
La medicina occidentale ha basato gran parte dei propri straordinari successi sulla trasposizione in campo clinico delle acquisizioni delle scienze empiriche e dei corrispondenti artefatti tecnologici. Pensiamo a strumenti diagnostici come la risonanza magnetica, basata sui più recenti risultati della fisica delle particelle elementari, o ai robot introdotti nella chirurgia e nella riabilitazione, che utilizzano sofisticati dispositivi di intelligenza artificiale.
Limite e finitezza: dal superamento all’occultamento
Da questo punto di vista, la biomedicina è solidale con l’impresa scientifica: decollata nella modernità in una continua rincorsa per oltrepassare i limiti della conoscenza e dilatare gli spazi di intervento sul corpo, ci ha permesso di sconfiggere malattie un tempo inguaribili, annunciando sempre nuovi successi. Si è così indotta la sensazione che il limite sia non solo superabile, ma anche occultabile e magari sopprimibile.
Non sorprende quindi che alla stessa sorte vada incontro pure quella radicale espressione del limite che è la morte. Sociologi e antropologi ci avvertono che nella nostra società la morte è rimossa e denegata. Viene bandita dai circuiti ordinari della vita sociale e relegata in contesti ospedalieri dove è intensivamente medicalizzata e gestita da professionisti specializzati; viene esclusa dalle conversazioni quotidiane; non trova modalità condivise di elaborazione, per cui il lutto diviene
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