La medicina occidentale ha basato gran parte dei propri straordinari successi sulla trasposizione in campo clinico delle acquisizioni delle scienze empiriche e dei corrispondenti artefatti tecnologici. Pensiamo a strumenti diagnostici come la risonanza magnetica, basata sui più recenti risultati della fisica delle particelle elementari, o ai robot introdotti nella chirurgia e nella riabilitazione, che utilizzano sofisticati dispositivi di intelligenza artificiale.
Limite e finitezza: dal superamento all’occultamento
Da questo punto di vista, la biomedicina è solidale con l’impresa scientifica: decollata nella modernità in una continua rincorsa per oltrepassare i limiti della conoscenza e dilatare gli spazi di intervento sul corpo, ci ha permesso di sconfiggere malattie un tempo inguaribili, annunciando sempre nuovi successi. Si è così indotta la sensazione che il limite sia non solo superabile, ma anche occultabile e magari sopprimibile.
Non sorprende quindi che alla stessa sorte vada incontro pure quella radicale espressione del limite che è la morte. Sociologi e antropologi ci avvertono che nella nostra società la morte è rimossa e denegata. Viene bandita dai circuiti ordinari della vita sociale e relegata in contesti ospedalieri dove è intensivamente medicalizzata e gestita da professionisti specializzati; viene esclusa dalle conversazioni quotidiane; non trova modalità condivise di elaborazione, per cui il lutto diviene una questione privata. Sono diversi modi di sottrarre la morte ai nostri occhi e di rimuoverla come evento che ci riguarda.
Certo la pandemia e il moltiplicarsi delle guerre, anche in regioni vicine a noi, hanno reso improvvisamente più visibile la morte. Ma la situazione non si è modificata. Gli organi della comunicazione e la fiction cinematografica, traducendone l’andamento in numeri statistici ed enfatizzandone i tratti spettacolari, la rendono anonima e distante.
Non riusciamo a elaborare socialmente e culturalmente quello che le diverse forme di morte collettiva – il diffondersi planetario del virus, l’atroce violenza distruttiva delle armi, le stragi provocate da calamità naturali – significano nella vita personale e comunitaria. La sua esibizione è tale da lasciare sempre lo spettatore a distanza, testimone di fatti che riguardano altri[1]; al massimo suscita emozioni, che però raramente trovano luoghi per un adeguato lavoro del lutto. E chi «non è pianto non è né vivente né morto, ma spettrale, ed erra nel limbo della coscienza collettiva»[2]. Appare così una sorta di tensione tra una morte che irrompe in modo insistente ed eccessivo, ma priva di risonanza interiore, e «un’esperienza di morte quasi invisibile, personale e profondamente toccante perché reale, che
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