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Cinquecento anni fa, il 31 ottobre 1517, iniziava la Riforma protestante. Secondo la storiografia tradizionale, a quella data, vigilia della festa di Ognissanti, Martin Lutero, giovane professore agostiniano del convento di Wittenberg, avrebbe affisso alla porta della chiesa del castello le 95 Tesi sulle indulgenze[1]. Il fatto è attestato da un solo documento, redatto da Melantone nel 1546, qualche mese dopo la morte del riformatore: «Lutero scrisse le Tesi sulle indulgenze e le affisse pubblicamente alla chiesa che è accanto al castello di Wittenberg, la vigilia della festa di Ognissanti, nell’anno 1517»[2].
La testimonianza di un personaggio quale Melantone, così vicino a Lutero e alle origini della Riforma, ha certamente un notevole valore. Occorre tuttavia tener presente che nel 1517 Melantone non era a Wittenberg, e quindi non poteva essere un testimone oculare. A questa data ha 17 anni ed è un giovane studente a Tubinga; è giunto nella Sassonia nel 1518, e quindi non ha una conoscenza diretta dei fatti precedentemente accaduti. Per di più egli scrive alcune inesattezze circa la predicazione delle indulgenze: per esempio, afferma che le indulgenze venivano predicate nella Sassonia Elettorale, quando invece è noto che il principe elettore, Federico il Saggio, le aveva proibite per impedire che il denaro contante uscisse fuori dai confini della Sassonia Elettorale e per di più andasse ai suoi avversari.
È lecito dunque domandarsi se l’affissione delle 95 Tesi sia un fatto storico oppure una leggenda. Una tale domanda non è secondaria, ma determinante per comprendere l’animo e lo spirito di Lutero; fa anche capire come il monaco di Wittenberg sia divenuto il «riformatore». Le Tesi non sono una protesta o una sfida all’autorità ecclesiastica, ma rivelano un problema di coscienza, posto da un docente di teologia, che chiede al proprio vescovo una chiarificazione, innanzitutto per se stesso e poi per il bene della Chiesa. Affiggerle in pubblico avrebbe messo in dubbio la sincerità di una persona che si pone onestamente e con responsabilità un problema pastorale importante e cerca aiuto per risolverlo.
Che valore ha allora la testimonianza di Melantone? Lo storico Heinrich Boehmer ha scritto: «La celebrata prefazione [di Melantone] è proprio solo una prefazione, cioè uno scritto steso velocemente sulla carta, senza alcun ausilio, che non possiede valore documentario e merita fede solo in quanto le sue affermazioni sono confermate da altri contemporanei»[3].
Il valore dell’affermazione di Melantone è stato messo in dubbio dallo storico Erwin Iserloh[4]. Egli ha fatto notare che si trattava di una testimonianza tardiva, posteriore di circa trent’anni al fatto e non confortata da nessun accenno precedente; ma, più ancora, che non proveniva da un testimone oculare. Lo storico anzi pone in evidenza le ragioni per cui l’affissione delle Tesi non poteva essere accaduta, almeno in quei termini. Il punto è che Lutero, esattamente a quella data, il 31 ottobre 1517, si era rivolto ai propri superiori ecclesiastici, comunicando loro le sue preoccupazioni pastorali circa lo scandalo delle indulgenze[5].
Che cosa è accaduto il 31 ottobre 1517?
Il 31 ottobre 1517, vigilia della solennità di Ognissanti, non è accaduto nulla. O meglio, nulla di visibile e di clamoroso. Lutero prende carta e penna, e scrive due lettere: la prima al suo vescovo, l’altra all’arcivescovo di Magonza. Il primo, Hieronymus Schulze, era l’ordinario di Lutero, perché Wittenberg si trovava nella sua giurisdizione; egli tuttavia non aveva alcuna diretta responsabilità per ciò che concerneva lo scandalo delle indulgenze. La lettera è andata perduta, anche se Lutero la menziona più volte. Il secondo, Alberto di Brandeburgo, arcivescovo di Magonza, di Magdeburgo, e amministratore di Halberstadt, era il responsabile della predicazione delle indulgenze in Germania e aveva incaricato alcuni predicatori domenicani di annunciare le lettere penitenziali. Quest’ultima corrispondenza ci è stata conservata dalla storia[6].
Nel 1545 Lutero ne custodiva ancora una copia con sé, quando, scrivendo la prefazione per il volume primo delle sue opere in latino, la fa stampare tra i documenti raccolti[7]. È un chiaro segno dell’importanza che quella lettera aveva per la comprensione del suo pensiero e della sua vita, e di quanto egli vi fosse affezionato per averla conservata presso di sé per quasi trent’anni.
Vale la pena di esaminarla per cogliere il senso di quanto Lutero sta per fare e le sue vere intenzioni: egli parla con franchezza, esprime la sua preoccupazione per ciò che sta accadendo nei dintorni di Wittenberg, descrive la foga delle persone che si precipitano fuori dei confini dell’elettorato per acquistare l’indulgenza per se stessi e per i propri cari. E soprattutto per cogliere il problema che più lo preoccupa: è falso ciò che i domenicani annunciano nella loro predicazione, ed essi ingannano le coscienze dei deboli.
Lutero dichiara francamente, ma senza toni di rottura, di non poter tacere di fronte a fatti così gravi. Lo addolorano profondamente il modo irresponsabile con cui vengono presentate al popolo le indulgenze e, soprattutto ― ecco il nodo che avrà sviluppi imprevisti ―, la falsa sicurezza che i predicatori intendono inculcare nelle coscienze dei fedeli in ordine alla salvezza. Si racconta alla gente, e lo si ribadisce come nota essenziale dell’indulgenza stessa, che quando ci si è procurata la lettera penitenziale, senza un ulteriore moto di conversione, si ottiene il perdono dei peccati, anche di quelli più gravi, e si è certi della propria salvezza. Si aggiunge pure che le anime dei defunti, a vantaggio delle quali si è cercata l’indulgenza, sono liberate subito dal purgatorio.
In una parola, l’indulgenza cancellerebbe qualsiasi colpa o pena divina. Con discrezione e con rispetto, Lutero fa osservare che al popolo cristiano si devono predicare il Vangelo, le opere di pietà e di carità, piuttosto che le indulgenze[8]; e che quel dovere così urgente, «prima e unica missione di ogni vescovo», viene invece trascurato per dar posto al «baccano delle indulgenze»[9]. Egli prega perciò l’arcivescovo di revocare l’Istruzione per i predicatori, che è stata redatta con il nome di lui, ma ― nota Lutero ― sicuramente a sua insaputa[10].
Le 95 Tesi sull’ indulgenza
Al termine della lettera c’è una sorpresa: affiorano inaspettatamente le Tesi sull’indulgenza. Lutero infatti suggerisce che, qualora non si cerchi rapidamente un rimedio, potrebbe accadere che qualcuno confuti pubblicamente i predicatori dell’indulgenza e dimostri l’infondatezza dell’Istruzione, che porta appunto il nome dell’arcivescovo. Perciò allega alla lettera un campionario di tali obiezioni, perché l’arcivescovo rifletta sui dubbi che in un teologo avvertito possono emergere dalla predicazione. Tale raccolta è costituita dalle famose Tesi, per le quali non possediamo altra data se non quella della lettera ad Alberto di Brandeburgo: 31 ottobre 1517. Esse si presentano dunque, in questa loro prima stesura, come spunti di riflessioni su cui Lutero si è fermato a lungo, animosamente, ma non come articoli di una professione di fede. Sono rivolte in via riservata all’autorità competente, e non gridate in pubblico con un gesto di protesta; intendono soprattutto proporre un confronto accademico, e non già concludere un dibattito intorno al quale, ancora nel marzo 1518, Lutero dimostra di non aver detto nemmeno a se stesso l’ultima parola.
Le 95 Tesi si collegano alla predicazione del domenicano J. Tetzel e all’Istruzione data dall’arcivescovo. Alcune Tesi sono ironiche, altre mordaci, e si iscrivono nel contesto locale in cui le indulgenze venivano proclamate.
Le prime e le ultime Tesi riguardano la vita come penitenza:
- «Il Signore e nostro maestro Gesù Cristo, dicendo “Fate penitenza”, ha voluto che tutta la vita dei fedeli fosse una penitenza».
- «Questa parola non può intendersi della penitenza sacramentale (cioè della confessione e della soddisfazione) che si compie per il ministero dei sacerdoti».
- «Né d’altra parte intende la sola penitenza interiore, che anzi la penitenza interiore è nulla se non produce esteriormente varie mortificazioni della carne».
- «Perciò la pena dura finché dura l’odio di sé (che è la vera penitenza interiore), cioè fino all’entrata nel regno dei cieli».
- «La sincerità della contrizione cerca e ama le pene, invece l’abbondanza delle indulgenze ne attenua il desiderio e fa odiare le pene».
- «Bisogna esortare i cristiani perché si sforzino di seguire il loro capo Cristo attraverso le pene e le mortificazioni».
- «E così confidino di entrare in cielo piuttosto attraverso molte tribolazioni (At 14,22) che per la sicurezza della pace».
Alcune Tesi vertono sui defunti e sul purgatorio:
- «I canoni penitenziali sono imposti solo ai vivi, e nulla si deve imporre ai defunti in virtù dei medesimi».
- «Agiscono male e con ignoranza quei sacerdoti che riservano ai moribondi pene canoniche in purgatorio».
- «Chissà se tutte le anime del purgatorio vogliono essere liberate, come capita nel racconto dei santi Severino e Pasquale?»[11].
Altre Tesi — piuttosto ironiche — si riferiscono al papa, alle indulgenze e al tesoro della Chiesa:
- «Se il Papa conoscesse le estorsioni dei predicatori di indulgenze, vorrebbe che la basilica di San Pietro andasse in cenere piuttosto che la si edificasse sulla pelle, la carne e le ossa delle sue pecore».
- «Il Papa, se fosse necessario, anche a costo di vendere la basilica di San Pietro, vorrebbe dare il proprio denaro a moltissimi di quelli ai quali i predicatori di indulgenze lo estorcono».
- «[I tesori della Chiesa] non sono costituiti dai meriti di Cristo e dei santi, perché questi, anche senza il Papa, operano sempre la grazia nell’uomo interiore».
- «Il vero tesoro della Chiesa è il santissimo Vangelo della gloria e della grazia di Dio».
- «I tesori del Vangelo sono reti con le quali in passato si pescavano gli uomini ricchi…».
- «I tesori delle indulgenze, invece, sono reti con cui ora si pescano le ricchezze degli uomini».
- «Ritenere che le indulgenze papali siano tanto potenti da poter assolvere un uomo, anche se questi avesse violato la Madre di Dio, è essere pazzi»[12].
Le Tesi sono legate alla prassi, alla teologia della penitenza e al sacramento della confessione, ma trattano anche del potere del papa e del tesoro dei meriti di Cristo e dei santi; non mancano gli aspetti finanziari legati alle lettere penitenziali. Sono centrate soprattutto sulla falsa sicurezza della salvezza che potrebbe dare una predicazione «strombazzata» delle indulgenze, mediante l’offerta in denaro e i riti esteriori: Dio salva tutti gratuitamente, perciò è insensato che la Chiesa lo faccia a pagamento con le indulgenze. Il cristiano deve piuttosto abbracciare la croce di Cristo, fare penitenza, aprire il cuore alla carità verso i poveri e porre la propria attenzione al «santissimo Vangelo della gloria e della grazia di Cristo» (Tesi 62).
Al termine della lettera, le Tesi forniscono, sì, un’esemplificazione, ma contengono pure una velata minaccia; tuttavia, anche se l’animo di Lutero è vibrante di indignazione, la minaccia si limita a indicare quali inattese reazioni possa suscitare in uno spirito fedele lo scandalo delle indulgenze. È chiaro che quella lettera non è il primo passo di un itinerario calcolato e nemmeno la prima mossa tattica di una rivolta: Lutero chiede solo una riflessione di fede, che si svolga a edificazione reciproca. Egli ne ha bisogno, perché lo scandalo lo ha profondamente ferito; ed è una riflessione necessaria, dato che il problema delle indulgenze deve essere chiarito nell’ambito di un dibattito accademico.
Le Tesi sono destinate alla riflessione accademica
Ecco la ragione per cui le Tesi sono state scritte in latino. Non erano destinate alla diffusione, meno che mai a una diffusione popolare: miravano a suscitare una conversazione, un approfondimento teologico tra persone a diverso titolo responsabili di quanto accadeva. Questo è il motivo per cui le Tesi forse non erano note nemmeno negli ambienti più vicini a Lutero, come tra i suoi interlocutori abituali a Wittenberg. Per Lutero, toccato nell’intimo dalla vergognosa predicazione dell’indulgenza, quelle Tesi rappresentano una possibile alternativa ― e una radicale alternativa ― su cui sta ancora riflettendo e su cui vuole essere aiutato a riflettere.
Lo chiede alla gerarchia ecclesiastica, con un gesto di comunione tipicamente cattolico, e non solo allo scopo di informare i superiori ecclesiastici delle sue intenzioni. Dice che lo ha pure chiesto ad alcuni interlocutori abituali, quelli che ha accanto a sé sul momento: una scelta un po’ casuale, una conversazione a minimo livello, che aiuti il silenzio interiore e non gli si sostituisca; non una cerchia di specialisti con cui cominciare a misurarsi e a confrontarsi. Non solo dunque la mancata risposta dell’autorità, ma anche l’imprevista diffusione delle Tesi hanno mandato in crisi il proposito di raccoglimento e di conversione di un credente che si riconosce Chiesa e che sente su di sé la responsabilità di un peccato della Chiesa.
Non vi fu alcuna pubblica affissione delle Tesi
Bisogna aggiungere tuttavia che la diffusione delle Tesi, se non fu provocata da Lutero, non fu da lui efficacemente contrastata: l’attenzione rivolta alla sua persona fugò via via i suoi propositi di raccoglimento interiore e di ripensamento. Può riuscire interessante il confronto della lettera all’arcivescovo Alberto di Brandeburgo con altre due del medesimo periodo, in cui Lutero rivela liberamente il suo animo.
Nella prima, verso la fine del 1517, indirizzata a Spalatino, segretario del principe elettore Federico il Saggio, egli scrive di non aver inviato le Tesi al principe, e nemmeno agli altri suoi consiglieri, perché era giusto che le ricevessero per primi coloro che vi erano direttamente coinvolti.
Nell’altra, rivolta al principe e datata l’anno seguente (novembre 1518), Lutero è costretto a scusarsi, dato che si era sparsa la voce che le Tesi sarebbero state scritte su richiesta dell’elettore stesso. Egli insiste nel dire che nessuno, nemmeno gli amici intimi, erano stati informati di quelle Tesi, ma solo l’arcivescovo Alberto e il vescovo Hieronymus. «Io ― concludeva Lutero ― sapevo molto bene di dover portare questa faccenda prima di tutto davanti ai vescovi, e non davanti alle autorità secolari». E Lutero sottolinea pure, con umiltà e riverenza, che lo aveva fatto loro presente per lettera «prima di rendere pubbliche le Tesi della disputa»[13].
Tutto questo vale a confermare che non vi fu alcuna pubblica affissione delle Tesi il 31 ottobre del 1517. Alcuni amici si lamentarono personalmente con Lutero per non essere stati avvisati delle Tesi, ed è significativa la risposta che questi diede a uno di loro nel marzo seguente: «Alla tua meraviglia perché io non abbia divulgato le Tesi a voi, rispondo: non era mia intenzione, né mio desiderio farle circolare, ma solo, in un primo tempo, di metterne discorso insieme con i pochi che abitano qui da me o vicino a me, di modo che, arrivando a un giudizio comune di condanna o di approvazione, si decidesse di non parlarne più o di darle alla luce.
«Ma ora che vengono stampate e diffuse ben al di là della mia speranza, mi pento di questa mia creatura, non già perché non mi interessi che la verità sia conosciuta da tutti (che era anzi la mia unica aspirazione), ma perché una maniera del genere [di Tesi per una disputa] non è adatta per istruire il popolo. Su alcuni punti infatti non sono sicuro io stesso: perciò, se avessi sperato un simile successo, alcune cose le avrei affermate in modo molto diverso e più esatto, o le avrei lasciate cadere»[14].
La lettera all’arcivescovo costituì il primo passo compiuto da Lutero quando prese coscienza che, con il loro fare ciarlatanesco, i predicatori delle indulgenze agivano non a titolo personale, ma in base a una precisa Istruzione, cioè su direttive ufficiali della Chiesa locale. Gli fu allora chiaro che sarebbe uscito dalle sue competenze, se avesse preso l’iniziativa di decidere o fare qualcosa in questo campo; perciò si rivolse direttamente alle autorità responsabili, informandole di quanto accadeva a Wittenberg, dove l’elettore Federico il Saggio aveva proibito una simile predicazione. Le lettere d’indulgenza tuttavia si potevano ugualmente acquistare con un semplice viaggio fuori del ducato, nelle città vicine.
Le vicende della lettera di Lutero all’arcivescovo Alberto di Brandeburgo
La lettera ad Alberto di Brandeburgo venne spedita alla residenza abituale dell’arcivescovo, a Moritzburg, presso Halle, a circa 70 km da Wittenberg. Ma l’arcivescovo in quel momento era assente e si trovava ad Aschaffenburg, vicino a Magonza, senza che Lutero ne avesse sentore. Da una nota della cancelleria sappiamo che la lettera era giunta a Calbe an der Saale, dove i segretari l’aprirono, la registrarono in data 17 novembre e la inoltrarono al destinatario. L’arcivescovo ricevette la lettera entro lo stesso mese di novembre, dal momento che il primo di dicembre richiese il parere dei teologi dell’università di Magonza a proposito delle Tesi di Lutero.
Subito dopo egli scrisse alla propria cancelleria di aver ricevuto la lettera «con le affermazioni di un insolente monaco di Wittenberg, che riguardavano il santo affare delle indulgenze (heylig negocium Indulgenciarum)»[15]. Aggiungeva di aver spedito la documentazione alla Curia Romana con una denuncia. Infine l’arcivescovo suggeriva di aprire un processus inhibitorius, in cui si citava Lutero e gli si intimava, sotto minaccia di pena, di astenersi in futuro da ogni attacco all’indulgenza con prediche, dibattiti e libri.
L’attesa di Lutero
Dopo essersi rivolto ai vescovi, Lutero attese per qualche tempo la risposta. Ma questa non venne, anche per i ritardi epistolari ora menzionati. Uno dei discorsi conviviali (Tischrede) di Lutero, piuttosto tardivo, testimonia che il vescovo Schulze di Brandeburgo, nella cui diocesi è Wittenberg, gli rispose in quella circostanza con l’intimazione di non insistere sulle indulgenze, poiché si toccavano le istituzioni della Chiesa[16]. Certo passò del tempo senza che si avviasse quel tentativo di riflessione comune con le autorità della Chiesa che era alle origini dello scambio epistolare. Allora Lutero cominciò a trattare dell’argomento con gli amici e a trasmettere un esemplare manoscritto delle Tesi a teologi di sua fiducia.
Trent’anni dopo dichiarerà: «Io allora, trattato con alterigia, mi decisi a rendere pubbliche le Tesi»[17]. Di tale comunicazione allargata è prova la lettera all’amico Johannes Lang, priore del convento agostiniano di Erfurt, a cui poco prima del 31 ottobre 1517 Lutero aveva comunicato le Tesi contro la teologia scolastica: Tesi ben diverse da quelle sulle indulgenze, poiché attaccavano frontalmente la teologia e la Chiesa del tempo[18]. Questa lettera, che contiene le 95 Tesi, è datata 11 novembre 1517, una dozzina di giorni dopo quella indirizzata ad Alberto di Brandeburgo: segno dell’impazienza di Lutero, il quale immagina che l’arcivescovo risponderà quasi a stretto giro di posta.
Anche per la lettera a Lang va rilevato il tono della corrispondenza: Lutero vuol sapere da un amico personale, che è anche teologo in una università come Erfurt, che cosa pensi delle Tesi. E chiede soprattutto che gli siano indicati gli errori, se ve ne sono, pregando Lang di interpretare questa sua richiesta come sincera e non come espressione di falsa umiltà (Lutero parla addirittura di «ipocrisia»).
La diffusione delle Tesi
Va anche detto che fino ad oggi non è stato possibile dimostrare l’esistenza di una stampa originale delle Tesi a Wittenberg, e che le tre edizioni a stampa più antiche, apparse a Norimberga, a Lipsia e a Basilea, derivano da esemplari manoscritti diversi. La diffusione delle Tesi avvenne dunque, inizialmente, attraverso corrispondenze epistolari e comunicazioni personali: comunque sempre in fogli manoscritti, copiati più volte e passati di mano in mano, da amico ad amico.
Non sappiamo con precisione quando iniziò la diffusione a stampa delle Tesi: non prima della seconda metà di dicembre di quell’anno, il 1517[19]. È certo però che esse si diffusero rapidamente in Germania, dove nel gennaio del 1518 erano conosciute quasi dappertutto[20]. Si sa pure che furono accolte con favore da alcuni futuri avversari di Lutero, quali il Cochläeus, l’Emser e il duca Giorgio di Sassonia.
Lutero rimase colpito da una diffusione che non aveva previsto, e diede segno di dispiacersene, anche se accettò di buon grado che qualcuno gli avesse forzato la mano. Saremmo così di fronte a un primo esempio documentabile di quella interazione tra le iniziative solitarie di un uomo di punta e i consensi più larghi e meno meditati che esse raccolgono. Protagonista dell’itinerario storico che ne risulta non è propriamente il primo o il secondo dei due termini, bensì il rapporto dialettico tra l’uno e l’altro, nella loro reciproca opposizione o complementarità.
Lutero si affretta dunque a pubblicare due scritti destinati al pubblico, assolutamente diversi, nella stesura, dalle Tesi iniziali. Ora non ha più esitazione di fronte al grande consenso popolare, né su questa o quella Tesi, e può accantonare la lingua latina, ma non la formulazione perentoria, epigrammatica, dei diversi punti, che è propria di un tesario. Per questi due scritti egli ha chiesto e atteso il placet del suo ordinario, il vescovo Hieronymus Schulz.
Il primo è il Sermone sull’indulgenza e sulla grazia, in tedesco, in cui Lutero condensò una catechesi a livello popolare; lo scritto apparve nell’aprile del 1518 e solo in quell’anno vide tredici edizioni[21]. Il secondo, le Resolutiones disputationum de indulgentiarum virtute[22], indirizzato a un pubblico più colto, uscì nell’agosto del 1518: vi si formulavano le ragioni teologiche delle Tesi e insieme si spiegavano, con due lettere aggiuntive — una al suo superiore diretto, lo Staupitz, l’altra a papa Leone X —, le motivazioni di quel suo agire e parlare.
Nella lettera di accompagnamento al Papa, Lutero manifesta la propria sorpresa per l’involontaria diffusione delle Tesi e se ne rammarica, poiché quelle Tesi erano state preparate in fretta per pochi privati, e non erano nemmeno appropriate a un tal genere di diffusione. Poiché ora non è più possibile ritirarle dalla circolazione, egli chiede che si accolga questo scritto di chiarificazione: a lui sta a cuore l’autorità della Chiesa. Anzi, Lutero professa di riconoscere nella voce del Papa la voce di Cristo che governa e parla nella Chiesa[23].
La lettera si conclude con una singolare «Protesta», in cui Lutero dichiara le sue intenzioni: «Attesto di non voler dire o affermare nulla se non ciò che è contenuto innanzitutto nella Sacra Scrittura, poi nei Padri della Chiesa [….], nel diritto ecclesiastico e nei decreti del Papa»[24]. E termina: «Spero con questa mia protesta di aver detto abbastanza chiaramente che io posso, sì, sbagliare, ma che non si potrà fare di me un eretico»[25].
Questa presa di posizione non fu soltanto una «magistrale mossa di scacchi», come ha scritto K. A. Meissinger, secondo la consuetudine di attribuire al Lutero cattolico in difficoltà, ma desideroso di comunione con la Chiesa, l’animo con cui egli, negli anni successivi, rinuncerà formalmente a quella comunione[26]. «Con la loro singolare mescolanza di schietta umiltà, di consapevolezza profetica di sé e di ardito animo da “confessore della fede”», le lettere allo Staupitz e al Papa «dimostrano come fosse realmente possibile legare alla Chiesa […] lo zelante monaco di Wittenberg, e di rendervelo fecondo»[27].
L’inizio della Riforma: 31 ottobre 1517
Le Tesi di Wittenberg quindi non esprimevano la sfida di un teologo alla Chiesa, ma il sincero desiderio di porre rimedio allo scandalo delle indulgenze e di giungere a un chiarimento qualificato su una questione di fede e di vita cristiana; indicavano in sostanza la necessità di una riforma. A quella data ― come Joseph Lortz ha più volte rilevato ― Lutero non si proponeva affatto una rottura nella Chiesa. La rottura poi avvenne, ma contro le sue intenzioni originarie. Vi concorsero invece l’entusiasmo che le Tesi raccolsero, da parte dei dotti prima e poi del popolo, per il convergere di tensioni ormai antiche; la difficoltà di Lutero a sottrarsi a quell’ondata di consensi; e la mancata risposta delle autorità della Chiesa alla richiesta di una seria riflessione di fede su quel punto controverso e di una profonda volontà di riforma.
Ecco anche la ragione per cui le Tesi di Wittenberg non possono essere state affisse, almeno in quella data, il 31 ottobre 1517. In ogni caso, dagli annali dell’Università, dove sono documentate le principali tesi discusse in quell’anno, non risulta alcuna affissione per le 95 Tesi, che costituivano invece un problema di coscienza e il desiderio sincero di un monaco, docente universitario, che cercava anche una chiarificazione personale. Bisogna aggiungere tuttavia che la diffusione delle Tesi, se non fu provocata da Lutero, non fu neppure da lui efficacemente contrastata: l’attenzione rivolta alla sua persona dissipò i suoi propositi di ricerca interiore e di riflessione accademica.
Tuttavia si può affermare che la Riforma iniziò effettivamente il 31 ottobre 1517. Il giorno natale della Riforma non è determinato tanto dall’affissione delle Tesi di Wittenberg, quanto dalle due lettere di Lutero al proprio vescovo e al responsabile della predicazione delle indulgenze. Con la preghiera di porre fine allo scandalo delle indulgenze, egli chiedeva con forza e con sollecitudine una «riforma» nella Chiesa.
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[1]. Le indulgenze a favore dei vivi e dei defunti furono concesse da Giulio II nel 1507 e da Leone X nel 1513, per la costruzione della Basilica di San Pietro. Nel Magdeburgo furono proclamate all’inizio del 1517 e si potevano «acquistare» con le lettere penitenziali. Nella Sassonia la predicazione delle indulgenze non era stata concessa, per non scoraggiare il pellegrinaggio alle reliquie della chiesa del castello di Wittenberg.
[2]. «Praefatio Melanthonis in “Tomum secundum omnium operum R. D. Martini Lutheri”», in Corpus Reformatorum 6, Halis Saxonum, C. A. Schwetschke, 1839, 161 s. All’origine del dibattito sull’affissione delle Tesi stanno gli studi di H. Volz, Martin Luthers Thesenanschlag und dessen Vorgeschichte, Weimar, Böhlau, 1959. Egli cerca di dimostrare che l’affissione delle Tesi è avvenuta non il 31 ottobre 1517, ma il giorno seguente, nella festa di Ognissanti.
[3]. H. Boehmer, Luthers Romfahrt (1510/11), Leipzig, Deichert, 1914, 8.
[4]. E. Iserloh, Lutero tra Riforma cattolica e protestante, Brescia, Queriniana, 1970 (orig.: Luther zwischen Reform und Reformation, 1966); cfr W. Uwe, Iserloh. Der Thesenanschlag fand nicht statt, ed. B. Hallensleben, Basel, F. Reinhardt, 2013. Iserloh si pone il problema se Lutero sia divenuto «riformatore» mediante una rottura con la Chiesa oppure per un sincero desiderio di riforma della Chiesa. Lo studioso è per la seconda alternativa, che ha la sua dimostrazione anche nella mancata affissione delle Tesi: non si tratta di un «dettaglio» insignificante, ma di un problema determinante, che scardina la leggenda dell’affissione come gesto di sfida alla Chiesa.
[5]. Cfr il testo completo della lettera in E. Iserloh, Lutero…, cit., 93-97.
[6]. La lettera si trova ancora oggi nell’archivio reale di Stoccolma: cfr D. Martin Luthers Werke. Kritische Gesamtausgabe (Weimarer Ausgabe), Weimar, H. Böhlau, 1883 e ss (= WA), Briefe 1, 108 s.
[7]. Cfr ivi, 1, 110-112.
[8] . Cfr E. Iserloh, Lutero…, cit., 95: «Nessun uomo è sicuro della propria salvezza. […] Anzi, l’Apostolo ci comanda di operare per la nostra salvezza in timore e tremore (cfr Fil 2,12). […] Le indulgenze non danno niente di buono alle anime per quanto riguarda la loro salvezza e santificazione. […] Inoltre le opere di pietà e di carità sono infinitamente migliori delle indulgenze».
[9] . «La prima e unica missione di ogni vescovo deve essere che il popolo conosca l’evangelo e l’amore di Cristo. Mai infatti il Cristo comandò di predicare le indulgenze, ma con grande insistenza comandò di predicare l’evangelo. Quanto grande è perciò l’errore e il pericolo per un vescovo se, taciuto l’evangelo, non permette tra il suo popolo se non il baccano delle indulgenze e si cura più di queste che dell’evangelo» (ivi, 95 s).
[10]. Ivi, 96.
[11]. Di questi santi non si sa molto. La tradizione popolare affermava che erano nel purgatorio ed erano così santi da volerci rimanere il più possibile per acquistare meriti per il paradiso (vi si allude in J. von Paltz, Celifodine).
[12]. M. Lutero, Le 95 Tesi, Pordenone, Studio Tesi, 1989, 7-15.
[13]. WA, Briefe, 1, 245; 361-364.
[14]. Ivi, 152, 6-15: lettera a Scheurl, del 5 marzo 1518.
[15]. Cfr Corpus Catholicorum 41, Münster, Aschendorff, 1988, 305.
[16]. WA, Tischrede 2, 479, 6-8. Il discorso conviviale è della primavera del 1532.
[17]. Vorrede zum 1. Bande der Gesamtausgabe seiner lat. Schriften, Wittenberg, 1545: WA 54, 180, 12-20. Anche nello scritto Wider Hans Worst del 1541 Lutero richiama la mancata risposta dell’arcivescovo (WA 51, 540, 19-21).
[18]. WA, Briefe 1, 103, 6-8: lettera a J. Lang, del 4 settembre 1517.
[19]. Così secondo lo studioso K. Honselmann, Urfassung und Drucke der Ablassthesen M. Luthers und ihre Veröffentlichung, Paderborn, Schöningh, 1966, 17-29.
[20]. Ivi, 120.
[21]. Eynn Sermon von dem Ablass und Gnade, WA 1,239-246.
[22]. WA 1, 522-628.
[23]. E. Iserloh, Lutero…, cit., 160. Iserloh rileva anche attraverso le parole di Lutero come egli divenne «riformatore senza volerlo»: Nunc, quid faciam? Revocare non possum et miram mihi invidiam ex ea invulgatione video conflari: invitus venio in publicum periculosissimumque ac varium hominum iudicium, praesertim ego indoctus, stupidus ingenio, vacuus eruditione (Lettera di presentazione delle Resolutiones a Leone X: WA 1, 529, 3-6).
[24]. Primum protestor, me prorsus nihil dicere aut tenere velle, nisi quod in et ex Sacris literis primo, deinde Ecclesiasticis patribus ab Ecclesia Romana receptis, hucusque servatis et ex Canonibus ac decretalibus Pontificiis habetur et haberi potest (WA 1, 529, 33-530, 1).
[25]. Hac mea protestatione credo satis manifestum fieri, quod errare quidem potero, sed haereticus non ero (WA 1, 530, 10 s).
[26]. K. A. Meissinger, Der katholische Luther, München, Lehnen, 1952, 162.
[27]. E. Iserloh, «Martin Lutero e gli esordi della Riforma», in H. Jedin (ed.), Storia della Chiesa. VI, Riforma e Controriforma, Milano, Jaca Book, 1975, 61; Id., Lutero…, cit., 171.