-Carrée, 1922, 314 s. Cfr anche la Positio per il martirio di Charles Lwanga et Mathias Murumba e compagni, capitoli II e VII, Roma, Guerra e Mirri, 1918.
[19]. Benedetto XVI, Omelia nella Messa per la conclusione della seconda Assemblea speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi, 25 ottobre 2009.
[20]. V. Olmi, Bakhita, Paris, Albin Michel, 2017, citazione in quarta di copertina. Secondo Tidiane N’Diaye, il destino di questa ragazza del Darfur riassume la lunga «via crucis» del popolo nero a partire dal Trattato di Bakht, che, «a quanto pare, non è mai cessata» (Id., Le Génocide voilé, cit., 27).
[21]. A questo proposito, la Chiesa d’Africa è erede dell’iniziativa della Conferenza episcopale del Burkina Faso (allora Alto Volta), che, nel suo messaggio dell’aprile 1977, scelse di organizzarsi come «Chiesa-Famiglia di Dio»: cfr B. Roamba, «Pour une ecclésiologie de l’Église-Famille», in Telema 89-90 (1997) 43-68. Su questo argomento, cfr D. Nothomb, «L’Église-famille: concept-clé du Synode des évéques pour l’Afrique. Une réflexion théologique et pastorale», in Nouvelle Revue Théologique 117 (1995) 44-64; B. M. Somé, «Église-Famille-de-Dieu: de la genèse d’un concept ecclésiologique à l’époque contemporaine», in Kanien 1 (2013/1) 45-62.
[22]. Il documento qui si riferisce ai due Sinodi del 2014 e del 2015, tenutisi a Roma. Il Documento di Kampala è una Esortazione pastorale del Simposio delle Conferenze episcopali di Africa e Madagascar (Secam), indirizzata ai vescovi, ai sacerdoti, ai religiosi, alle religiose e a tutti i fedeli laici della Chiesa-Famiglia di Dio in Africa in occasione del «Giubileo d’oro» del Secam (1969-2019), celebrato a Kampala nel 2019.
[23]. Documento di Kampala, n. 51.
[24]. Si veda un libro che illustra questo pellegrinaggio della Chiesa al centro della società in cui cammina: N. Kemneloum Djimadoumbaye, Lumière dans notre nuit. Recueil des messages de l’épiscopat tchadien (1965–2020), Abidjan, Presses de l’ITCJ, 2021.
[25]. Documento di Kampala, n. 22.
[26]. Ivi, n.27. L’espressione «Chiesa sotto tutela», usata nel testo, deriva dal titolo di un saggio di ecclesiologia di P. M. Hebga, Émancipation d’Églises sous tutelle. Essai sur l’ère post-missionnaire, Paris, Présence Africaine, 1976. Le tesi di questo libro possono essere comprese nel contesto del Sinodo sull’evangelizzazione del 1974 e dell’articolo di F. Eboussi Boulaga, «La démission», in Spiritus 56 (1974) 276-287.