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Durante il Sinodo straordinario sulla famiglia, che si è svolto dal 5 al 19 ottobre 2014, ero rimasto colpito, tra gli altri, dall’intervento del cardinal Schönborn, arcivescovo di Vienna. Avevamo discusso, dopo il suo intervento in aula, durante una cena da un amico comune. Allora mi aveva parlato della sua esperienza di figlio di una famiglia che ha vissuto il divorzio. La sua lucidità non veniva da una riflessione meramente intellettuale, ma era frutto di un’esperienza vissuta. Passeggiando sotto il colonnato di San Pietro, mi aveva parlato dell’oblio dei nonni e degli zii nei discorsi sinodali. La famiglia, mi disse, non è solo moglie, marito e figli: è una rete di relazioni ampia, fatta anche degli amici e non solamente dei parenti. Un eventuale divorzio si ripercuote su una trama ampia di relazioni, non soltanto su una vita di coppia. Ma è anche vero che quella trama può reggere all’urto della spaccatura e sostenere i più deboli, i figli ad esempio.
Non abbiamo interrotto quella conversazione. L’abbiamo proseguita durante due incontri successivi, dopo alcuni mesi, nella sede della Civiltà Cattolica. Una volta anche con il suo amico e confratello domenicano p. Jean Miguel Garrigues, che ho pure intervistato per la nostra rivista (1). E il colloquio, infine, è proseguito anche a Vienna, presso la Kardinal König Haus. L’intervista che segue è il frutto di questi incontri, che alla fine hanno preso la forma di un dialogo unitario. Ho chiesto al Cardinale una riflessione legata strettamente alla sua esperienza di pastore. Ed è questo afflato pastorale che dà corpo e respiro alle sue parole.
Eminenza, qual è stata, a suo avviso, l’intenzione dell’Assemblea straordinaria del Sinodo sulla famiglia? Si è parlato di gioia della famiglia e di sfide della famiglia.
Quando Francesco è divenuto Papa, era già stato fissato dal suo predecessore, Papa Benedetto, il tema per il Sinodo successivo: le questioni generali di antropologia cristiana e, soprattutto, le questioni bioetiche. Durante il suo primo incontro con il Consiglio del Sinodo, Papa Francesco ha subito osservato che sarebbe stato difficile affrontare tali questioni al di fuori di un inquadramento di fondo sulla famiglia e sul matrimonio e, di conseguenza, a poco a poco la tematica si è spostata, senza però trascurare le questioni antropologiche, ma ponendole in correlazione con questa antropologia originale che è l’insegnamento biblico sull’uomo e sulla donna, sulla loro unione, sulla loro vocazione e sul grande tema del matrimonio e della famiglia.
Ma perché tornare su un tema che san Giovanni Paolo II ha trattato in modo quasi esaustivo nel corso dei 27 anni del suo pontificato?
Penso che Papa Francesco abbia voluto innanzitutto incoraggiarci — e lo ha ripetuto più volte — a guardare la bellezza e l’importanza vitale del matrimonio e della famiglia con lo sguardo del Buon Pastore che si fa vicino a ognuno. Ha messo in moto questo synodos, questo cammino comune, in cui siamo tutti chiamati a osservare la situazione, non con uno sguardo dall’alto, a partire da idee astratte, ma con lo sguardo dei pastori che percepiscono la realtà di oggi in uno spirito evangelico. Questo sguardo sulla realtà familiare e matrimoniale non è, innanzitutto, uno sguardo critico che sottolinea ogni mancanza, ma uno sguardo benevolo, che vede quanta buona volontà e quanti sforzi esistono, pur in mezzo a molte sofferenze. In fondo, ci viene chiesto un atto di fede: avvicinarci, come Gesù, alla folla variegata senza avere paura di essere toccati.
Nella convocazione del Sinodo sulla famiglia da parte del Pontefice possiamo dunque leggere un desiderio di concretezza, di vicinanza…
Sì, il desiderio di guardare le persone concrete nelle gioie e nelle sofferenze, nelle tristezze e nelle angosce della loro vita quotidiana e portare loro la Buona Notizia, scoprendo che vivono il Vangelo in mezzo a molte pene, ma anche a tanta generosità. Bisogna staccarsi dai nostri libri per andare in mezzo alla folla e lasciarsi toccare dalla vita delle persone. Guardarle e conoscere le loro situazioni, più o meno instabili, a partire dal desiderio profondo inscritto nel cuore di ognuno. È il metodo ignaziano: cercare la presenza e l’agire di Dio nei più piccoli dettagli della vita quotidiana. Siamo ancora lontani dall’aver realizzato questo auspicio iniziale fatto da Papa Francesco. Non abbiamo ancora raggiunto questa dimensione nel discorso ecclesiastico e nel discorso del Sinodo. Parliamo ancora troppo con una lingua fatta di concetti vacui.
Secondo alcuni, invece, lo scopo dovrebbe essere eminentemente dottrinale; altri addirittura temono per la dottrina.
La sfida che ci lancia Papa Francesco è di credere che, dotati di questo coraggio che ci viene dalla semplice vicinanza, dalla realtà quotidiana della gente, noi non ci allontaniamo dalla dottrina. Non rischiamo di diluire la sua chiarezza camminando con le persone, perché noi stessi siamo chiamati a camminare nella fede. La dottrina non è, in primo luogo, una serie di enunciati astratti, ma la luce della parola di Dio dimostrata dalla testimonianza apostolica al cuore di una Chiesa e nel cuore dei credenti che camminano nel mondo di oggi. La chiarezza della luce della fede e del suo sviluppo dottrinale in ogni persona non è in contraddizione con il cammino che Dio compie con noi stessi, che siamo spesso lontani dal vivere in modo pieno il Vangelo.
Quali sono allora le sfide che il Sinodo ordinario dovrà affrontare?
Si possono individuare diversi punti nevralgici ai quali sarebbe dannoso non dare il giusto peso. Il primo che mi viene in mente è di prendere coscienza della dimensione storica e sociale del matrimonio come della famiglia. Troppo spesso noi teologi e vescovi, pastori e custodi della dottrina, dimentichiamo che la vita umana si svolge nelle condizioni poste da una società: condizioni psicologiche, sociali, economiche, politiche, in un quadro storico. Questo finora è mancato, nel Sinodo. E la cosa è sorprendente rispetto alle enormi evoluzioni che individuo nel corso dei settant’anni della mia stessa vita. Come si può dimenticare che nel corso della storia il matrimonio non è stato accessibile a tutti? Durante alcuni secoli, forse millenni, il matrimonio non era quello che la Bibbia ci dice dell’uomo e della donna. Per un grandissimo numero di persone il matrimonio era semplicemente impossibile, a causa delle condizioni sociali. Pensiamo solo agli schiavi. Pensiamo a tante professioni per le quali il matrimonio era sia inaccessibile economicamente, sia escluso ex professo. Nelle campagne, fino a tre generazioni fa, c’erano serve, contadine che non si sposavano perché non avevano la possibilità di pagare la dote. Il nostro beato austriaco che tanto amiamo, Franz Jägerstätter, martire del nazismo, beatificato da Benedetto XVI, era il figlio illegittimo di una serva che non avrebbe mai potuto sposarsi se un contadino non avesse avuto pietà di lei e non l’avesse presa in sposa adottando il ragazzo. Nei registri battesimali dell’Ottocento a Vienna, circa la metà dei bambini erano illegittimi, figli di tutti i servitori delle case borghesi che non si potevano sposare perché non ne avevano i mezzi. Pensiamo alla situazione, anche attuale, dei Paesi poveri. Mi ha lasciato un po’ scandalizzato il fatto che al Sinodo noi parliamo molto astrattamente di matrimonio. Pochi tra noi hanno parlato delle condizioni reali dei giovani che si vogliono sposare. Ci lamentiamo della realtà quasi universale delle unioni di fatto, di molti giovani e meno giovani che convivono senza sposarsi civilmente e ancora meno religiosamente; siamo qui per deplorare questo fenomeno, invece di chiederci: «Che cosa è mutato nelle condizioni di vita?».
Lei è un pastore. È l’arcivescovo di Vienna. Che cosa accade oggi in Austria?
In Austria i giovani che convivono — e sono la grande maggioranza — sono sfavoriti dal fisco, se si sposano. Inoltre la loro situazione lavorativa molto spesso è precaria, e difficilmente essi trovano un lavoro stabile e duraturo come accadeva alla mia generazione. Come vogliamo che possano costruire una casa, fondare una famiglia in queste condizioni? Ritroviamo una situazione sociale che era assai frequente nel secolo passato, in cui molti erano esclusi dal bene del matrimonio semplicemente per la loro situazione. Non dico che ciò che avviene sia un bene, ma dobbiamo avere uno sguardo attento e compassionevole sulla realtà. Si rischia facilmente di puntare il dito sull’edonismo e sull’individualismo della nostra società. È più impegnativo osservare tali realtà con attenzione.
Avverto che il suo discorso è segnato da una fiducia nella capacità di bene delle persone, nonostante tutto.
Dobbiamo testimoniare una profonda fiducia nell’uomo, figlio di Dio, amato da Dio, e una profonda fiducia nel matrimonio e nella famiglia, cellula vitale della società. Mi ha molto colpito sentire questa fibra positiva in Papa Francesco. Per esempio, quando durante il Sinodo ci ha ricordato: «Ma voi non parlate mai dei nonni!». Ed è vero: il nostro discorso spesso è talmente formale! Lui quante volte ha parlato della sua famosa nonna che ha tanto segnato la sua vita! Ci invita a guardare con amore e con una fiducia di fondo questa realtà della famiglia.
Mi perdoni il riferimento personale, ma la sua stessa esperienza è segnata dal divorzio dei suoi genitori…
Sì, provengo da una famiglia di genitori divorziati. Mio padre si è risposato. I miei nonni erano già divorziati. Perciò ho conosciuto molto presto la situazione del patchwork. Sono praticamente cresciuto in questa realtà, che è la realtà di vita di tante persone di oggi. Ma ho fatto anche esperienza della radicale bontà della famiglia. Nonostante tutte le crisi, tutte le ideologie che occorre denunciare e chiamare in modo chiaro per nome, malgrado tutto ciò, il matrimonio e la famiglia restano la cellula fondamentale della vita umana e della società.
Personalmente ho avvertito nel Sinodo la mancanza di due elementi: l’attenzione ai figli e la considerazione della famiglia come rete ampia di relazioni (che comprendono i nonni, i nipoti, gli zii…). Mi sembra che il Sinodo abbia avuto presente la famiglia mononucleare fatta da moglie, marito e figli, e abbia considerato le situazioni dal punto di vista dei coniugi. Non pensa che guardare dal punto di vista dei figli e considerare le famiglie con i legami che sono in grado di creare avrebbe permesso di valutare le cose in maniera differente, più completa?
Durante il Sinodo i nostri interventi erano quasi esclusivamente focalizzati sulla struttura uomo-donna-bambino. Ho ricordato — e altri lo hanno ripreso e infine è entrato nel documento finale del Sinodo — che quando due persone si sposano religiosamente o iniziano una vita di coppia, ci sono sempre due famiglie coinvolte. È il dato elementare, quotidiano, a volte segnato dalle difficoltà, di ogni matrimonio. La famiglia è la prima rete sociale nella società.
Forse il nostro sguardo sul matrimonio è talmente astratto che ci si dimentica che per secoli e millenni il matrimonio era prima di tutto l’alleanza tra due famiglie…
Al Sinodo se n’è parlato seriamente per la situazione in Africa, dove spesso il matrimonio tradizionale si fa ancora soprattutto tra le due famiglie. Ma in generale la nostra concezione del matrimonio di due persone isolate che formano una coppia è comunque molto astratta. Dietro l’incontro tra un ragazzo e una ragazza che sfocia nelle nozze esiste tutta una rete di relazioni, ci sono due famiglie coinvolte. La Chiesa deve avere una parola forte per sostenere la realtà di questa rete di famiglie, che costituisce il tessuto fondamentale dell’intera società.
Quale sguardo e quale atteggiamento tenere, a suo giudizio, verso le coppie che vivono una situazione irregolare?
All’ultimo Sinodo ho proposto una chiave di lettura che ha suscitato molte discussioni ed è stata ancora ricordata nella Relatio post disceptationem, ma che non è più presente nel documento finale, la Relatio Synodi. Era un’analogia con la chiave di lettura ecclesiologica data dalla Lumen gentium, la costituzione sulla Chiesa, nel suo articolo 8. La domanda in questione è: «Dove si trova la Chiesa di Cristo? Dov’è incarnata concretamente? Esiste veramente la Chiesa di Gesù Cristo, da lui voluta e fondata?». A questo il Concilio ha risposto con la famosa affermazione: «L’unica Chiesa di Gesù Cristo sussiste nella Chiesa cattolica», subsistit in Ecclesia catholica. Non è una pura e semplice identificazione, come se si dicesse che la Chiesa di Gesù Cristo è la Chiesa cattolica. Lo ha affermato il Concilio: «sussiste nella Chiesa cattolica», unita al Papa e ai vescovi legittimi. Il Concilio aggiunge questa frase, che è divenuta chiave: «Ancorché al di fuori del suo organismo si trovino parecchi elementi di santificazione e di verità che, appartenendo propriamente per dono di Dio alla Chiesa di Cristo, spingono verso l’unità cattolica». Le altre confessioni, le altre Chiese, le altre religioni non sono semplicemente il nulla. Il Vaticano II esclude un’ecclesiologia del tutto o niente. Il tutto si realizza nella Chiesa cattolica, ma ci sono elementi di verità e di santificazione anche nelle altre Chiese, e persino nelle altre religioni. Questi elementi sono elementi della Chiesa di Cristo, e per loro natura tendono verso l’unità cattolica e l’unità del genere umano, verso cui tende la Chiesa stessa, anticipazione, per così dire, del grande progetto di Dio che è un’unica famiglia di Dio, l’umanità. In questa chiave si giustifica questo approccio del Concilio, per il quale non si considera dapprima ciò che manca nelle altre Chiese, comunità cristiane o religioni, ma ciò che di positivo esiste. Si colgono i semina Verbi, come si è detto, i semi del Verbo, elementi di verità e di santificazione.
In che modo questa intuizione si può applicare, a suo avviso, alla famiglia? Pensa che ci siano elementi di santificazione e di verità, cioè elementi positivi, nelle forme imperfette di matrimoni e famiglie? In queste forme manca l’esplicita alleanza matrimoniale sacramentale. Ma questo pare non impedisca che ci siano anche elementi che sono quasi promesse di tale alleanza: la fedeltà, l’attenzione gli uni agli altri, la volontà di fare famiglia. Questo non è tutto, ma è già qualche cosa. È possibile riconoscere in esse «semi» della verità sulla famiglia, che poi i pastori possono aiutare a far crescere e maturare?
Ho semplicemente proposto di applicare questa chiave di lettura ecclesiologica alla realtà del sacramento del matrimonio. Poiché il matrimonio è una Chiesa in piccolo, l’ecclesiola, la famiglia come piccola Chiesa, mi sembra legittimo stabilire un’analogia e dire che il sacramento del matrimonio si realizza pienamente là dove giustamente c’è il sacramento tra un uomo e una donna che vivono nella fede ecc. Ma ciò non impedisce che, al di fuori di questa realizzazione piena del sacramento del matrimonio, ci siano elementi del matrimonio che sono segnali di attesa, elementi positivi.
Ad esempio, consideriamo il matrimonio civile…
Sì, noi lo consideriamo come qualche cosa di più di una semplice unione di fatto. Perché? È un semplice contratto civile che dal punto di vista strettamente ecclesiale non ha alcun significato. Ma riconosciamo che nel matrimonio civile esiste un maggiore impegno, dunque una maggiore alleanza, che in una semplice unione di fatto. I due si impegnano davanti alla società, agli uomini e a se stessi, in un’alleanza più esplicita, legalmente ancorata con sanzioni, obblighi, doveri, diritti… La Chiesa ritiene che sia un passo in più rispetto alla semplice convivenza. Esiste in questo caso una maggiore vicinanza al matrimonio sacramentale. Come una promessa, un segnale di attesa. Invece di dire tutto ciò che manca, ci si può anche avvicinare a tali realtà, notando ciò che di positivo esiste in questo amore che si stabilizza.
Per il Sinodo dunque sarà importante la qualità dello sguardo sulle situazioni che hanno delle mancanze oggettive.
Dovremmo guardare le numerose situazioni di convivenza non solo dal punto di vista di ciò che manca, ma anche dal punto di vista di ciò che è già promessa, che è già presente. Peraltro il Concilio aggiunge che, sebbene ci sia sempre reale santità nella Chiesa, tuttavia questa è fatta di peccatori e avanza lungo un cammino di conversione (LG 8). Essa ha sempre bisogno di purificazione. Un cattolico non può porsi su un gradino più alto rispetto agli altri. Ci sono santi in tutte le Chiese cristiane, e persino nelle altre religioni. Gesù ha detto due volte a dei pagani, a una donna e a un ufficiale romano: «Una fede così in Israele non l’ho trovata». Una vera fede, che Gesù ha trovato al di fuori del popolo eletto.
Se applichiamo questo al matrimonio, il divario non è tra coloro che vivono un matrimonio sacramentale — e sono, per così dire, in ordine — e tutto il resto dell’umanità, che vive a fatica realizzazioni imperfette di quello che dovrebbe essere il sacramento del matrimonio…
Coloro che hanno la grazia e la gioia di poter vivere il matrimonio sacramentale nella fede, nell’umiltà e nel perdono reciproco, nella fiducia in Dio che agisce quotidianamente nella nostra vita, sanno guardare e discernere in una coppia, in un’unione di fatto, in dei conviventi, gli elementi di vero eroismo, di vera carità, di vero dono reciproco. Anche se dobbiamo dire: «Non è ancora una piena realtà del sacramento». Ma chi siamo noi per giudicare e dire che non esistono in loro elementi di verità e di santificazione? La Chiesa è un popolo che Dio attira a sé e nel quale tutti sono chiamati. Il ruolo della Chiesa è di accompagnare ciascuno in una crescita, in un cammino. Come pastore sperimento questa gioia di essere in cammino, tra i credenti, ma anche tra molti non credenti.
Ci accorgiamo che, da un lato, è necessario ed è giusto avere dei criteri oggettivi, ne abbiamo bisogno, ma, d’altro lato, tali criteri non esauriscono tutta la realtà…
Faccio un esempio molto semplice che riguarda un uomo e una donna. Il loro primo matrimonio è stato civile, perché lui era già divorziato, ed essi si sono dunque sposati civilmente. Questo matrimonio è stato un fallimento e si sono separati. La donna ha un secondo matrimonio. In questo caso, il marito non era stato sposato religiosamente e lei era stata sposata solo civilmente. Hanno dunque potuto celebrare il matrimonio sacramentale. Oggettivamente è giustificabile, è corretto. Ma che cosa sarebbe successo se il primo marito della donna non fosse stato divorziato? Se fosse stato religioso il primo matrimonio, che è andato incontro al fallimento per diverse ragioni e ha portato infine a una seconda unione, questa sarebbe irregolare. Questo deve renderci docili all’ordine oggettivo, ma anche attenti alla complessità della vita. Ci sono casi in cui solo in una seconda, o anche in una terza unione, le persone scoprono davvero la fede. Conosco una persona che ha vissuto molto giovane un primo matrimonio religioso, apparentemente senza fede. Questo fu un fallimento, a cui sono seguiti un secondo e poi persino un terzo matrimonio civile. Solo allora, per la prima volta, questa persona ha scoperto la fede ed è diventata credente. Dunque, non si tratta di mettere da parte i criteri oggettivi, ma nell’accompagnamento devo stare accanto alla persona nel suo cammino.
Allora, che cosa fare in queste circostanze?
I criteri oggettivi ci dicono chiaramente che una certa persona ancora legata da un matrimonio sacramentale non potrà partecipare in modo pieno alla vita sacramentale della Chiesa. Soggettivamente essa vive questa situazione come una conversione, come una vera scoperta nella propria vita, al punto che si potrebbe dire, in qualche modo — in modo diverso, ma analogo al privilegio paolino —, che per il bene della fede si può fare un passo che va al di là di ciò che oggettivamente direbbe la regola. Penso che ci troviamo di fronte a un elemento che avrà molta importanza durante il prossimo Sinodo. Non nascondo, a questo proposito, di essere rimasto scioccato da come un modo di argomentare puramente formalista maneggi la scure dell’intrinsece malum (2).
Sta toccando un punto molto importante. Potrebbe approfondirlo? Qual è il problema legato a ciò che si definisce «intrinsece malum»?
In pratica si esclude ogni riferimento all’argomento di convenienza che, per San Tommaso, è sempre un modo di esprimere prudenza. Non è né utilitarismo, né un facile pragmatismo, ma un modo di esprimere un senso di giustezza, di convenienza, di armonia. Sulla questione del divorzio, questa figura argomentativa è stata sistematicamente esclusa dai nostri moralisti intransigenti. Se mal compreso, l’intrinsece malum sopprime la discussione sulle circostanze e sulle situazioni per definizione complesse della vita. Un atto umano non è mai semplice, e il rischio è di «incollare» in maniera posticcia la vera articolazione tra oggetto, circostanze e finalità, che invece andrebbero letti alla luce della libertà e dell’attrazione al bene. Si riduce l’atto libero all’atto fisico in modo tale che la limpidezza della logica sopprime ogni discussione morale e ogni circostanza. Il paradosso è che focalizzandosi sull’intrinsece malum si perde tutta la ricchezza, anzi direi quasi la bellezza di un’articolazione morale, che ne risulta inevitabilmente annichilita. Non solo si rende univoca l’analisi morale delle situazioni, ma si resta anche tagliati fuori da uno sguardo globale sulle conseguenze drammatiche dei divorzi: gli effetti economici, pedagogici, psicologici ecc. Questo è vero per tutto ciò che tocca i temi del matrimonio e della famiglia. L’ossessione dell’intrinsece malum ha talmente impoverito il dibattito che ci siamo privati di un largo ventaglio di argomentazioni in favore dell’unicità, dell’indissolubilità, dell’apertura alla vita, del fondamento umano della dottrina della Chiesa. Abbiamo perso il gusto di un discorso su queste realtà umane. Uno degli elementi cardine del Sinodo è la realtà della famiglia cristiana, non da un punto di vista esclusivo, ma inclusivo. La famiglia cristiana è una grazia, un dono di Dio. È una missione, e per sua natura — se vissuta in modo cristiano — è qualcosa da accogliere. Ricordo una proposta di pellegrinaggio per famiglie in cui gli organizzatori volevano invitare esclusivamente quelle che praticano il controllo naturale delle nascite. Durante un incontro della Conferenza episcopale abbiamo chiesto loro come facessero: «Selezionate solo quelli che praticano al 100%, al n %? Come fate?». Da queste espressioni un po’ caricaturali ci si rende conto che, se si vive la famiglia cristiana da quest’ottica, si diventa inevitabilmente settari. Un mondo a parte. Se si cercano sicurezze, non si è cristiani, ci si centra solo su se stessi!
Alcuni vogliono avere criteri oggettivi per poter permettere regolarmente alle persone che vivono un’unione irregolare di partecipare alla vita sacramentale della Chiesa. Alcuni padri sinodali invece hanno fatto riferimento alla necessità di un discernimento pastorale. Si è parlato anche di una prassi penitenziale in relazione alle coppie di divorziati risposati che chiedono l’accesso ai sacramenti…
Se c’è stato un matrimonio sacramentale valido, una seconda unione resta un’unione irregolare. Invece, esiste tutta la dimensione dell’accompagnamento spirituale e pastorale delle persone che camminano in una situazione di irregolarità, ove sarà necessario discernere fra il tutto e il niente. Non si può trasformare una situazione irregolare in una regolare, ma esistono anche cammini di guarigione, di approfondimento, cammini in cui la legge è vissuta passo dopo passo. Ci sono anche situazioni in cui il prete, l’accompagnatore, che conosce le persone nel foro interno, può arrivare a dire: «La vostra situazione è tale per cui, in coscienza, nella vostra e nella mia coscienza di pastore, vedo il vostro posto nella vita sacramentale della Chiesa».
Come evitare decisioni arbitrarie?
Il problema già esiste, perché diversi pastori compiono queste scelte alla leggera. Ma il laissez-faire non è mai stato un criterio per rifiutare un buon accompagnamento pastorale. Sarà sempre dovere del pastore trovare un cammino che corrisponda alla verità e alla vita delle persone che egli accompagna, senza poter forse spiegare a tutti perché essi assumano una decisione piuttosto che un’altra. La Chiesa è sacramento di salvezza. Ci sono molti percorsi e molte dimensioni da esplorare a favore della salus animarum.
Si tratta dunque di accoglienza e accompagnamento…
Papa Francesco ha detto a noi vescovi austriaci quello che ha detto anche a molti altri: «Accompagnate, accompagnate». Ho proposto alla nostra diocesi un cammino di accompagnamento delle persone che sono in situazioni matrimoniali irregolari, per uscire da questa problematica diffusa dai mass media e che è diventata una specie di test per il pontificato di Papa Francesco: «Sarà alla fine misericordioso verso coloro che vivono in situazioni irregolari?». Si aspettano soluzioni generali, mentre l’atteggiamento del Buon Pastore è innanzitutto quello di accompagnare le persone che vivono un divorzio e un nuovo matrimonio nelle loro situazioni personali. Il primo punto su cui voglio soffermarmi sono le ferite e le sofferenze. Innanzitutto bisogna osservare prima di giudicare. Ma soprattutto, quando si parla di misericordia, ricordo sempre che la prima misericordia da chiedere non è quella della Chiesa, è la misericordia verso i nostri stessi figli. Io formulo sempre queste prime domande: «Avete avuto un fallimento matrimoniale? Avete fatto pesare il carico di questo fallimento, il peso del vostro conflitto sulle spalle dei vostri figli? I vostri figli sono stati presi in ostaggio dal vostro conflitto? Perché, se voi dite che la Chiesa è senza misericordia verso le nuove unioni, bisogna prima chiedere che cosa sia della vostra misericordia verso i vostri figli. Molto spesso sono i figli a portare il peso del vostro conflitto e del vostro fallimento per tutta la loro vita».
E poi c’è la situazione del coniuge abbandonato, oltre a quella dei figli.
Si parla molto poco di queste persone così numerose, che restano sole dopo un divorzio, restano in disparte e soffrono per la solitudine dell’abbandono del loro congiunto. Nella Chiesa c’è un’attenzione speciale per queste persone? Si cerca di seguirle, di accompagnarle? Ma ci sono altre domande: i divorziati risposati hanno fatto uno sforzo sufficiente di riconciliazione con il coniuge che hanno lasciato per una nuova unione? O sono entrati nella nuova unione con tutto il peso dei loro rancori, forse anche del loro odio per il coniuge che li ha abbandonati? E infine, la questione più delicata cui nessuno può rispondere al loro posto: come si pone la vostra coscienza davanti a Dio? Avete promesso fedeltà reciproca per tutta la vita, avete vissuto un fallimento… Che cosa dice questo alla vostra coscienza? Non lo dico per spingervi verso un sentimento di colpa, ma la questione rimane. Ho promesso qualche cosa che non ho potuto mantenere. La fedeltà è un grande valore. Non ho potuto mantenere ciò che ho promesso, o noi non abbiamo potuto mantenerlo reciprocamente.
Queste domande però aprono un cammino di penitenza e di riconciliazione, altrimenti non avrebbero senso…
Tutto questo può e dovrebbe preparare a un cammino di umiltà e non a vedere la questione dell’accesso alla vita sacramentale della Chiesa unicamente sotto la prospettiva di un’esigenza, ma piuttosto come un invito a un cammino di conversione che può aprire nuove dimensioni di incontro con il Signore ricco di misericordia. Bisogna sempre vedere anche quello che c’è di positivo, persino nelle situazioni più difficili, nelle situazioni di miseria. Spesso, nelle famiglie patchwork si trovano esempi di generosità sorprendente. So di scandalizzare qualcuno dicendo questo… Ma si può sempre imparare qualche cosa dalle persone che oggettivamente vivono in situazioni irregolari. Papa Francesco vuole educarci a questo.
Può parlarmi di qualche sua esperienza pastorale? Ci sono situazioni particolari che le vengono in mente e che le sembrano significative?
Ho un ricordo indimenticabile dell’epoca in cui ero studente al Saulchoir, presso i domenicani a Parigi. Non ero ancora prete. Sotto il ponte della Senna che portava al convento di Évry viveva una coppia di clochard. Lei era stata una prostituta, lui non so che cosa avesse fatto nella vita. Certamente non erano sposati, né frequentavano la Chiesa, ma ogni volta che passavo di là, mi dicevo: «Mio Dio, si aiutano a vicenda a camminare in una vita tanto dura». E quando ho visto gesti di tenerezza tra loro, mi sono detto: «Mio Dio, è bello che questi due poveri si aiutino tra loro, che cosa grande!». Dio è presente in questa povertà, in questa tenerezza. Occorre uscire da questa prospettiva tanto limitata dell’accesso ai sacramenti per le situazioni irregolari. La domanda è: «Dov’è Dio nella loro vita? E in che modo io come pastore posso discernere la presenza di Dio nella loro vita? Ed essi come possono aiutarmi a discernere maggiormente l’opera di Dio in una vita?». Dobbiamo saper leggere la Parola di Dio in actu tra le righe della vita e non soltanto tra le righe degli incunaboli!
Per la misericordia di Dio esistono situazioni irrecuperabili al punto tale che la Chiesa possa solo escludere definitivamente l’accesso al sacramento della Riconciliazione e all’Eucaristia?
Certamente possono esistere situazioni di autoesclusione. Quando Gesù dice: «Ma voi non avete voluto». Davanti a questo, in un certo modo, Dio è disarmato, perché ci ha dato la libertà… E la Chiesa deve riconoscere e accettare la libertà di dire no. È difficile voler conciliare a tutti i costi situazioni di vita complesse con una piena partecipazione alla vita della Chiesa. Questo non impedirà mai né di sperare, né di pregare, e sarà sempre un invito ad affidare una tale situazione alla provvidenza di Dio, che può offrire continuamente strumenti di salvezza. La porta non è mai chiusa.
Tra le varie cose viene chiesto di rendere matrimonio un’unione tra persone dello stesso sesso. Come trovare le parole per un accompagnamento nel cammino di fede, realista ed evangelico, delle persone con orientamento omosessuale?
Si può e si deve rispettare la decisione di creare un’unione con una persona dello stesso sesso, di cercare gli strumenti nella legge civile per proteggere la propria convivenza e la propria situazione con leggi che assicurino questa protezione. Ma se ci viene chiesto, se si esige che la Chiesa dica che questo è un matrimonio, ebbene dobbiamo dire: non possumus. Non è una discriminazione delle persone: distinguere non vuol dire discriminare. Questo non impedisce assolutamente di avere un grande rispetto, un’amicizia, o una collaborazione con coppie che vivono questo genere di unione, e soprattutto di non disprezzarle. Nessuno è obbligato ad accettare questa dottrina, ma non si può pretendere che la Chiesa non la insegni.
Lei ha incontrato situazioni di persone omosessuali che l’hanno interrogata?
Sì, ad esempio, conosco una persona omosessuale che ha vissuto per anni una serie di esperienze, non con una persona in particolare o in una convivenza, ma esperienze frequenti con diverse persone. Ora ha trovato una relazione stabile. È un miglioramento, se non altro sul piano umano, il non passare più da un rapporto all’altro, ma stabilizzarsi in una relazione che non è basata solo sulla sessualità. Si condivide una vita, si condividono gioie e sofferenze, ci si aiuta a vicenda. Bisogna riconoscere che questa persona ha fatto un passo importante per il proprio bene e per il bene degli altri, anche se, certamente, non è una situazione che la Chiesa possa considerare regolare. Il giudizio sugli atti omosessuali come tali è necessario, ma la Chiesa non deve guardare prima nella camera da letto, ma nella sala da pranzo! Occorre accompagnare.
In definitiva, come porsi in maniera corretta, cioè evangelica, davanti a tutte queste sfide?
Papa Benedetto ha mostrato in modo magnifico nel suo insegnamento che la vita cristiana non è in prima battuta una morale, ma un’amicizia, un incontro, una persona. In questa amicizia noi impariamo come comportarci. Se diciamo che Gesù è il nostro maestro, vuol dire che impariamo da lui direttamente il cammino della vita cristiana. Non è un catalogo di dottrina astratta o uno zaino pieno di sassi pesanti che dobbiamo portare, ma è una relazione viva. Nella vita e nella pratica cristiana della sequela Christi questo cammino cristiano mostra la sua giustezza e i suoi frutti di gioia. Gesù ci ha promesso che su questo cammino «lo Spirito Santo v’insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (Gv 14,26). Tutta la dottrina della Chiesa acquista senso solo all’interno di una relazione viva con Gesù, di un’amicizia con lui e di una docilità rispetto alla guida dello Spirito Santo. Qui sta la forza dei gesti di Papa Francesco. Credo che viva davvero il carisma dei gesuiti e di sant’Ignazio, quello di essere disponibile dinanzi al movimento dello Spirito Santo. È anche la dottrina classica di san Tommaso sulla legge nuova, la legge di Cristo, che non è una legge esteriore, ma l’opera dello Spirito Santo nel cuore dell’uomo. Certamente, abbiamo anche bisogno dell’insegnamento esteriore, ma perché esso sia realtà viva bisogna passare attraverso il cuore. Quando osserviamo un matrimonio cristiano vissuto, percepiamo il significato del matrimonio; è vedendo madre Teresa in azione, nei suoi gesti, che comprendiamo che cosa vuol dire amare i poveri. La vita ci insegna la dottrina, più di quanto la dottrina non ci insegni la vita.
Il Sinodo ha conosciuto dibattiti e tensioni sulla conciliazione tra dottrina e misericordia, tra dottrina e pastorale. Come unire le due dimensioni?
Tocchiamo qui il cuore del metodo sinodale. La dottrina della Chiesa è la dottrina del Buon Pastore. In un atteggiamento di fede, non esiste un’opposizione fra «dottrinale» e «pastorale». La dottrina non è un’enunciazione astratta senza legame con «ciò che lo Spirito dice alle Chiese» (Ap 2,7). La pastorale non è una realizzazione degradata, perfino pragmatica, della dottrina. La dottrina è l’insegnamento del «Buon Pastore», che manifesta nella sua persona il vero cammino della vita, insegnamento dato da una Chiesa che camminando va incontro a tutti coloro che sono in attesa di una Buona Notizia, attesa talvolta custodita segretamente nel cuore. La pastorale è una dottrina della salvezza in actu, Parola di vita per il mondo del «Buon Maestro». Esiste una involuzione tra queste due dimensioni della parola di Dio, di cui la Chiesa è portatrice. La dottrina senza pastorale non è che un «cembalo che tintinna» (1 Cor 13,1). La pastorale senza la dottrina è solo «vista umana» (Mt 16,21). La dottrina è per prima cosa la Buona Notizia: «Dio ha tanto amato il mondo da dare suo Figlio, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna» (Gv 3,16). È l’annuncio della verità fondamentale della fede: Dio ha usato misericordia. E tutto ciò che la Chiesa insegna è questo messaggio, che si traduce in seguito nelle dottrine complementari, in una vera gerarchia di verità tanto dogmatiche quanto morali. Dobbiamo continuamente tornare al kerygma, a ciò che è essenziale e dà senso a tutto il nostro corpus dottrinale, in particolare all’insegnamento morale.
Occorre essere pastori…
Papa Francesco chiama ognuno di noi pastori a una vera conversione pastorale. Nel discorso finale del Sinodo, egli ha ben riassunto ciò che ha inteso quando ha detto che l’esperienza del Sinodo è un’esperienza di Chiesa, della Chiesa una, santa, cattolica, apostolica e composta da peccatori, bisognosi della Sua misericordia. È la Chiesa che non ha paura di mangiare e di bere con le prostitute e i pubblicani. Il Papa esprime perfettamente l’equilibrio che deve caratterizzare questa conversione pastorale. Al termine di questo suo discorso, tutti si sono spontaneamente alzati e c’è stato un applauso unanime e intenso. Tutti hanno percepito che era il Papa, Pietro, a parlare.
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Chiudiamo la nostra conversazione convinti entrambi che il Sinodo ordinario dedicato alla vocazione e alla missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo sarà una tappa ulteriore dentro un più ampio cammino che richiede la lucidità dello spirito, frutto dell’esperienza, e non solamente del concetto. «Si tratta di un cammino di esseri umani», mi dice il Cardinale. «Accanto alle consolazioni ci sono anche altri momenti di desolazione, di tensione e di tentazione. Noi tutti siamo chiamati a un discernimento spirituale».
1. A. Spadaro, «“Chiesa di puri” o “nassa composita”? Intervista a Jean-Miguel Garrigues O.P.», in Civ. Catt. 2015 II 493-510.
2. Per «atto intrinsecamente cattivo» (intrinsece malum) si intende quell’azione la cui connotazione morale è tale per cui in nessun caso potrà mai cambiare da negativa a positiva. Dunque si tratta di un atto considerato moralmente cattivo sempre, indipendentemente dalle ulteriori intenzioni di chi agisce e dalle circostanze.