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PIETÀ (Corea, 2012). Regista: KIM KI-DUK. Interpreti principali: Cho Min-soo, Lee Jung-Jin.
Kang-do (Lee Jung-Jin), trentenne dall’aspetto giovanile, abita in un quartiere della vecchia Seul, ora minacciato dalla speculazione edilizia. Casupole di lamiera, strade strette, serrande che, aperte fragorosamente, immettono in piccole officine tra frese, presse e depositi di ferraglie. Scapolo, senza legami familiari e senza affetti, Kang-do è protagonista del film Pietà di Kim Ki-duk, vincitore del Leone d’oro alla Mostra di Venezia 2012.
Kang-do vive facendo lo strozzino. Ha escogitato un metodo ingegnoso per estorcere denaro alla povera gente, per lo più a titolari di piccole imprese artigiane, che non hanno di che pagare i debiti contratti, ammontanti al 1.000 per cento della cifra ottenuta in prestito. Dopo averli fatti assicurare contro gli incidenti sul lavoro, provvede personalmente a renderli invalidi con l’uso dei loro stessi arnesi. Il suo compito, che il film descrive senza risparmiare al pubblico brividi di raccapriccio, consiste nello stritolare mani, amputare arti o costringere il malcapitato di turno a gettarsi da una certa altezza, non tale però da provocarne la morte, perché in caso di decesso l’assicurazione stenta a pagare.
Il film inizia con il suicidio di un giovane in sedia a rotelle. Una grossa catena, munita di gancio, che pende dal soffitto. La mano del giovane che se la fissa attorno al collo, poi lo schianto. Urlo disperato di una donna fuori campo. A queste immagini ag-ghiaccianti fanno seguito quelle del risveglio solitario di Kang-do nel suo appartamento da scapolo. Lui non è che l’ultimo anello di una catena che rende l’uomo schiavo del denaro. I suoi padroni non approvano del tutto il suo modo di procedere, ma lui sa che deve consegnare ad essi le somme richieste. Non avendo una famiglia propria, non riesce nemmeno a rendersi conto delle sofferenze tremende che infligge ai debitori e ai loro familiari.
Un giorno Kang-do si trova davanti una donna non più giovane, ma ancora bella: Mi-sun (Cho Min-soo). Tenta di allontanarla con tutti i modi, ma lei continua a guardarlo muta, adorante, senza reagire. Poi si confessa: lei è sua madre che, giovanissima, lo ha abbandonato appena nato e adesso vuole il suo perdono. Lui non le crede. La mette alla prova. Dolcissima, sorridente, materna, sottomessa, ubbidiente, servizievole in tutto e per tutto, la donna si insinua nella vita arida e gelida del crudele esattore, che non conosce né umanità né gioia, e gli fa scoprire a poco a poco la tenerezza, il brivido di una carezza. Kang-do ha trovato finalmente qualcuno che gli vuole bene. Cambia modo di comportarsi. Sembra regredire allo stato infantile. Si fa cantare perfino una ninna nanna…
Vinto da ciò che crede amore materno, Kang-do perde quella crudeltà che aveva fatto di lui l’uomo più temuto del quartiere. Ma, sul più bello, Mi-sun sparisce. Soltanto alla fine del film lo strozzino pentito verrà a sapere che quella donna non è sua madre, ma la madre di una delle sue vittime: il ragazzo in carrozzella che avevamo visto suicidarsi all’inizio del film. Ritenendo che la morte del colpevole non fosse una punizione adeguata per l’immenso dolore inflitto a suo figlio e a lei, Mi-sun ha escogitato una più sottile forma di vendetta. Ha finto di essere sua madre per suscitare in lui una nuova sconosciuta fragilità e poi abbandonarlo a una infelicità mai provata prima, che gli rende la vita insopportabile.
La forma paradossale, che rasenta i limiti dell’inverosimile, fa di questo film un apologo il cui senso è stato spiegato da Kim Ki-duk nella conferenza stampa seguita all’anteprima veneziana: «Nella società capitalista, il denaro mette alla prova le persone. La convinzione diffusa è che sia in grado di risolvere i problemi. In realtà, il denaro è all’origine della maggior parte delle situazioni aberranti che affliggono il mondo di oggi. Il denaro di per sé non è né buono né cattivo, ma l’uso che se ne fa nell’ambito dell’attuale sistema economico e finanziario va di pari passo con il dialogare della miseria sociale e morale».
A chi gli chiede una spiegazione sulla scelta del titolo, il regista risponde: «Il titolo del film mi è balenato nella mente ricordando l’emozione che ho provato davanti al gruppo scultoreo che si trova nella basilica di San Pietro in Vaticano. L’abbraccio di quella madre al figlio morto in croce mi è sembrato un segno di condivisione del dolore dell’intera umanità. Me lo sono portato dentro per tanti anni».