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Ho incontrato Sandro Calvani il 18 febbraio 2023 a Milano. Eravamo insieme relatori a un convegno. Ho ascoltato la sua relazione sulla possibile riforma delle Nazioni Unite. Prendendo spunto da quel discorso, che ho trovato estremamente interessante, ho deciso di realizzare una intervista per i lettori de La Civiltà Cattolica.
Calvani ha al suo attivo una carriera di alto dirigente delle Nazioni Unite, e per i suoi incarichi ha lavorato e vissuto in 135 Paesi del mondo. In particolare, il suo impegno è stato legato all’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Tra i tanti incarichi ricevuti, ricordiamo quello di direttore regionale, per il Sud-est asiatico e il Pacifico, del programma anti-droga e anti-crimine dell’Onu, con sede a Bangkok, con la responsabilità su 31 Paesi della regione; e poi quello di direttore dello stesso programma in Colombia.
Nel 2007 fu nominato dal segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, direttore dell’United Nations Interregional Crime and Justice Research Institute. Da settembre 2010 a giugno 2013 è stato direttore esecutivo del Centro di eccellenza dell’Associazione delle nazioni del Sud-est asiatico (Asean) sugli Obiettivi di sviluppo del millennio. Ha scritto una trentina di libri sulle sue esperienze tra i più poveri. È docente di Diritti umani e Politiche dello sviluppo sostenibile in varie università asiatiche.

Siamo qui a parlare di Onu e della sua possibile riforma. Ma prima vorrei riepilogare con Lei alcune questioni di fondo. La prima: che cosa c’è all’origine delle Nazioni Unite?
80 anni fa, alla fine della Seconda guerra mondiale, le Nazioni Unite nacquero da una visione davvero condivisa dei governi e dei popoli di riforma delle relazioni internazionali, per renderle collaborative, inclusive e pacifiche. La prima «Dichiarazione delle Nazioni Unite» fu firmata a Washington il 1° gennaio 1943.
La «Dichiarazione sulla pace e la sicurezza», firmata a Mosca il 1° novembre 1943 dai leader di Cina, Regno Unito, Stati Uniti e Unione Sovietica riconobbe la necessità di istituire al più presto un’organizzazione internazionale generale, «basata sul principio dell’uguaglianza sovrana di tutti gli Stati amanti della pace, e aperta all’adesione di tutti gli Stati, grandi e piccoli, per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionali».
Al momento della creazione dell’Onu, durante la conferenza di San Francisco del 26 giugno 1945, il presidente statunitense Truman disse ai rappresentanti dei 51 Stati fondatori: «La carta delle Nazioni Unite che state firmando è una struttura solida sulla quale possiamo costruire un mondo migliore. La storia vi onorerà per questo». Fu in questi termini un po’ utopistici e un po’ realistici che gli Stati firmatari espressero la loro visione del ruolo di pacificazione di questa organizzazione di nuovo genere. Oggi i Paesi membri sono 193. Altre 44 nazioni che lottano per la loro indipendenza non sono Paesi membri dell’Onu.
Ci può spiegare quali sono le funzioni dell’Onu?
Secondo quanto disposto dallo Statuto, l’Onu svolge quattro funzioni: mantenere la pace e la sicurezza internazionali; sviluppare relazioni amichevoli fra le nazioni; cooperare nella risoluzione dei problemi internazionali e nella promozione del rispetto per i diritti umani; rappresentare un centro per l’armonizzazione delle diverse iniziative nazionali. Il mantenimento della pace è un obiettivo raggiunto solo in parte: numerosi conflitti sono stati fermati, troppi invece continuano a minacciare la sicurezza dell’umanità.
L’Onu agisce attraverso alcuni organi. Come funzionano?
L’Onu aveva in origine sei organi principali. Cinque di questi – l’Assemblea generale, il Consiglio di sicurezza, il Consiglio economico e sociale, il Consiglio di amministrazione fiduciaria e il Segretariato – si trovano presso la sede Onu al Palazzo di Vetro di New York. Il sesto – la Corte internazionale di giustizia – ha sede a L’Aia, in Olanda.
Durante i suoi 78 anni di lavoro multilaterale, a fianco alle Nazioni Unite sono nati circa 50 programmi e agenzie specializzate, come per esempio l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), l’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo), l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura (Unesco). Alcune di esse, come il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef) e l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), sono divenute molto grandi in termini di bilanci e di personale.
La Corte internazionale è un organo giudiziario, quindi indipendente dalla volontà dei governi; ha saputo prevenire numerosi conflitti ogni volta che gli Stati membri le hanno sottoposto le loro contese. Il Consiglio di sicurezza, che decide su quasi tutte le questioni relative alla pace e alla sicurezza, ha un carattere «oligarchico»: si compone di 10 Paesi membri, eletti a rotazione, e cinque Paesi membri permanenti – gli Stati vincitori della Seconda guerra mondiale: Cina, Francia, Regno Unito, Russia e Stati Uniti –, che hanno un diritto illimitato di veto. Nessuna proposta di riforma ha mai messo in seria discussione questa anomalia.
Di fronte alle sfide della crisi globale, che è politica, ambientale, economica, sociale ed etica, l’Onu, il principale sistema multilaterale di governabilità internazionale, sembra a volte inefficace e quasi inutile. Cosa c’è di vero, secondo Lei? Come stanno davvero le Nazioni Unite?
In oltre tre quarti di secolo, l’obiettivo di ridurre fortemente l’anarchia che regnava nel mondo prima della Seconda guerra mondiale su molte problematiche internazionali è stato raggiunto quasi esclusivamente su questioni importanti, ma limitate in termini tematici: per esempio, le regolamentazioni delle telecomunicazioni, della navigazione aerea, del riconoscimento dei passaporti, di alcuni aspetti del commercio internazionale, dei grandi programmi di aiuto a donne e bambini poveri e di soccorso ai rifugiati.
Al contrario, le grandi tematiche dei beni comuni globali, come la salute pubblica e quella dell’ambiente e del clima, l’applicazione universale dei diritti umani, il diritto all’acqua e al cibo, le migrazioni, e soprattutto il mantenimento della pace, hanno fatto qualche passo avanti solo quanto al consenso costruito e ratificato su quel che si dovrebbe fare, ma ben di rado applicato unanimemente nella pratica.
L’ignavia più grave dei governi, che sta causando milioni di vittime, è relativa al cambiamento climatico. Nel 2020, 14.900 scienziati da 158 Paesi hanno firmato un appello urgente per chiedere ai governi di prendere le iniziative necessarie alla sopravvivenza dell’umanità.
Che cosa ci dice a proposito del mantenimento della pace?
Rispetto al mantenimento della pace, dal 1945 a oggi diversi Stati membri, non solo le potenze militari, hanno infranto in tutto circa 285 volte i trattati di pace che avevano sottoscritto: hanno invaso, bombardato e ucciso milioni di persone, senza il previo avallo del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, senza alcuna considerazione delle ripetute risoluzioni e appelli del Consiglio stesso.
Gli osservatori superficiali concludono che le Nazioni Unite hanno fallito gli obiettivi principali; in realtà, sono stati i governi nazionali a non rispettare le regole del mantenimento della pace.
Ma se queste sono le condizioni, quali speranze ci sono che l’Onu possa prevenire o fermare i nuovi conflitti?
Tutto dipende quasi esclusivamente dai Paesi coinvolti nel conflitto. Se nessuno dei cinque Stati membri permanenti del Consiglio di sicurezza pone il veto, il Consiglio stesso – con decisione a maggioranza semplice – può inviare le sue forze armate multilaterali, chiamate «caschi blu», per tentare di fermare un conflitto.
È accaduto diverse volte, anche in caso di conflitti complessi; in alcuni casi, i caschi blu hanno costruito una pace duratura negli anni recenti: per esempio in Cambogia, Costa d’Avorio, Mozambico, Salvador, Liberia, Sierra Leone, Sudan e Timor Est.
Nel 2022, l’Assemblea generale ha deciso per la prima volta di riunirsi automaticamente entro 10 giorni per deliberazioni, ogni volta che durante un conflitto viene utilizzato il diritto di veto nel Consiglio di sicurezza. In questo modo l’Assemblea generale ha recuperato e promesso di usare il suo mandato di mantenimento della pace globale.
Rilevando che tutti gli Stati membri hanno attribuito al Consiglio la responsabilità primaria per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale e hanno convenuto che esso agisca per loro conto, l’Assemblea generale ha sottolineato che il potere di veto comporta la responsabilità di lavorare per raggiungere gli scopi e i princìpi della Carta delle Nazioni Unite.
Ai membri nel loro insieme dovrebbe essere data voce quando il Consiglio di sicurezza non è in grado di agire in conformità con le funzioni e i poteri di questa Assemblea, riflessi nella Carta, in particolare l’articolo 10. Esso precisa che l’Assemblea può discutere qualsiasi questione o argomento che rientri nell’ambito di applicazione della Carta o dei poteri e delle funzioni di qualsiasi organo previsto al suo interno, e può formulare raccomandazioni ai membri della Nazioni Unite o al Consiglio di sicurezza, o ad entrambi, su tali questioni o argomenti.
E nel caso dell’invasione dell’Ucraina, che cosa è accaduto?
Quando l’Assemblea generale, nel marzo 2022, condannò l’invasione e la tentata annessione di territori dell’Ucraina con 143 voti a favore e cinque contrari, la Russia non prestò attenzione. Un atteggiamento simile si era già verificato dopo altre invasioni ritenute illecite dal diritto internazionale. Anche quel voto è la prova che le Nazioni Unite potrebbero rappresentare una forte garanzia per la pace, se a decidere fosse sempre l’Assemblea generale, oppure la Corte internazionale, e non i cinque Paesi con il diritto di veto del Consiglio.
Nel 2002 è stata fondata una Corte penale internazionale, indipendente dalle Nazioni Unite ma collegata al Consiglio di sicurezza, per giudicare gravi crimini contro la pace, come il genocidio, i crimini contro l’umanità, i crimini di guerra e il crimine di aggressione. Stati Uniti, Cina e Russia non sono divenuti Stati membri. Fino a metà 2023 sono stati processati 31 casi.
Quanto è fondata la critica che viene rivolta alle Nazioni Unite, i cui bilanci costerebbero troppo rispetto ai risultati?
Certamente questa è una critica diffusa nell’opinione pubblica e perfino tra diversi governi che sanno bene quanto essa sia del tutto infondata. Nel 2023, il bilancio totale dell’Onu, approvato dai Paesi membri all’unanimità, è di 3,2 miliardi di dollari. Dunque parliamo di meno di un terzo del bilancio annuale del Dipartimento di polizia di New York (10,8 miliardi di dollari nel 2023).
Nel settore umanitario sarebbero necessari, nel 2023, 51,5 miliardi di dollari, ma la media di contributi ottenuti negli anni precedenti è stata inferiore alla metà. Per il mantenimento della pace sarebbero necessari 6,45 miliardi di dollari per finanziare le 10 missioni in corso, esclusa la nuova crisi in Ucraina, dove le Nazioni Unite sono presenti solo con azioni umanitarie.
Le «quattro grandi» missioni multidimensionali – Minusma (Mali), Unmiss (Sud Sudan), Minusca (Repubblica Centrafricana) e Monusco (Repubblica Democratica del Congo) – rappresentano quasi il 70% dello stanziamento. Il budget totale dell’Onu per il mantenimento della pace rappresenta poco più dello 0,3% della spesa militare globale annuale.
Si parla da molto tempo di riformare sia la Carta delle Nazioni Unite sia l’Organizzazione stessa. A che punto sono queste aspirazioni?
L’aspirazione a una riforma profonda del governo multilaterale dei beni comuni globali è vecchia quasi quanto le Nazioni Unite stesse. Già nel 1963, con la sua enciclica Pacem in terris, san Giovanni XXIII auspicò che l’Onu si adeguasse all’ordine di grandezza delle sfide planetarie, giudicando del tutto insufficiente l’assetto esistente allora, vent’anni dopo la sua creazione.
Nel 1986, Michail Gorbaciov e Rajiv Gandhi, a nome dell’Unione Sovietica e dell’India (insieme un quinto dell’umanità), chiesero, nella loro dichiarazione di Nuova Delhi, un totale rovesciamento della politica di dominio e di guerra e proposero 10 princìpi condivisi per costruire un mondo libero dalle armi nucleari e non violento, in cui la vita umana fosse considerata il valore supremo e ogni nazione avesse pari dignità e responsabilità nella custodia del creato.
In questo senso ritroviamo forte anche la voce dei successivi Pontefici…
Gli stessi auspici, uniti a un forte appello per una riforma delle Nazioni Unite, sono stati più volte ribaditi da san Giovanni Paolo II, il quale nel 2004 chiese una rifondazione dell’ordine internazionale, da Benedetto XVI con l’enciclica Caritas in veritate, e da Francesco nella Laudato si’ e nella Fratelli tutti.
Nonostante tante buone intenzioni, la volontà di riforma da parte dei Paesi membri mi pare risulti per ora molto espressa, ma poco applicata in modo proattivo a creare un vero consenso. È d’accordo?
La maggior parte del potere decisionale relativo alla pace e alla sicurezza del mondo è ancora in mano ai cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza, ai quali fu conferito nel 1945 il diritto di veto, probabilmente come misura transitoria.
La creazione di gruppi di collegamento e consultazione alternativi all’Onu, come il G7, il G20, il gruppo dei 77 e altri, non ha potuto supplire in alcun modo a quella fondamentale mancanza di democrazia al massimo vertice dell’Onu. Diversi gruppi di Paesi hanno avviato consultazioni per cercare un consenso sulle riforme da fare.
Gli Stati Uniti, il maggiore contribuente dell’Onu e la più importante economia al mondo, hanno ripetutamente provato a imporre le riforme volute dal loro governo, sospendendo il loro contributo obbligatorio o minacciando di lasciare l’Onu e le sue agenzie specializzate. Durante la recente pandemia, il presidente Trump ha addirittura proposto di lasciare l’Organizzazione mondiale della sanità e fondarne un’altra a guida americana. Inoltre, gli Stati Uniti sono il Paese che ha ratificato il minor numero di trattati internazionali, in particolare quelli relativi ai diritti umani.
Come disse Dag Hammarskjöld, segretario generale dell’Onu, nel 1961: «Le Nazioni Unite non sono state create per portare l’umanità al paradiso, ma per evitarle di cadere all’inferno».
I Paesi membri potrebbero dunque ripartire da un consenso unanime almeno sui punti essenziali della sopravvivenza dell’umanità…
Per questo, nel 2017, il segretario generale António Guterres ha proposto una riforma sistemica, della quale i Paesi membri continuano a discutere da sei anni. In particolare, alcune delle riforme proposte vanno molto in profondità e, se approvate, permetterebbero un grosso salto di qualità nel mantenimento della pace.
La riforma del Consiglio di sicurezza è la riforma più urgente per riprendere in mano la governance della pace. Un nodo importante da sciogliere è il testardo senso di superiorità dell’Occidente. Infatti, l’attuale composizione del Consiglio non riflette più le realtà geopolitiche globali. Il Gruppo Europa occidentale e altri (Western European and Other States Group, Weog) rappresenta ora tre dei cinque membri permanenti (Francia, Regno Unito e Stati Uniti). Ciò lascia un solo posto fisso per il Gruppo dell’Europa orientale (Russia), uno per il Gruppo Asia-Pacifico (Cina) e nessuno per l’Africa o l’America Latina.
La rotazione dei seggi nel Consiglio di sicurezza non ristabilisce adeguatamente l’equilibrio regionale. Anche con due dei 10 seggi a rotazione del Consiglio di sicurezza, la regione Asia-Pacifico è ancora massicciamente sottorappresentata. Essa rappresenta circa il 55% della popolazione mondiale e il 44% del Pil mondiale, ma ha solo il 20% (tre su 15) dei seggi nel Consiglio di sicurezza.
In seno al negoziato intergovernativo per la riforma, l’Italia svolge un ruolo importante come Focal Point del gruppo Uniting for Consensus, che è un gruppo significativo di Paesi, geograficamente trasversale, accomunati da alcuni convincimenti comuni.
Andrebbe riaffermata l’ineludibilità dell’interdipendenza dei popoli in termini di prosperità e sicurezza per poter raggiungere un consenso su qualche forma di governo multilaterale dell’umanità.
Cambiare paradigma analitico ed esplicativo offrirebbe strumenti cognitivi e politici adeguati a prevenire le guerre e costruire una pace positiva, come suggerito dal Parlamento europeo, che ha messo a punto una proposta articolata di riforma delle Nazioni Unite. Per difendere i più deboli, il sistema delle regole mondiali va prima rispettato senza eccezioni e poi modificato dove ritenuto inefficace.
In estrema sintesi, ogni riforma possibile dovrà mantenere probabilmente per altri decenni una continua interazione tra gli obiettivi prioritari di buon governo dei beni comuni globali e gli interessi nazionali dei Paesi ricchi e di quelli in via di sviluppo. Il modo in cui i Paesi membri hanno bloccato le riforme del multilateralismo e delle Nazioni Unite ha causato un effetto di stallo paralizzante e di circolo vizioso devastante. Ogni «no» a una riforma della governance della pace ha causato un altro «no» in un’altra area della governance dei beni comuni globali, che ha provocato le condizioni per nuove guerre.
Al di là di queste forme di ignavia nelle relazioni internazionali, si può ancora sperare di trovare un consenso per governare meglio i beni comuni globali?
Per quanto riguarda la prevenzione della guerra, come definì sinteticamente il sottotitolo della Pacem in terris, essa va davvero rifondata sulla verità, sulla giustizia, sulla solidarietà e sulla libertà, e non sugli interessi particolari dei Paesi meglio armati. In pratica ciò significa anche una nuova visione per l’insieme del sistema multilaterale di governo dei beni comuni globali, ispirata proprio da quei quattro princìpi.
Per questo sono profondamente convinto che la riforma più urgente ed efficace sarebbe quella di rendere il più indipendente possibile dai governi la gestione delle decisioni ratificate dall’Assemblea generale dell’Onu, creando un «Fondo autonomo per l’umanità», nel quale, dopo aver espresso un consenso, i governi membri non possano interferire; sarebbe un meccanismo di condivisione simile a quello adottato da sei Paesi nel 1951, all’inizio del Mercato comune europeo, con la creazione della Comunità economica del carbone e dell’acciaio.
Come potrebbe essere realizzato questo Fondo autonomo globale?
Per esempio, con una microtassa sulle transazioni di Borsa in tutto il mondo, o con una microtassa di cittadinanza umana, estensibile anche alle multinazionali. Il Pandemic Fund mondiale, creato nel 2022, va in questa direzione, con un finanziamento di almeno 15 miliardi di dollari l’anno.
L’economista americano Jeffrey Sachs ha proposto un’altra soluzione semplice dei problemi finanziari delle Nazioni Unite con un aumento appropriato dei finanziamenti: i Paesi ad alto reddito contribuiscano almeno per 40 dollari pro capite all’anno, i Paesi a reddito medio-alto ne diano otto, i Paesi a reddito medio-basso due, e i Paesi a basso reddito uno. Con questi contributi – che ammonterebbero a circa lo 0,1% del reddito medio pro capite dei Paesi membri – l’Onu otterrebbe circa 75 miliardi di dollari all’anno, con cui rafforzare la qualità e la portata di programmi vitali, in particolare quelli di pace e sviluppo.
Se invece la palla rimane sempre e solo in mano agli Stati membri, gli sforzi del multilateralismo a favore della libertà, della verità, della giustizia globale, della solidarietà e del rispetto per i diritti di tutti rimarranno frenati troppo spesso da condizioni invalidanti.
Quale sarebbe, a suo giudizio, il primo passo per rendere virtuoso il circuito dei poteri multilaterali?
Credo che sarebbe quello di affrontare le quattro principali lacune nella governance dei beni comuni globali. In pratica, i diversi governi, mostratisi prepotenti e poco collaborativi, dovrebbero cedere un po’ di sovranità sulla cura e la custodia dei beni comuni globali, dando maggiore fiducia e autonomia alle organizzazioni internazionali.
I beni comuni globali più importanti includono i sistemi finanziari, la salute, la pace e l’ambiente. Secondo gli studi ONU sul multilateralismo efficace, nel governare questi beni si sono manifestate quattro grandi sfide, che hanno causato la crisi sistemica nella quale l’umanità si trova oggi. Queste sfide possono essere descritte come lacune in termini di giurisdizione, partecipazione, incentivi e informazione veritiera.
In che senso parla di vuoto di giurisdizione?
La lacuna di giurisdizione si manifesta perché gli Stati non sono responsabili di una serie di esternalità che vanno oltre i loro confini territoriali. Sebbene esistano alcuni obblighi limitati – ad esempio, evitare di inquinare le fonti idriche condivise –, non esiste una legge generale che regoli gli effetti globali delle decisioni autonome degli Stati.
Di conseguenza, la maggior parte dei beni comuni globali non hanno regole mondiali vincolanti (ad esempio, il Trattato di Parigi), o non sono pienamente globali (ad esempio, gli Accordi di sicurezza collettiva della Nato) o sono applicati in modo selettivo e diseguale (ad esempio, il Trattato di non proliferazione nucleare).
Poi parlava di lacune di partecipazione e di incentivi…
Il divario di partecipazione deriva dal fatto che le relazioni internazionali rimangono dominate dagli Stati membri, nonostante il ruolo crescente degli attori non statali, come società civile e imprese, e il chiaro spostamento verso le multinazionali come attori influenti in tutto il mondo, che lasciano sempre meno spazio di decisione alla società civile.
Il divario di incentivi nella sfera internazionale e le relazioni altamente competitive tra gli Stati portano ad asimmetrie informative, a protezioni nazionalistiche e, in ultima analisi, a decisioni non ottimali per tutti. Per esempio, è chiaro che nel lungo periodo staremmo tutti meglio se passassimo all’energia pulita, ma i Paesi in via di sviluppo, in particolare, vedono un’ingiusta perdita a breve termine qualora vengano costretti ad abbandonare la forma di energia più economica, dopo che altri si sono sviluppati senza tali limitazioni; ciò porta alcuni Paesi a rivendicare una diversa responsabilità per la decarbonizzazione ai sensi del diritto internazionale.
Allo stesso modo, la distribuzione efficace di beni comuni globali è inibita dal problema del free riding: se tutti beneficiano della decarbonizzazione di alcune grandi economie, l’incentivo per gli altri a decarbonizzarsi sarà ridotto. Il problema del free riding è particolarmente acuto nelle questioni che richiedono un’accumulazione su larga scala da parte di molti attori, come il passaggio all’energia pulita, ma è anche prevalente nei settori della finanza, della salute e degli investimenti negli accordi di sicurezza globale.
Che cosa intende per carenza di informazione veritiera nella «governance» globale dei beni comuni?
Si tratta di un problema di incertezza. In un mondo di flussi informativi perfetti, il valore dei beni comuni globali sarebbe chiaro: tutti beneficerebbero di una coesistenza più pacifica nel lungo periodo e l’umanità starebbe quasi certamente meglio se il riscaldamento globale venisse limitato. Ma le nostre informazioni su questi benefici – e in particolare sulla catena causale tra le azioni che intraprendiamo ora e i miglioramenti a lungo termine – sono scarse e mal distribuite.
L’incertezza e la conoscenza incompleta sono le sabbie mobili che rendono difficile generare un’azione concertata per la governance dei beni comuni globali. Chi è al potere ha un forte incentivo a mantenere la confusione diffusa.
Sono noti alcuni princìpi di riforma del multilateralismo inerenti ai beni comuni globali che si potrebbero mettere in pratica? Lei che cosa propone?
Si potrebbe avviare la creazione di un Parlamento mondiale associato all’Assemblea dei governi delle Nazioni Unite, cui affidare la responsabilità della generazione di un consenso davvero condiviso dall’intera umanità, con l’obiettivo di arrivare a una «Costituzione dell’umanità» entro il 2045, centenario della Carta delle Nazioni Unite.
Infatti, data la loro definizione – globali invece che internazionali –, i beni comuni dovrebbero riguardare tutti gli esseri umani, prima degli Stati. Inoltre, non dovrebbero distinguere tra generazioni presenti e future: dovrebbero essere globali attraverso il tempo e lo spazio, tenendo conto dei benefici e dei rischi delle azioni odierne per le persone ovunque e in qualsiasi momento. Questo è il principio di universalità. Dato che tutti ne hanno diritto, tutti dovrebbero essere consultati e coinvolti: questo è il principio di inclusione.
L’universalità e l’inclusione sono legate al principio di equità dei beni comuni globali. Questo può essere descritto in termini di accesso: tutti hanno gli stessi diritti di accedere alla luce emanata da un faro, e tutte le persone beneficiano dell’eradicazione della polio. Ma può essere anche descritto in termini di diritti: tutte le persone hanno diritto all’aria respirabile, mentre i piccoli Stati insulari possono considerare l’innalzamento del livello del mare come una violazione del loro diritto all’esistenza.
In questo senso, la buona custodia e la gestione dei beni comuni globali richiedono un’equa distribuzione delle risorse e un’equa allocazione dei diritti, che in alcuni casi esige regolamentazioni precise, da tutti condivise e da tutti rispettate, un paradigma che solo un Parlamento mondiale potrebbe mettere in cantiere.
Questa visione mi pare vada contro il noto principio «e pluribus unum», che invece prefigurerebbe le Nazioni Unite come un governo globale…
Il mondo è cambiato rispetto a 80 anni fa e le nuove sfide non possono essere affrontate solo dai governi in un sistema «condominiale» troppo litigioso e inconcludente. È ormai chiaro per tutti che il diritto internazionale stesso è un bene pubblico globale, poco riconosciuto e molto abusato.
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Un esempio evidente è il cyberspazio. Tutti capiamo subito che è un bene di tutti, con potenzialità sconfinate, senza frontiere. Ma le diverse giurisdizioni nazionali lo regolano in modo diverso e, in assenza di una legge e di una giurisdizione globale, ogni abuso anche grave e a danno di milioni di persone diviene impunibile.
Uno dei ruoli potenziali più importanti per le Nazioni Unite riformate è dunque quello di contribuire a consolidare il consenso scientifico, politico e sociale in tutta l’umanità, perché ogni sfida che interessa ogni persona umana sia discussa e regolata dal diritto internazionale, prima e al di sopra di qualunque interesse nazionale.
Ex uno plures dovrebbe essere il nuovo principio trasformativo che fa capire come le Nazioni Unite non sono e forse non saranno mai un governo globale (E pluribus unum), ma piuttosto lo spazio dove ciascuno vede rispettati i propri diritti, anche perché si impegna a rispettare i diritti di tutti.
Se si andasse in questa direzione, quale potrebbe essere, a suo giudizio, una delle proposte di riforma fattibile?
Si potrebbe riorganizzare il Consiglio di amministrazione fiduciaria (Untc, sospeso nel 1994 dopo la fine delle colonie), in modo da affidare all’Onu la custodia e la governance dei beni comuni globali, a partire dall’acqua, gli oceani, l’aria pulita ecc., compresi i diritti delle generazioni future. Il nuovo Consiglio dei beni comuni globali dovrebbe dare spazio anche alle rappresentanze della società civile e delle imprese.
Pertanto, il ruolo delle Nazioni Unite riformate dovrebbe essere calibrato in base alla sua capacità di cercare di garantire una distribuzione universale, inclusiva ed equa dei beni comuni globali, creando incentivi che aiutino a distribuire sia i rischi sia le ricompense dell’azione collettiva, eventualmente lavorando per indennizzare quei leader disposti ad assumersi i rischi di un’azione tempestiva.
Una visione sistemica ed efficace della giustizia globale, dello sviluppo sostenibile, della pace e delle cause della guerra potrebbe richiedere una revisione del concetto del potere nazionale e internazionale in tutto il mondo.
Una condizione facilitatrice di questa trasformazione della collaborazione dei popoli è la reinvenzione di ogni potere politico come strumento generativo di cooperazione. I beni di cui l’umanità ha bisogno per la sua coesistenza pacifica ci impongono di non pensare al potere come a qualcosa che si esercita «sulle» persone e sulle risorse, il tipo di controllo egemonico sostenuto da pensatori come Hobbes e Weber.
Al contrario, potremmo aver bisogno di riconcepire il potere come «in» o «con» qualcosa o qualcuno, che nasce attraverso l’atto di cooperazione intorno ai beni comuni. Elinor Ostrom, la prima donna a ricevere il premio Nobel per le Scienze economiche nel 2009, ha dimostrato che le persone hanno una straordinaria capacità di creare istituzioni e regole condivise per una gestione equa delle risorse.
Questo concetto di «potere con», sostenuto e illustrato anche dai filosofi della politica, come Hannah Arendt e Jürgen Habermas, suggerisce che la cooperazione stessa – insita nel multilateralismo – è il bene comune più importante per costruire i fondamenti della pace duratura.
Questa visione è condivisa da un’importante maggioranza di governi e di persone informate nel mondo intero, ma fa ancora fatica a manifestarsi ed essere compresa dall’opinione pubblica e a trovare leader disposti a presentarla e farla capire ai popoli e alle nuove generazioni.
Le pare dunque impossibile dare soluzioni ai nuovi problemi planetari senza che esse si collochino nella prospettiva della comunità mondiale?
L’anarchia universale sul tema della pace e degli altri beni comuni globali non può durare più a lungo: ci vuole un cambio di paradigma della convivenza dei popoli che sarebbe possibile con gli strumenti offerti dalle Nazioni Unite riformate. Non esiste altra alternativa.
Come aveva previsto p. Ernesto Balducci, qualsiasi soluzione data ai nuovi problemi planetari che non si collochi nella prospettiva della comunità mondiale appare effimera e perniciosa. L’impossibilità di prefigurare le forme concrete della comunità mondiale non è una ragione sufficiente per lasciarsi invadere dal dubbio.
La storia della specie umana ci può insegnare qualcosa al riguardo?
La lezione che ci viene dalla storia della nostra specie è che, messa di fronte ai dilemmi estremi – e ormai il dilemma è tra vita e morte –, essa è in grado di rivelare insospettate risorse creative. La novità è affidata alle viscere della necessità. Che sui passaggi intermedi dalla sua nascita ci sia buio non deve far meraviglia. Come scrisse Ernst Bloch, citando un proverbio cinese, «ai piedi del faro non c’è luce».
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