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Per i 100 anni dalla prima edizione del suo Ulisse (2 febbraio 1922 – 2 febbraio 2022) e i 140 anni dalla nascita, abbiamo pubblicato integralmente anche sul nostro sito questo ritratto di James Joyce, scritto per noi nel 2004 da Bruce Bradley S.I.
Il 1904 fu un anno chiave nella vita dello scrittore irlandese James Joyce, considerato generalmente una delle più grandi figure della letteratura del XX secolo. Il 16 giugno 1904, all’età di 22 anni, egli ebbe il suo primo appuntamento a Dublino con una cameriera dell’albergo Galway, di nome Nora Barnacle, di due anni più giovane di lui, che aveva incontrato per caso alcuni giorni prima. Si innamorarono subito e, meno di quattro mesi più tardi, fuggirono sul continente. Anche se arrivarono al matrimonio civile soltanto molti anni più tardi, rimasero insieme fino alla morte di Joyce, nel 1941.
Quando scrisse il suo romanzo più famoso, Ulisse, egli fissò l’intera azione di questo capolavoro innovativo in quella data speciale, come tributo a Nora. Quest’anno ricorre il centenario di quello che fu quasi subito chiamato «il giorno di Bloom», da Leopold Bloom, la figura centrale del libro. Si sono svolte celebrazioni speciali, di tipo popolare e accademico, per rimarcare l’evento, non solo nella stessa Dublino, dove si è tenuto un simposio internazionale, ma in tutto il mondo. Notevole, fra i festeggiamenti, è stata la mostra International Joyce, organizzata dal Ministero irlandese degli Affari Esteri e presentata anche in città tanto lontane tra loro come Boston e Pechino.
La giovinezza
La comparsa di un saggio sulla sua vita e il suo lavoro in un periodico dei gesuiti pubblicato a Roma non è un fatto privo di ironia storica, in virtù della distanza che Joyce scelse di porre tra sé, da una parte, e l’Irlanda, la Chiesa cattolica romana e i gesuiti, suoi educatori dall’età di sei anni fino ai venti, dall’altra. Ma parte del paradosso di James Joyce è che, anche se lasciò Dublino per un esilio permanente nell’anno del suo incontro fatidico con Nora e vi ritornò successivamente soltanto per tre brevi visite, l’ultima delle quali nel 1912, il suo lavoro letterario è quasi esclusivamente concentrato sulla sua città natale. Dublino fornisce non solo l’ambientazione concreta ma anche i personaggi e l’atmosfera di tutti i suoi libri. E in quanto al suo cattolicesimo, è in qualche modo vero, per lui, come per la sua controparte narrativa Stephen Dedalus, che la sua mente fosse «ipersatura» della religione, in cui egli sosteneva di non credere[1]. Alla domanda fattagli dall’avvocato americano Morris Ernst — che difese con successo l’Ulisse dalle accuse di oscenità mosse negli Stati Uniti nel 1933 — fino a che punto egli avesse lasciato la Chiesa cattolica, Joyce rispose con la caratteristica vaghezza: «Questo sta alla Chiesa dirlo»[2]. Per la loro vasta influenza sui suoi anni più sensibili, egli tendeva a vedere i suoi insegnanti gesuiti come l’incarnazione virtuale della stessa Chiesa cattolica. Durante la prima guerra mondiale, che egli trascorse nella neutrale Svizzera, disse al suo compagno di esilio, l’artista inglese Frank Budgen: «Tu alludi a me come a un cattolico. Ora, a beneficio della precisione e per avere un profilo reale, tu dovresti alludere a me come a un gesuita»[3]. Era un’immagine di se stesso che egli riprodusse più tardi nell’Ulisse, dove Stephen Dedalus viene criticato per il fatto che «in te c’è una dannata inclinazione interiore da gesuita, solo che essa viene insinuata in modo sbagliato»[4], un complimento in qualche modo sottinteso nei riguardi del rigore morale dei gesuiti, cosa che aveva identificato con ciò che egli considerava come un tipo di coraggio morale parallelo da rifiutare.
Le circostanze dei primi anni della sua vita e le peculiarità del suo stesso difficile temperamento e raro genio aiutano a spiegare almeno parte della sua alienazione. Egli, il maggiore di dieci figli, nacque all’interno di una agiata famiglia della classe media a Dublino nel 1882. La personalità fuori del normale e le innumerevoli vicissitudini di suo padre, l’estroverso John Stanislaus, ebbero un’influenza molto significativa sul lavoro creativo dello scrittore. John Joyce aveva ereditato vaste proprietà ma gradualmente aveva sperperato tutto, riducendo la sua numerosa famiglia in povertà. Egli favorì James, di gran lunga a discapito degli altri figli: soltanto lui infatti ebbe il beneficio di un’educazione completa. Fu mandato a Clongowes, il famoso collegio dei gesuiti situato 20 miglia fuori della città, fin da quando aveva appena 6 anni e mezzo e lì rimase fino a poco prima del Natale del 1891. A quell’epoca stava per cominciare il precipitoso declino economico della famiglia. Il padre di Joyce fu un ardente seguace del leader politico irlandese Parnell. La caduta in disgrazia di quest’ultimo l’anno precedente, dovuta a una relazione scandalosa con la moglie di un collega di partito, e la sua morte improvvisa nell’ottobre del 1891 possono aver contribuito alla perdita del lavoro da parte del padre dello scrittore, avvenuta circa nello stesso periodo, quando aveva soltanto 42 anni. Egli riteneva un tradimento la posizione assunta dai vescovi cattolici contro il protestante Parnell. Parte dello stesso anticlericalismo di James Joyce può essere retaggio delle posizioni politiche di suo padre. John Joyce non tornò mai più a lavorare e, per l’impossibilità di continuare a pagare la retta di frequenza, James fu ritirato da Clongowes.
Dopo circa 15 mesi, verso la fine dei quali Joyce e suo fratello minore Stanislaus andarono per breve tempo a scuola dai fratelli delle Scuole Cristiane nella zona centro-nord dove la famiglia allora viveva, poi entrambi i ragazzi furono trasferiti nella scuola diurna dei gesuiti, il collegio Belvedere, nella stessa zona, dove li avrebbero seguiti più tardi gli altri due fratelli, nell’aprile del 1893. L’ammissione fu regolarizzata grazie all’interessamento di padre John Conmee, precedentemente rettore di Clongowes e quindi membro dello staff del Belvedere, senza pagamento di rette di frequenza. Joyce stava già emergendo come un ragazzo dall’intelligenza precoce ed ebbe subito riconoscimenti negli esami, cosa che fruttò entrate alla scuola e premi e borse di studio allo studente stesso. I suoi primi anni al Belvedere furono caratterizzati da una diligente applicazione agli studi. Egli attirò l’attenzione del suo insegnante di inglese, George Dempsey: proprio nelle sue lezioni fu introdotto alle Avventure di Odisseo di Charles Lamb. Quando fu assegnato un saggio su «Il mio eroe preferito», Joyce scelse di scrivere su Ulisse, e, anni più tardi, raccontò al suo traduttore italiano, Carlo Linati, quando stava lavorando al romanzo che porta quel nome, che l’astuto greco vagabondo lo aveva affascinato «sin da ragazzo»[5]. Dempsey riconobbe subito le precoci abilità letterarie del giovane, tanto che volle addirittura leggere il suo lavoro in classe ad alta voce, e «si sarebbe letteralmente mosso di qua e di là e avrebbe ridacchiato di piacere» egli stesso all’interpretazione[6]. Più tardi, egli diede a Joyce la libertà insolita di scrivere su argomenti di sua stessa scelta. «Alla fine», scrisse Stanislaus, «egli dava per scontato che “Gussie”, come lo chiamava scherzosamente per il suo secondo nome Augustine, sarebbe diventato uno scrittore»[7].
L’evidente religiosità di Joyce nei primi anni di vita, quando era ancora influenzato dalla sensibile religiosità di sua madre May più che dall’aspro anticlericalismo di suo padre, condusse alla sua elezione come prefetto della Congregazione Mariana nel settembre del 1896, suo penultimo anno al Belvedere. Questo fu un segno di grande stima, sia per la sua bravura letteraria sia per la sua religiosità, e lo rese, in effetti, prefetto o allievo di riferimento della scuola. Ma, all’insaputa dei suoi insegnanti gesuiti e dei compagni di corso che avevano votato per lui, a quel tempo egli aveva anche cominciato a frequentare la zona dei bordelli vicini a casa sua. Il conflitto tra il soddisfare i suoi impulsi sessuali e il perseguire i suoi ideali religiosi raggiunse il punto di crisi durante il ritiro scolastico a dicembre, nel quale il predicatore prospettò un’eternità nell’Inferno per i colpevoli di peccato mortale. In un parossismo di colpa e paura, egli trovò un benevolo confessore nella chiesa dei cappuccini, a poca distanza da casa sua e da scuola, e giurò di correggere la sua vita. Riuscì a resistere circa un anno, nel corso del quale il rettore del Belvedere lo aveva effettivamente invitato a considerare l’ipotesi di diventare gesuita. Ma, verso la fine della scuola, nel giugno 1898, come avrebbe raccontato a Nora successivamente, egli prendeva atto di «aver lasciato la Chiesa cattolica, odiandola nella maniera più forte», poiché «era impossibile per me rimanere in essa in considerazione degli impulsi della mia natura»[8].
Dopo il Belvedere, Joyce continuò la propria formazione, ancora formalmente sotto la tutela dei gesuiti, al college universitario di St. Stephen’s Green. In realtà, dedicò la maggior parte del suo tempo alla lettura di una varietà impressionante di testi della letteratura europea contemporanea. Già al Belvedere egli aveva cominciato a concentrarsi sui grandi maestri contemporanei Henrik Ibsen, Gabriele D’Annunzio e Gerhart Hauptmann, ma frequentò raramente le lezioni universitarie, così che nel 1902 gli fu assegnato un voto mediocre in Inglese, Francese e Italiano. La sua disaffezione religiosa divenne evidente un anno dopo. Sua madre, ormai malata terminale di cancro, lo implorò di adempiere al precetto pasquale, ma egli rifiutò. Quando May Joyce morì in agosto, né lui né Stanislaus furono presenti al suo capezzale. Stephen Dedalus sarà ossessionato da tale rifiuto nelle pagine dell’Ulisse.
Le prime composizioni
Fuggito con Nora nel settembre del 1904, ansioso com’era di uscire dalla decadenza della casa di suo padre e non in sintonia con la religione e il fiacco nazionalismo dublinese, egli trovò un lavoro come insegnante di inglese nella scuola Berlitz di Trieste, a quel tempo il porto commerciale dell’Impero Austro-Ungarico sull’Adriatico. A scuola aveva cominciato a scrivere brevi poesie e piccole storielle in prosa, che egli chiamò epiphanies. A Londra nel 1900, mentre frequentava l’università, veniva pubblicato su una rivista un suo saggio critico sul nuovo lavoro di Ibsen, Quando noi morti ci destiamo. Prima di lasciare Dublino, aveva cominciato a scrivere una serie di brevi racconti che sarebbero diventati I dublinesi e continuò a lavorare su di essi e su un romanzo semiautobiografico che chiamò Stephen l’eroe, alla fine abbandonato e trasformato in Un ritratto, a Trieste. Le strane storie, quasi prive di trama e vagamente sovversive, de I dublinesi dipingevano i suoi concittadini in modo non adulatorio, come intrappolati in una prigione di mediocrità e aspirazioni represse, il genere di vita convenzionale da cui era riuscito egli stesso a fuggire. Scritto in quello che egli chiamò «uno stile di scrupoloso squallore»[9], il libro si proponeva di «denunciare l’anima di quella emiplegia o paralisi che molti considerano una città»[10]. Ma egli sperava che sarebbe stato anche «il primo passo verso la liberazione spirituale del mio paese»[11].
Nel 1907 venne pubblicato il suo volumetto di poesie, Musica da camera, liriche leggere e delicatamente elaborate, con un sapore quasi elisabettiano, e sostanzialmente non influenzate dal movimento celtico, allora in ascesa in Irlanda. Egli completò I dublinesi nell’autunno di quell’anno, insieme al suo racconto più importante, «Il morto», successivo a un breve e insoddisfacente soggiorno a Roma, dove lavorò come impiegato di banca. A quel tempo il suo punto di vista sulla sua città natale si era leggermente modificato, e «Il morto» riflette un nuovo senso di romantica nostalgia e pathos assenti dai suoi precedenti racconti. Ma i suoi sforzi di vedere il libro pubblicato si trasformarono in un’avventura lunga e frustrante fino all’inverosimile, poiché i vari editori interpellati reagirono alla disinvoltura del suo linguaggio e chiesero cambiamenti che Joyce non poteva accettare. Venne finalmente pubblicato nel mese di giugno del 1914. I tempi non erano comunque propizi, troppo poche furono le copie vendute, e la natura innovatrice della sua realizzazione fu largamente ignorata.
Suo figlio Giorgio nacque nel mese di luglio del 1905 e sua figlia Lucia due anni dopo, nel mese di luglio del 1907. Per poter mantenere la sua famiglia — a quell’epoca con l’aiuto del fratello Stanislaus, che era venuto via da Dublino per unirsi a loro — Joyce continuò a insegnare nelle scuole di lingua di Trieste, mentre acquistava anche un numero sempre crescente di prestigiosi allievi privati, molti dei quali divennero amici importanti e influenti. L’inizio della prima guerra mondiale allontanò la famiglia dalla città nel giugno del 1915, ed essi cercarono rifugio a Zurigo. Dall’inizio del 1914, grazie all’influenza di Ezra Pound, Un ritratto stava apparendo in rubriche all’interno di The Egoist, una rivista letteraria radicale pubblicata a Londra. Molti editori respinsero il libro, ma B. W. Huebsch lo portò finalmente a New York, alla fine del 1916. I racconti de I dublinesi erano stati attentamente costruiti in progressione per dipingere scene nella vita dei personaggi, dall’infanzia, attraverso l’adolescenza, fino alla maturità.
Nel progetto più ambizioso di Un ritratto, nel genere del Bildungsroman (romanzo di formazione), noi osserviamo Stephen Dedalus, la controparte immaginaria di Joyce, crescere nella sua capacità di espressione, dalle piccole frasi dell’infanzia, attraverso i suoi primi giorni di scuola e l’adolescenza a Clongowes e poi al Belvedere, fino ai suoi anni all’università e alla piena maturazione della decisione, confidata con grande ardore studentesco al suo diario, di respingere la famiglia, la fede e la terra paterna e, come lo stesso Joyce, di andare in esilio per compiere il suo destino di artista letterario. Il contenuto e lo stile in progressione continua si sviluppano in accordo con la particolare maturazione personale e artistica del protagonista. Lo strano cognome di Stephen fu preso dal cap. VIII delle Metamorfosi di Ovidio e, in particolare, dal racconto di Dedalo e Icaro che fuggono via dal re Minosse e dal labirinto di Creta, che Joyce aveva letto al Belvedere. Il tema dell’artista che riesce a fuggire, grazie alla sua arte, dalla morsa delle forze che minacciano di distruggerlo fu chiaramente espresso nell’epigrafe del libro. Ma come con I dublinesi, anche Un ritratto, pubblicato nel pieno della guerra, non ottenne il successo che sarebbe arrivato più tardi.
L’«Ulisse» e «La veglia di Finnegan»
Già prima della sua partenza per Zurigo a metà del 1915, egli aveva cominciato a lavorare al suo nuovo romanzo, Ulisse, sviluppando un’idea che aveva concepito originariamente a Roma nel 1906. Negli anni successivi, fino alla sua pubblicazione nel 1922, questo libro rappresentò una continua e intensa preoccupazione. Esso descriveva un giorno nella vita di un comune abitante di Dublino, un agente pubblicitario di origine ebrea, di nome Bloom, nel contesto di un vasto panorama di vita cittadina, in quel famoso giorno, il 16 giugno 1904. Egli e la sua poco fedele moglie Molly, una cantante d’opera, avevano avuto un figlio, che era morto da bambino — come erano morti diversi fratelli di Joyce — e una figlia, Milly. Osserviamo Bloom muoversi attraverso gli eventi ordinari della sua giornata, dalla mattina presto fino alle prime ore del 16 giugno, nel momento in cui aveva ormai preso Stephen Dedalus sotto la sua protezione, conducendolo alla fine nella sua stessa casa in Eccles Street. Non accade nulla di straordinario: il signor Bloom si alza, fa colazione, va a un funerale, fa un salto in ufficio, pranza, si siede in un pub con alcuni amici, fa un giro verso la periferia sud, visita un reparto di maternità; salva Stephen da una piccola lite, visita un bordello insieme a lui e finalmente va a casa. Una vasta gamma di personaggi, alcuni ripresi dai lavori precedenti di Joyce, divide la giornata e la città insieme a lui. Joyce raccontò a Budget che voleva «fornire un quadro di Dublino così completo che, se un giorno la città dovesse sparire improvvisamente dalla terra, potesse essere ricostruita attraverso il mio libro»[12]. L’uso dell’Odissea di Omero come vaga cornice al romanzo trasforma l’assai banale, pur se pateticamente umano, Bloom in una figura semieroica, un’ultima giornata di Odisseo (o Ulisse, nella versione latina), che attraversa il mondo e finalmente torna a casa dalla sua Penelope e dal figlio, Telemaco, alias Stephen Dedalus. Nell’Ulisse, Joyce si impegna nella sperimentazione audace di stili differenti nel susseguirsi degli episodi del libro, presagendo l’audace sperimentazione del suo lavoro finale, La veglia di Finnegan.
L’Ulisse fu pubblicato a Parigi, dove egli si era trasferito con la famiglia nel mese di luglio 1920, stampato dalla «Shakespeare and Company», una libreria fino allora sconosciuta e gestita dall’emigrata americana Sylvia Beach, dopo che Huebsch e altri si erano rifiutati di pubblicarlo. Secondo il suo superstizioso desiderio, le prime copie apparvero il giorno del suo 40° compleanno, il 2 febbraio 1922. Fece subito colpo, anche se il commento critico fu inizialmente cauto e, in alcuni casi, decisamente negativo. W. B. Yeats, contemporaneo irlandese più anziano di Joyce, che lo aveva aiutato al tempo della sua partenza dall’Irlanda, fu inizialmente disgustato, ma più tardi dovette riconoscere la genialità dell’opera e scrisse che Joyce aveva «certamente superato in intensità qualunque romanziere del nostro tempo»[13]. Ernest Hemingway esclamò in modo memorabile: «Joyce ha un libro maledettamente meraviglioso»[14]. T. S. Eliot, avendo in mente «l’uso parallelo dell’Odissea» da parte di Joyce, ritenne che il lavoro avesse «l’importanza di una scoperta scientifica»[15]. Ma l’evidente amoralità dei suoi personaggi principali, la completa assenza di prospettive trascendenti, l’allegra irreligiosità di Bloom e la derisione del cattolicesimo presente nel libro condussero a una risposta differente da parte di Shane Leslie, che scrisse un articolo con lo pseudonimo di «Domini canis» nella Dublin Review, dove parlò di «un grande intelletto educato dai gesuiti […] passato in modo maligno e beffardo al potere del diavolo»[16]. Durante i primi dieci anni successivi alla sua pubblicazione, l’Ulisse superò una serie di ostacoli legali in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, fino a raggiungere la pubblicazione in tutto il mondo. Ora Joyce era famoso.
Appena completato l’Ulisse, egli si imbarcò subito in un progetto persino più radicale, il titolo del quale tenne segreto per circa 16 anni, fino a poco prima della pubblicazione, nel 1939, La veglia di Finnegan. Se l’Ulisse era il «libro del giorno», in cui egli esplorava le possibilità del «monologo interiore» o «flusso di coscienza» in modo più esaustivo di qualunque altro scrittore prima di lui, La veglia di Finnegan era il libro della notte. L’episodio finale dell’Ulisse conteneva il lungo soliloquio di Molly Bloom poco prima di addormentarsi. Ne La veglia di Finnegan il lettore è invitato a entrare nella mente sognatrice di un locandiere di Chapelizod, un villaggio a ovest di Dublino, sulle sponde del fiume Liffey. H. C. Earwicker rivive tutta la storia dell’umanità nei suoi cicli ricorrenti per tutta la durata della notte. Parallelamente alla funzione dell’Odissea di Omero nell’Ulisse, Joyce usò La Scienza Nuova di Giambattista Vico come cornice strutturale per il suo ultimo romanzo. Mentre Bloom nell’Ulisse è «ogni uomo», ma conserva con chiarezza la propria distinta individualità, ne La veglia di Finnegan Earwicker è «tutti» e si trasforma in ognuno di loro, non appena le distinzioni di tempo, luogo e identità individuale si dissolvono. La padronanza di Joyce dei differenti stili, del ritmo e del vasto vocabolario della lingua inglese era ora così completa che egli poteva dire di avere esaurito le sue possibilità. Il suo nuovo libro è composto nel linguaggio surreale dei sogni. Nei luoghi — come, ad esempio, nella descrizione del fluire ciclico del corso del fiume Liffey, che si identifica anche con la moglie del sognatore, Anna Livia Plurabelle — l’espressionismo di Joyce arriva ad altezze liriche. I giochi di parola multilinguistici e gli altri espedienti linguistici trasmettono le confusioni, le repressioni e le amalgamate identità del mondo dei sogni, e Joyce stesso rivelò con un’espressione straordinaria a Samuel Beckett, attraverso la sua segretaria a Parigi, di avere «messo il linguaggio a dormire»[17].
Egli fu sempre capace di vivere al di là dei propri mezzi, piccoli o grandi che fossero, e — come suo padre a Dublino — cambiò continuamente indirizzo, senza mai avere alcuna proprietà e rimanendo raramente in uno stesso posto per diversi anni. Egli e Nora ebbero più di 30 indirizzi diversi in Europa tra il 1904 e il 1940. Ma, contrariamente alla precaria povertà dei suoi primi anni, egli ebbe una sostanziale sicurezza finanziaria dai primi anni Venti, soprattutto grazie alle notevoli e numerose donazioni di una benefattrice inglese e patrona di cause radicali, Harriet Shaw Weaver, la quale aveva cominciato ad aiutarlo — prima in modo anonimo — dal tempo in cui viveva a Zurigo. Inoltre, egli aveva ora introiti significativi grazie al suo lavoro letterario. Malgrado tale sicurezza e la crescente fama internazionale, gli anni in cui stava scrivendo La veglia di Finnegan furono rovinati dai suoi sempre più seri problemi agli occhi, che lo costrinsero a una lunga serie di interventi chirurgici con risultati soltanto parziali, e dall’incubo dell’evidente e crescente schizofrenia di sua figlia Lucia. Per lungo tempo Joyce cercò di negare le condizioni della figlia, ma, dopo molti tentativi di curarla o prendersi cura di lei in altre maniere, dovette acconsentire con grande riluttanza a farla ricoverare definitivamente in un istituto nella primavera del 1936.
A completare la sua tristezza nell’ultimo decennio della sua vita, persino i suoi più ardenti ammiratori non furono in grado di apprezzare la sperimentazione apparentemente bizzarra de La veglia di Finnegan. E per di più, come ultima goccia, avvenne che la pubblicazione nell’estate 1939 coincise con l’inizio della seconda guerra mondiale e fu da questa spiacevolmente oscurata — come egli stesso si rese conto —, ma egli fu anche felice di venire a sapere di una recensione positiva pubblicata sull’Osservatore Romano[18] poco prima della sua morte. L’invasione tedesca condusse lui e Nora, il loro figlio Giorgio, che si era allora separato da sua moglie Helen, e il loro nipotino Stephen fuori da Parigi, in una piccola cittadina vicino a Vichy, St. Gérand-le-Puy. Riuscirono finalmente ad andare verso la Svizzera poco prima del Natale 1940, ma Joyce morì di ulcera perforante il 13 gennaio 1941, 20 giorni prima del suo 60° compleanno.
Conclusione
Quale fu l’exploit di Joyce? La sua produzione fu relativamente limitata, poiché ciascuno dei suoi maggiori lavori portò via un certo numero di anni (nel caso de La veglia di Finnegan addirittura 17). Pochi scrittori hanno posseduto una stessa magistrale padronanza del linguaggio e della tecnica letteraria. Si può arguire che Joyce, sempre più interessato alla forma e allo stile piuttosto che al contenuto, mentre cresceva nella padronanza della lingua, negli ultimi anni non riuscì a esprimere le sue prodigiose doti letterarie come avrebbe potuto. Egli stesso sosteneva di non avere immaginazione, cosa che non era del tutto vera, ma le sue capacità furono forse più quelle di un geniale architetto letterario piuttosto che quelle di uno scrittore con una grande e profonda visione della vita. Non si può dubitare che, con precoce audacia, egli abbia prima studiato attentamente e poi cercato di trasformare la tradizione letteraria inglese in cui era stato educato. I suoi lavori — persino i più complicati — sono stati tradotti in molte lingue, incluso il giapponese, e rimangono al centro di un intenso interesse letterario. Persino in alcuni sondaggi di opinione pubblica, l’Ulisse è stato votato come uno dei più grandi romanzi del XX secolo.
Ci furono alcuni segni di ammorbidimento nel suo atteggiamento verso la religione negli ultimi anni di vita, anche se va detto che le lettere che egli scrisse nell’ultimo decennio, tormentato com’era dalle difficoltà sue e della sua famiglia così come dalla crescente minaccia della situazione politica, sono segnate da una profonda malinconia. «Se non ci aspetta nulla se non la rovina, mi auguro che qualcuno lo faccia notare», scrisse a Budgen nel 1934[19]. Due anni più tardi egli disse ad Harriet Weaver di non avere «nulla nel mio cuore se non […] la rabbia e la disperazione di un uomo cieco»[20]. C’è un senso nel fatto che, per lui, la composizione de La veglia di Finnegan fosse una diversione assai sofisticata ed estremamente complicata, un gioco giocato con tutta la bravura comica che Joyce seppe mettere insieme con la sfrontatezza della futilità ultima. Come aveva scritto alla signorina Weaver in precedenza: «So che non è più che un gioco, ma è un gioco che ho imparato a giocare a modo mio. I bambini possono giocare oppure no. L’orco verrà in ogni caso»[21]. Per rispetto a quelli che Nora sapeva essere i suoi desideri, egli fu sepolto due giorni dopo la sua morte senza cerimonia religiosa nel cimitero Fluntern di Zurigo, dove ora lei riposa accanto a lui.
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[1] Cfr J. JOYCE, A Portrait of the Artist as a Young Man, edited with introduction and notes by S. DEANE, London, Penguin Books, 1992, 261.
[2] R. ELLMANN, James Joyce, New York, Oxford University Press, 19822, 65 (tr. it.: Milano, Feltrinelli, 1982).
[3] Ivi, 27.
[4] J. JOYCE, Ulysses, edited with introduction and notes by D. Kiberd, London, Penguin, 1992, 8 (tr. it.: Milano, Mondadori, 1960).
[5] R. ELLMANN (ed.), Selected Letters of James Joyce, New York, Viking Press, 1975, 270.
[6] Cfr J. F. BYRNE, Silent Years: An Autobiography with Memoirs of James Joyce and Our Ireland, New York, Octagon Books, 1953, 147.
[7] S. JOYCE, My Brother’s Keeper. James Joyce’s Early Years, edited with introduction and notes by R. Ellmann, London, Viking Press, 1958, 76.
[8] R. ELLMANN (ed.), Selected Letters of James Joyce, cit., 25.
[9] Ivi, 82.
[10] Ivi, 22.
[11] Ivi, 88.
[12] F. BUDGEN, James Joyce and the Making of Ulysses and Other Writings, London, Oxford University Press, 1972, 69.
[13] R. ELLMANN, James Joyce, cit., 531.
[14] Ivi, 529.
[15] In The Dial, November 1923, 75.
[16] In Dublin Review, luglio-settembre 1922, 171.
[17] R. ELLMANN, James Joyce, cit., 546.
[18] Cfr ivi, 739.
[19] R. ELLMANN (ed.), Letters of James Joyce, vol. III, New York, Viking Press, 1966, 332.
[20] ID. (ed.), Selected Letters of James Joyce, cit., 374.
[21] ID. (ed.), Letters of James Joyce, vol. III, cit., 144.