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Osama (Afghanistan – Giappone – Irlanda, 2003). Regista: SIDDIQ BARMAK. Interpreti principali: M. Golbahari, K. Nada, Z. Sahar, A. Herati.
Come Rossellini e De Sica nell’immediato dopoguerra non avevano difficoltà a raccontare con il cinema storie di attualità (bastava mettere la macchina da presa nella strada e la realtà era pronta a parlare di se stessa), così nella Kabul dei nostri giorni si direbbe che non siano necessari teatri di posa e scenografie posticce per fare un buon film. Lo si capisce fin dalle prime immagini di Osama, film realizzato dall’esordiente quarantunenne afghano Siddiq Barmak con il sostegno tecnico ed economico del regista iraniano Mohsen Makhmalbaf. Un ragazzino (Arif Herati) guarda dentro la macchina da presa tenuta in mano da qualcuno che non si vede anche se si sente la sua voce. Come se si trattasse di un turibolo, Espandi (questo il nome del ragazzino) agita una scatola di latta con dentro carboni accesi. Il fumo che ne esce, assicura, dà felicità e benessere a chi ne viene investito, come rende lieto lui il dollaro che gli porge la mano dell’ignoto reporter.
Il film prosegue snocciolando immagini che sembrano «rubate» alla realtà e in buona parte lo sono. Una massa di donne «senza volto» (sono coperte da capo a piedi con burqa dello stesso colore), che protestano perché costrette alla disoccupazione e alla fame, è caricata della milizia. Scene di panico provocate dal getto furioso degli idranti. Due donne — una bambina di dodici anni (Marina Golbahari) e sua madre (Zubaida Sahar) — cercano di raggiungere l’ospedale dove la madre, che è medico, lavora senza essere pagata. Siamo a Kabul prima della caduta del regime dei talebani. Gli «studenti di teologia» al potere, oltre a imporre pesanti restrizioni alla libertà personale, hanno messo al bando la musica, il cinema e la televisione. Bersaglio privilegiato della repressione sono le donne, alle quali non solo è proibito farsi sentire, ma è negato anche farsi vedere. Chiuse in casa, possono uscire soltanto se accompagnate da un uomo della famiglia, naturalmente coperte, come impone la tradizione islamica rigidamente applicata.
Se soltanto la punta di un piede fuoriesce dal burqa, ecco un severo richiamo e la minaccia di dure punizioni. Gabbie di rete metallica, montate su camioncini, sono pronte a trasportare in oscure prigioni le donne che trasgrediscono alle regole. Le due già incontrate per strada (madre e figlia) vivono con la nonna in un miserabile tugurio perduto nel dedalo di un quartiere fra strade polverose e muri scrostati. L’unico uomo di casa è morto nella guerra contro i russi. Le tre donne, prigioniere della condizione di inferiorità nella quale i talebani relegano il sesso debole, sono prive di qualsiasi risorsa. La nonna, per consolare la nipotina, le racconta favole nelle quali i confini del reale si aprono per consentire evasioni nell’immaginario. In questo modo l’impossibile diventa reale. Basta passare sotto l’arcobaleno e una ragazza si trasforma in ragazzo. Se poi non è soddisfatta della nuova condizione, potrà ritornare sui suoi passi e, passando sotto l’arcobaleno in senso inverso, sarà di nuovo quella che era prima. Dal mondo colorato delle favole scaturisce l’idea che, nelle intenzioni delle tre donne, dovrebbe trasformare la vita della piccola, che ha nome Maria, ma, d’ora in avanti, assumerà un nome maschile: Osama.
Le forbici delle nonna, che privano la bambina della capigliatura femminile, e l’abilità della madre, alle cui mani è affidato il compito di adattare i vestiti del padre morto, compiono la metamorfosi. Ora Maria, trasformata in Osama, può uscire di casa. Trova lavoro, come garzone, nella bottega di un lattaio già commilitone di suo padre. In questo modo potrà portare a casa la sera qualche provvista che assicura il sostentamento alle altre due. Un certo giorno però, i talebani decidono di rastrellare tutti i ragazzini della città per convogliarli nella scuola coranica adiacente alla moschea. La scuola assomiglia a un carcere minorile gestito da religiosi. È previsto che i giovani alunni, oltre a studiare i sacri testi, vengano istruiti nell’uso delle armi e compiano vere e proprie esercitazioni militari. Per Osama, finita anche lei nel «collegio», comincia la parte più complicata del suo travestimento. Nella vita comune con i coetanei maschi le è sempre più difficile dissimulare la sua natura di bambina, tanto più che la scuola (diretta da un anziano mullah) ha in programma, fra altre pratiche, abluzioni rituali che riguardano in particolare quella parte dell’organismo dove i maschi avvertono in maniera più acuta lo stimolo della tentazione. Con l’aiuto di Espandi (il ragazzino con l’incensiere, che conosce il suo segreto), Osama riesce a farla franca in più di un’occasione ma, sottoposta a una terrificante punizione perché, accusata di un fallo che non ha commesso (legata e calata all’interno di un pozzo), lo spavento le provoca le prime mestruazioni.
Ora non può più ingannare nessuno. Osama, tornata a essere Maria, viene gettata nel carcere femminile in attesa di una punizione che dovrà essere esemplare. Nel giorno delle esecuzioni capitali, il reporter (la cui presenza era stata percepita all’inizio del film) è fucilato come spia. Una donna, che ha trasgredito la legge coranica, viene lapidata. Ci si aspetta che a Osama-Maria venga riservata la stessa sorte, ma l’anziano mullah che dirige la scuola coranica la chiede come sposa. In un Paese dove i matrimoni sono combinati, essere promessa a un anziano è l’incubo di ogni ragazzina. L’harem del mullah, dove Osama-Maria viene condotta, è, ancora una volta, un’orrenda prigione. In stanze chiuse con pesanti lucchetti vivono altre donne, ormai sfiorite, delle quali la protagonista del film d’ora in avanti condividerà la sorte.