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Dallo schermo buio affiora a poco a poco l’immagine di una sbarra di ferro. La macchina da presa arretra, e ci accorgiamo di trovarci davanti a una lunga recinzione. È notte fonda, anche se le luci dell’alba non sono lontane. Un gruppo di giovani, apparentemente atleti perché indossano tute sportive, scavalca il recinto. Sembra una bravata, ma non è così. Una didascalia avverte che il film è ispirato a fatti realmente accaduti. Munich di Steven Spielberg, pur avendo le carte in regola per presentarsi come un prodotto spettacolare, non adotta la logica del cartone animato: tutti i buoni da una parte, tutti i cattivi dall’altra. Una certa complessità è presente fin dalle prime immagini. Monaco, 5 settembre 1972, ore 5 del mattino. Un commando di otto fedayn, appartenenti all’organizzazione denominata «Settembre nero», si introduce a mano armata negli alloggiamenti del Villaggio Olimpico che ospitano gli atleti della squadra israeliana. I guerriglieri uccidono subito due atleti e ne sequestrano altri nove avviando trattative per il rilascio. Chiedono la liberazione di oltre 200 prigionieri politici palestinesi, detenuti nelle carceri israeliane, e i mezzi per mettersi in salvo.
La logica della rappresaglia
Le televisioni di tutto il mondo, già collegate con Monaco per le Olimpiadi, trasmettono le immagini del sequestro, che si concluderà una ventina di ore dopo nell’aereoporto di Fürstenfeldbruck con la morte di tutti gli ostaggi e di cinque sequestratori. Si calcola che circa un miliardo di telespettatori abbiano visto in diretta le immagini del terrorista con il volto coperto da un passamontagna, che faceva capolino da una finestra, e quelle con il portavoce del gruppo, in sahariana e cappellino bianco, che confabulava concitatamente con i funzionari tedeschi… Si è trattato del primo attentato vissuto in mondovisione. C’è chi ritiene che la nascita del «villaggio globale» sia avvenuta in quel momento. I fatti di Monaco sono evocati all’inizio del film con un amalgama visivo e sonoro che mescola immagini di repertorio (il bianco e nero scarsamente definito della televisione di allora) e immagini ricostruite da Spielberg con lo stile iperrealista (insistenza su dettagli raccapriccianti) invalso nelle pellicole di argomento criminale a partire da Pulp Fiction (1994) di Quentin Tarantino.
Le immagini di repertorio rappresentano ciò che i telespettatori hanno visto con i loro occhi. Quelle ricostruite rappresentano ciò che hanno potuto immaginare. Alle immagini di repertorio e a quelle ricostruite, relative all’attentato, si alternano scene nelle quali si vedono coloro che, in Palestina e in Israele, stavano incollati davanti al televisore per seguire, minuto per minuto, le diverse fasi del sequestro. Punti di vista contrapposti. Quando gli ebrei si preoccupano, gli arabi esultano. L’altalena delle angosce e delle speranze ha, nei due campi limitrofi e avversi, movimenti simmetrici e contrari.
Altre immagini riguardano l’elaborazione del materiale audiovisivo destinato a diverse trasmissioni simultanee. La sala della regia allinea decine di monitor dove le immagini si moltiplicano senza fine. Nelle postazioni allestite per i cronisti si accavallano commenti in lingue diverse mentre sullo sfondo, come in un set cinematografico, agiscono sequestratori, sequestrati e militari che stanno preparando un contrattacco. Non mancano immagini che illustrano il «corto circuito» tra riprese televisive e azione in corso. Le telecamere spiano i movimenti delle «teste di cuoio» che si appostano attorno all’edificio dentro il quale sono asserragliati i sequestratori con gli ostaggi (davanti al televisore acceso), informando così i terroristi delle mosse compiute da coloro che vorrebbero coglierli di sorpresa.
Tra i tanti che seguono da casa le trasmissioni televisive dedicate ai fatti di Monaco c’è Avner (interpretato dall’attore australiano Eric Bana), giovane agente del Mossad, nato in Israele, allevato in un kibbutz, felicemente sposato con una connazionale al settimo mese di gravidanza. Avner è il protagonista del film, che si snoda per oltre due ore dopo il prologo dedicato all’attentato. Nel corso del racconto ci si accorge che le immagini ricostruite del massacro sono frutto dell’immaginazione di Avner, la cui vita sta per essere travolta dalle conseguenze di quella tragica vicenda.
Il film è ispirato al libro La vendetta (Rizzoli) scritto dal giornalista canadese George Jonas sulla base della testimonianza anonima di un ex agente del Mossad (lo stesso che si cela dietro il nome fittizio di Avner). Il copione è stato elaborato da Spielberg con l’aiuto di Eric Roth e Tony Kushner, due americani di origine ebraica come lui. Da Monaco l’attenzione si sposta su ciò che avvenne in seguito. Il governo israeliano, presieduto da Golda Meir, decise di scendere in campo contro i terroristi di «Settembre nero» adottando i loro stessi metodi di lotta.
Il Mossad ebbe l’incarico di mettere in piedi una vasta operazione, gestita da commando «coperti», il cui scopo consisteva nella eliminazione fisica di 11 capi di «Settembre nero», ritenuti responsabili dell’organizzazione dell’attentato. 11 «omicidi mirati» per pareggiare il conto con le 11 vittime di Monaco. All’indomani dell’attentato, dagli aeroporti militari di Israele erano partiti diversi raid che avevano bombardato campi profughi oltre i confini della Siria e del Libano provocando la morte di un numero elevato di palestinesi (almeno 10 o 15 per ognuno degli atleti uccisi). Ma le vittime anonime dei campi profughi non fanno notizia. Al clamore suscitato dall’attentato di Monaco bisognava rispondere con azioni altrettanto clamorose.
Il pensiero e l’azione
Il film narra le imprese del commando guidato da Avner. A lui si affiancano altri quattro compagni di lotta. Steve (Daniel Craig), un giovane sudafricano mai sfiorato dal benché minimo dubbio. Hans (Hanns Zieschler), un maturo antiquario tedesco, specializzato nella contraffazione di documenti. Carl (Ciran Hinds), un signore tranquillo che sembra un funzionario governativo e ha il compito di «ripulire» i luoghi degli attentati per far sparire ogni traccia di chi li ha compiuti. Robert (Matthieu Kassowitz), un fabbricante di giocattoli aggregato al gruppo come esperto di esplosivi. Su di lui si appunteranno le critiche degli altri perché gli ingegnosi meccanismi, da lui allestiti e azionati, non sempre funzionano a dovere.
Con un fondo spese operative pressoché illimitato depositato presso una banca svizzera («Ma non dimenticare di portarmi le ricevute», aveva detto ad Avner l’addetto contabile del Mossad), il commando organizza su larga scala i suoi interventi: Roma, Parigi, Cipro, Beirut, Atene, Londra… sono i luoghi degli attentati che il film illustra ricorrendo al noto procedimento della suspense, che sposta il baricentro della pellicola verso il thriller alla Hitchcook piuttosto che verso il documento ricostruito sulla base di una rigorosa indagine storica. A Roma viene pedinato Wael Zwaiter, un poeta palestinese dall’aspetto innocuo, freddato a colpi di pistola da Avner e da Robert mentre sta rincasando. I due killer esitano prima di sparare. È la prima volta che uccidono un uomo a sangue freddo. I successivi omicidi avverranno con esplosivi in un crescendo di effetti spettacolari. A Parigi l’esplosione è troppo debole. A Cipro è troppo forte. La preoccupazione iniziale di evitare di coinvolgere vittime innocenti non è rispettata a Beirut, dove l’attentato, che richiede l’intervento di un reparto mimetizzato dell’esercito israeliano, si conclude con un’autentica carneficina. Ad Atene viene coinvolto e ucciso un agente del Kgb. A Londra un gruppo di americani apparentemente ubriachi (probabili agenti della Cia) fanno fallire un attentato.
L’Europa appare come una vasta «terra di nessuno» attraversata da bande rivali che compiono vere e proprie azioni di guerra non dichiarata, ma combattuta senza esclusione di colpi. Alla vigilia dell’attentato compiuto ad Atene, Avner e i suoi uomini condividono per una notte, senza farsi riconoscere, lo stesso tetto con un commando dell’Olp. Chi li aiuta? Chi li ostacola? Oltre alle sigle più note dei servizi segreti internazionali (come Cia e Kgb), ci sono vere e proprie agenzie disposte a vendere informazioni al maggiore offerente. Avner entra in contatto con un gruppo di francesi, che obbediscono a un misterioso personaggio interpretato dall’attore Michael Lansdale, il quale dice: «Noi abitiamo in un mondo di segreti che si intersecano tra di loro. Viviamo e moriamo nei punti in cui questi segreti si incontrano…».
Come si è visto, non tutti i colpi riescono. Ci sono perdite tra gli uomini del commando. Il primo a sparire è Carl, adescato e ucciso da una ragazza olandese che abita in una casa galleggiante, la quale verrà eliminata a sua volta da Avner e dai suoi in un’azione compiuta «fuori dall’orario di servizio». Partiti come esecutori di condanne a morte decretate da inappellabili ordini superiori, gli uomini del commando, superate le prime esitazioni, sono diventati assassini per conto proprio. Anche Hans muore, vittima di un agguato. Robert dal canto suo, il più problematico tra i componenti del commando, salta in aria per l’esplosione di un ordigno che ha fabbricato con le sue mani. Quando Avner, dopo aver portato a compimento la missione che gli è stata affidata, rientra alla base, riceve i complimenti dei suoi superiori, che gli comunicano, in particolare, la soddisfazione del primo ministro, anche se, date le circostanze, non può aspettarsi di ricevere una medaglia. Lui però non è contento di quello che ha fatto.
Il film alterna scene di azione con momenti di riflessione. Si tratta di dialoghi nei quali i personaggi, entrando in contrasto tra loro, mettono a nudo la propria coscienza. Il cosceneggiatore Tony Kushner, che si è trovato per la prima volta a collaborare con Spielberg, dice di essere rimasto sorpreso nel vedere come il progetto del film si andava evolvendo nel corso della lavorazione. «Non avrei mai creduto — ha dichiarato — che una produzione gigantesca e costosa potesse essere gestita come un processo di ricerca. Credevo che ogni problema sarebbe stato risolto sulla carta, prima delle riprese. Invece Munich è stato fino all’ultimo momento un processo aperto. Quando ho accettato di lavorare a questo film, pensavo che si sarebbe trattato di un impegno di sei settimane. Invece abbiamo lavorato per un anno sullo script, e poi Steven mi ha voluto sul set. Scrivevamo ancora sull’aereoplano che ci portava in Europa, e perfino in sala di montaggio».
Una catena da spezzare
«Dimenticate la pace, per ora — dice Golda Meir (interpretata dall’attrice Lynn Cohen) a ministri e generali subito dopo l’attentato di Monaco —. Abbiamo leggi. Rappresentiamo la civiltà. In molti dicono che non possiamo permetterci di essere civili. Io mi sono sempre opposta a chi lo crede… Per ogni civiltà arriva il giorno in cui è necessario scendere a compromessi con i propri valori». Questo è il punto dal quale il discorso proposto dal film di Spielberg prende le mosse. È la filosofia del «male minore». La stessa che è stata adottata dal Governo degli Stati Uniti all’indomani dell’attentato alle Torri Gemelle. Il percorso che il film suggerisce alla mente dello spettatore è la confutazione di questo presupposto.
Avner si presenta all’inizio come un figlio fedele dello Stato d’Israele, desideroso di compiere il suo dovere, costi quello che costi, dalla A alla Z. Durante la preparazione e l’esecuzione delle azioni che gli sono state ordinate, come si è visto, perde progressivamente la sua iniziale «innocenza». Quando ai successi si aggiungono gli insuccessi, Avner comincia a porsi interrogativi inquietanti. A eccezione di Steve, che proclama imperturbabile: «Il solo sangue che mi interessa è quello degli ebrei», gli altri uomini del commando entrano in crisi uno dopo l’altro. «Avete idea di quante leggi abbiamo violato, comprese quelle dello Stato di Israele?», chiede Carl ai compagni in un momento di esasperazione. Avner non è insensibile né all’incrinarsi della solidità psicologica di Carl, né all’appannarsi della lucidità mentale di Hans. Le morti violente di entrambi pongono un sinistro suggello sulle loro ammissioni di insicurezza. Ancora più coinvolgente è la reazione di Robert, la cui coscienza si ribella di fronte all’efferattezza dei crimini ai quali si vede costretto a partecipare. «Tutto questo sangue ricadrà su di noi — balbetta il maldestro artificiere in uno dei momenti emotivamente più intensi del film —. Mi hanno insegnato che essere ebreo significa essere giusto. Se perdo questo, perdo la mia anima, che per me è tutto».
Al termine della missione, Avner si sente svuotato delle ragioni che lo avevano spinto ad accettarla. Nella notte di Atene quando, senza rivelare la propria identità, era riuscito a scambiare qualche parola con Alì, un giovane palestinese impegnato come lui in azioni di guerriglia, gli aveva chiesto se gli mancavano davvero gli ulivi dei suoi padri, se voleva dare in eredità ai suoi figli quel terreno arido, quelle capanne di pietra, che per lui sono niente: «Assolutamente sì. — aveva risposto l’altro —. Ci vorranno cento anni, ma vinceremo… Tu non sai cosa vuol dire non avere una patria… Noi vogliamo essere nazione. La patria è tutto». La madre di Avner, unica superstite di una famiglia di ebrei tedeschi sterminati dai nazisti, dice al figlio: «Quello che hai fatto, lo hai fatto non solo per noi, che siamo vivi, ma anche per tutti coloro che sono morti desiderando questo. Ce lo siamo dovuto prendere perché nessuno ce lo avrebbe mai dato: un posto dove essere ebreo tra ebrei senza essere sottomesso… A qualsiasi costo, a qualsiasi prezzo… Finalmente noi abbiamo un posto sulla terra».
Avner si accorge con sgomento di non essere d’accordo né con Alì né con la propria madre. La reciproca contrapposizione di ragioni inconciliabili non gli appartiene. L’esperienza gli ha insegnato che la causa per la quale ha combattuto non vale il sacrificio di nessuna vita, né della sua (che ha rischiato più volte di perdere), né di quella di nessun altro. Uscito dal Mossad prima dell’inizio della sua missione «segreta» (che il governo israeliano non ha mai riconosciuto), ora si rifiuta di rientrarci. Non vuole dare ai suoi superiori i nomi degli informatori che gli hanno consentito di fare quello che ha fatto. Si è trasferito a New York con la moglie e con la figlia, che nel frattempo è nata e ha cominciato a crescere. Ha l’impressione di essere pedinato. Fa sapere ai suoi ex superiori che d’ora in avanti vuole essere lasciato in pace. Per questo ha scelto la diaspora.
Al termine della sua avventura Avner si sente addosso come un peso, dal quale gli è difficile liberarsi. È un incubo che si ripropone alla sua mente e non lo lascia tranquillo nemmeno nei momenti di intimità con la moglie. Gli sembra di rivivere la fine atroce delle vittime di Monaco. La vicenda di quel sequestro, abbozzata con immagini ricostruite (cioè immaginarie) all’inizio del film, è proseguita con una serie di flash-back nei momenti nei quali, tra un’azione violenta e l’altra, Avner si trovava solo con se stesso. L’ultima di queste immagini interiori si presenta mentre il film sta per finire. Gli atleti della squadra olimpica israeliana sono addossati gli uni agli altri, con i polsi legati dietro la schiena, come vittime pronte per il sacrificio. Avner ha l’impressione di essere la dodicesima vittima di quella strage. Il suo sacrificio, tuttavia, non si è ancora consumato. Egli potrà sottrarsi a quel destino di morte soltanto se saprà spezzare la catena del sangue che chiede altro sangue. Per questo a Ephraim (Geoffrey Rush), il suo referente con il Mossad, che è venuto a incontrarlo sulle rive dell’Hudson per invitarlo a tornare in Israele, risponde definitivamente di no. Il film si conclude con una panoramica che va a scoprire lentamente l’immagine delle Torri Gemelle, ricostruite al computer, simbolo di un altro incubo di morte contro il quale, per sopravvivere, è necessario continuare a lottare.
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