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Morì ad appena 34 anni, il 9 gennaio 1923, di tubercolosi. Katherine Mansfield ha lasciato alcune raccolte di racconti, un Diario, un folto epistolario [1] e varie poesie. Poco ma sufficiente per assicurarle un ragguardevole posto nella letteratura inglese, accanto a Virginia Woolf e ad altri scrittori del primo Novecento. Ciò che contraddistingue i suoi racconti è l’ars poetica nel contempo realistica e visionaria, la capacità di rappresentare la vita cogliendola nei dettagli, il senso di pietas per la povera gente. E ciò in scene e quadretti vivamente descritti, in una prosa scarna e precisa, aliena da ogni enfasi e da sbavature e ricercatezze. La Mansfield «è un’artista intensamente visualizzante ed essenzialmente impressionista, che esprime il carattere del personaggio attraverso l’uso simbolico di oggetti, la descrizione dettagliata dell’ambiente e le evocazioni poetiche dello stato d’animo; gli episodi frammentari e collegati in modo casuale convergono obliquamente al tema, suggerendolo piuttosto che definendolo» [2].
La sua opera rivela e riecheggia la sua vita, il suo sentire, il suo ambiente. Per comprendere il suo percorso esistenziale, così denso d’irrequietezza, di drammaticità e di segreti, è indispensabile una lettura attenta del suo Diario e soprattutto delle sue lettere. Sono il romanzo della sua vita, raccontato in pagine di una sincerità totale, sempre tese a cercare la verità su noi stessi e su quanto ci circonda. Non è frequente trovarsi dinanzi a documenti di vita e di ricerca spirituale come questi. Inquietano e lasciano pensosi, conducono sui sentieri più impervi ma poi suggeriscono strade maestre. In una lettera del 26 dicembre 1922 scriveva: «La domanda è sempre la stessa: Chi sono io?». Chi è Katherine Mansfield?
«Chi sono io?»
Era nata presso Wellington, in Nuova Zelanda, il 14 ottobre 1888, in una famiglia benestante di origine inglese. Inquieta, ribelle, insofferente del provincialismo di quella rozza colonia di pionieri, dove la ricerca della ricchezza materiale trascurava o rifiutava la cultura e le esigenze dell’anima[3]. Impossibile per lei vivere nella terra natale; a 13 anni ottiene di recarsi a Londra per seguire i corsi presso il Queen College. Tornerà nella Nuova Zelanda una sola volta, nel 1906, per ripartirne definitivamente dopo due anni. Anticonformista, emancipata e raffinata, a Londra scelse come maestro di vita Oscar Wilde e proclamò la libertà sessuale e intellettuale dell’artista. Nel Journal ne trascrisse i canoni fondamentali: «Il solo modo di liberarsi dalla tentazione è abbandonarvisi. – Siate sempre tesi alla ricerca di nuove sensazioni… Non abbiate paura di nulla. – Ogni cosa spingetela lontano quanto essa può andare. – Amare pazzamente forse non è saggio, ma se doveste amare pazzamente, questo è molto più saggio che non amare affatto»[4].
La scuola di Oscar Wilde e l’ambiente londinese cancelleranno dal suo spirito quanto aveva appreso in famiglia, ritenuto falso e frutto d’ignoranza. Anche la flebile fiammella di fede cristiana si andrà del tutto spegnendo. Scriverà più tardi: «È strano. Stamattina avevo bisogno di dire: “Dio vi protegga” o “Il cielo ci guardi”. Poi ho pensato a “Gli Dei” ma sono statue di marmo coi nasi rotti. Non vi è Dio né Cielo né aiuto di qualche genere»[5]. Abbandonata a se stessa, visse anni di dissolutezza sfrenata. Ebbe varie avventure sentimentali, sposò il musicista George Bowden per lasciarlo il giorno successivo al matrimonio, in un parto prematuro perse il bambino e attraversò una fase di tossicodipendenza. «Nonostante la paura che le ispiravano le sue passioni incontrollabili, Katherine credeva di dover fare “l’esperienza” della vita prima di poterne scrivere»[6]. Non appena esauriva un’esperienza, se la gettava alle spalle e ne rincorreva un’altra, sempre con intensità, impaziente di assaporare tutti i sapori, godere tutti i piaceri, soffrire tutti i dolori, conoscere il gran teatro del mondo. La violenza con cui amava, sentiva e viveva le faceva credere «di non appartenere a questa terra — è troppo piccola per contenere tanto»[7].
Era una donna affascinante: capelli corti, grandi occhi profondi, viso pallido che sembrava una maschera tranquilla; nella conversazione si dimostrava intellettualmente vivace, con un certo tocco di gaiezza e con venature di arguzia e d’ironia. Alcuni osservavano che «la sua lingua era come un coltello: “poteva tagliare con essa il cuore di un uomo”; e Bertrand Russell [che la conobbe, restando impressionato dalla sua intelligenza e affascinato dalla sua personalità] notò che, parlando della gente, “era piena di un’allarmante penetrazione” nello scoprire tutto quello che uno non desidera conoscere di sé, i lati cattivi e infidi del proprio carattere. Soltanto D. H. Lawrence, quando scrisse Women in Love e la raffigurò nel personaggio di Gudrun, comprese il suo lato di Medusa: la sua furia, la sua tenebra, la sua violenza»[8].
Pubblicò il suo primo volume di racconti Una pensione tedesca (1911), scritto a 19 anni, in Baviera, dove si era rifugiata, dopo un aborto procurato, malata, economicamente mal messa, sconcertata dal suo disordine morale. Racconti, bozzetti e ritratti amari, cinici, percorsi da astio per un mondo a lei ostile e per la rozzezza dei tedeschi. In seguito ripudiò il volume sia per il contenuto sia perché letterariamente scadente. Rientrata in Gran Bretagna, la sua notorietà di scrittrice si andò notevolmente affermando, ma la sua vita continuò a svolgersi nel disordine e nell’irrequietezza. Particolarmente traumatico fu per lei l’aborto che le precluse la maternità ardentemente desiderata.
«Monte Carlo è un vero inferno»
Che cosa cercava questa inquieta e brillante bohémienne? Chi o che cosa guidava la sua vita? Ebbe il coraggio di guardarsi attorno per rendersi conto dell’ambiente nel quale viveva. Le si presentò uno spettacolo amaro. «Nessuno sa dove sei – nessuno ha mai la più lontana idea di chi tu sia»[9]. Smarriti non soltanto, ma automi, «tutti travolti dalla corrente», senza radici. «Ho avuto molte visite qui. Ma che cosa sono essi? Non sono esseri umani: non sono nemmeno bambini – sono Meccanismi assolutamente irreali»[10], marionette manovrate dalla moda, dall’avarizia e da ogni sorta di passioni. Ebbe l’impressione che il mondo avesse raggiunto un inimmaginabile livello di degradazione, e che anche gli scrittori e i poeti avessero venduto l’anima alla moda.
Nel racconto Mariage à la mode descrive un gruppetto di artisti superficiali, tronfi, cinici, affannati nelle loro squallide avventure. William, lavoratore onesto e amante della famiglia, ogni settimana torna a casa, impaziente di abbracciare i bambini e la moglie, Isabella. Col passare del tempo, lei diventa un’altra. La frequentazione di sedicenti artisti l’ha trasformata in una donna «frivola, svagata, leggera». William è allontanato dalla moglie, e deriso anche per la sua affettuosità e onestà, scambiata per sentimentalismo. Quando torna in città, ormai consapevole che la moglie ha optato per un mariage à la mode, secondo i suggerimenti degli «artistici amici», è un uomo distrutto da un «sordo dolore». Il senso di rimorso che per un po’ di tempo invade Isabella è vanificato dal loro invito al divertimento. Racconto impietoso che trasuda l’inconsistenza e lo squallore dei personaggi, letterariamente costruito con arte raffinata e incisiva.
Molti sono i racconti della Mansfield sul vuoto di una società dominata dall’ipocrisia, dall’erotismo, dall’invidia: una piccola discesa all’inferno, descritta in toni bassi, quasi sottovoce. In una lettera del 1920 tale descrizione assume toni alti che rimandano ai moralisti del Seicento.
«Monte Carlo è un vero inferno. Anzitutto, è il paese più pulito che io abbia mai visto […]. Tutti negozi di lusso, biancheria, profumi, creme, gingilli, banchi di pegno, pasticcerie. Il Casino è il vero quartier generale del diavolo. Le tendine sono abbassate, c’è dentro un bianco splendore di luce elettrica – tappeti sulle scale esterne sui quali passa una continua processione di prostitute, mezzani, accompagnatrici in guanti di filo, ebrei, vecchie megere, vecchi uomini stecchiti coi capelli grigi, che salgono le scale ansando, grossi capitalisti, ragazze camuffate da bambine, e sotto al Casino un immenso caffè, il famoso Café de Paris, con autentici diavoli con le code sotto i grembiali, che si ingiuriano a vicenda mentre servono i clienti. E a quelle tavole siedono i dannati. I giardini — dovresti vederli — sono giardini nell’Inferno […]. Non avevo mai saputo, mai sognato prima che Monte Carlo fosse un posto simile. Ora desidero andare al Casino e vederlo tutto. È spaventevole ma affascinante per me […]. Tutto è crudele qui – in aria volteggiano gli avvoltoi, i camerieri-diavoli portano strani cappelli a punta per nascondere le corna»[11].
Nell’acuto studio sulla Mansfield, p. André Blanchet [12] accosta questa pagina alla famosa meditazione dei Due stendardi di sant’Ignazio di Loyola. Identico è il disgusto della Scrittrice e del Santo; tutti e due sostengono che bisogna «fuggire dal mondo». Per il Santo il «mondo» è il regno di Satana, per la Mansfield il «mondo», più che una classe sociale, è un’atmosfera morale irrespirabile per le anime pure. «Il mondo ama il rumore, la ricchezza, le apparenze; stordisce le anime, acceca, su tutto ciò che tocca lascia il suo marchio di sozzura e di corruzione. Bisogna fuggirlo. “Bisogna — dice la Mansfield — tenersi lontani dalle pompe del mondo”». Sì, fuggire, ma dove?
«Accetto l’idea della morte»
Prima di esaminare le fughe di Katherine, è doveroso osservare che in lei, dopo i 20 anni, per vari motivi — precarietà economica, malattia, sentimento dello squallore della sua vita, disillusioni — si era sviluppata una crisi che gradualmente la condurrà su sentieri meno accidentati. Un evento che la segnò profondamente fu la morte del fratello ventenne, Leslie, sul fronte di guerra, in Belgio. Nel Journal scrisse: «Accetto volentieri l’idea della morte. Credo nell’immortalità perché lui non c’è più e non vedo l’ora di riunirmi a lui. Un tempo, mio caro, facevo progetti per noi insieme e per questo ti raggiungerò appena possibile […]. Anch’io sono morta. Presente e futuro non mi dicono niente. La gente non mi interessa più; non ho più voglia di andare in nessun posto; quello che ancora posso dire agli altri è legato unicamente al ricordo di ciò che accadde quando eravamo in vita» [13].
Leslie la aiutò a fuggire dal mondo circostante e a rifugiarsi nel ricordo della terra natale per rivivere l’incanto dell’infanzia. La Nuova Zelanda si trasfigurò nel ricordo e le apparve come un paradiso perduto. Là si viveva nel calore della vita familiare, i bambini crescevano assieme agli animali e alle piante, si ascoltava la terra e il cielo, si credeva al mistero e ai miracoli, si pregava e si sperava. Preludio, il più lungo e tra i più riusciti racconti, trasporta il lettore in quella terra incantata dove una bambina di nome Kezia (Katherine) trascorre i suoi giorni, all’ombra soprattutto dell’indimenticabile nonna Margaret. Anche i racconti Alla baia, La casa delle bambole e Garden-Party sono ispirati ai ricordi della patria lontana. Ricordi o immaginazioni? Gli sfondi sono storici, ma su di essi la Mansfield costruì un mondo utopico per accondiscendere al suo desiderio di «fuga dal mondo».
In una poesia composta poco dopo la morte del fratello, Katherine racconta di un misterioso sogno. Insieme a Leslie passeggiava presso un ruscello dalle alte siepi orlate di bacche bianche e rosse. «“Non toccarle” — gli diceva — “perché sono velenose”. La mano di lui si levò verso di esse e sul capo di Leslie si formò uno strano alone. Si fermò e il lucor delle bacche luccicò. “Ricordi? Dell’Uomo Morto dicevamo ch’erano il pane”. Il sogno svanì e udì il lamento del vento e il fragore dell’acqua cupa. Dove – dov’è per i miei passi ansiosi il sentiero del sogno? / Con le bacche in mano mio fratello / m’aspettò nel ricordo lì al ruscello… / “Prendi, sorella, e mangia. Questo è il mio corpo sano”»[14].
L’interpretazione non è facile. Come Cristo, per darci la vita, ha subìto la morte, così dev’essere per noi? Leslie è morto per indicarle il sentiero da percorrere per raggiungere la gioia e la vita? La sua morte è un’ostia sacrificale di cui lei deve cibarsi? Così avvenne. Guardò il mondo con gli occhi del fratello morto, accettò la sofferenza in attesa di raggiungere Leslie. Non le riuscì però di spegnere la sete di una vita avventurosa se non a intermittenza, né a tacitare i richiami di un ambiente spiritualmente alla deriva. Così, senza fede, senza amici capaci di aiutarla, perduta tra cielo e terra, si avventurò alla ricerca del paradiso perduto, indicatogli da Leslie e dalla propria passione letteraria. Con l’andare del tempo anche il ricordo di Leslie si andò sbiadendo, come i sogni. E rimase sola, con i suoi rimpianti e il suo smarrimento.
Il marito l’amava ma da lontano
Dal 1915 la vita di Katherine fu un vero calvario: senza fissa dimora, tallonata dalla tubercolosi e dalla povertà, senza sostegni affettivi. Da anni viveva con John Middleton Murry[15], «in parte snob, in parte vigliacco, in parte sentimentale», come confessò di se stesso, tanto che a lei non fu difficile avere avventure con altri uomini, tra cui lo scrittore francese Francis Carco. Nel racconto Je ne parle pas français costui è rappresentato nell’odioso personaggio di Raoul Duquette, effeminato e mediocre, cinico e calcolatore, mentre Murry, rappresentato in Dick Harmon, è un tipo debole, sleale e perfido. Lei, Katherine, è la fragile, infantile e vulnerabile Mouse. Nella cerchia delle sue amicizie è difficile trovare persone sane, equilibrate e benefiche. Con D. H. Lawrence ebbe un rapporto che oscillò dall’affetto profondo all’estrema ostilità. Bertrand Russell nutriva verso di lei sentimenti ambivalenti: «L’ammiravo profondamente, ma mi ripugnavano i suoi odi violenti»[16]. Virginia Woolf nutrì per lei sentimenti di amicizia, ma anche di diffidenza e di rivalità. «Katherine, l’impacciata coloniale, temeva Virginia, l’altera intellettuale e [verso di lei] si sforzò di essere forte e dura»[17]. L’unica fedele amica fu Ida Baker, legata a lei da sentimenti che sfioravano il servilismo e la morbosità.
Il dramma che le lacerò l’anima fu la solitudine. «Io non ho nessuno». Così scrisse a John, il 23 gennaio 1920, quando la tubercolosi la costringeva a una vita da zingara. Due anni prima aveva sposato Murry, ma questa larva di marito, sempre assorbito da se stesso e dalle sue faccende, non ebbe il coraggio di stare accanto a una moglie malata di tisi. L’amava, sì, ma da lontano, senza compromettersi. Lei avvertiva un prepotente bisogno di avere accanto un marito amorevole, capace di sostenerla e di aiutarla a vivere. Non trovandolo in Murray, idealizzò la sua figura e a questa scrisse le sue lettere più belle.
«Bisogna essere fedeli alla propria visione della vita»
Amava e benediceva la vita: «Nonostante tutto non si può che benedire la vita». «Mi domandi come sto — scriveva al marito nel maggio 1921 —. Sempre lo stesso. Questo attacco è stato il peggiore che io abbia avuto da quando sono malata e così mi sento debole e come un’ombra, fisicamente […]. Ma vivo io come se credessi in qualche cosa? Non vivo solo a sprazzi? C’è qualche cosa che non va, c’è qualche cosa di meschino in una simile vita. Bisogna vivere con maggiore pienezza, bisogna aveva maggiore capacità di amare e di sentire. Bisogna essere fedeli alla propria visione della vita».
Qual era la sua visione della vita? Innanzitutto pensava che la vita dovesse essere accettata, non subita o rifiutata. «Non penso che uno scrittore possa fare opera valida se non accetta la vita», cioè non inventarla, ma sottomettersi alla sua scuola, scrutarne i segreti, radicarsi in essa, sentirla. «O Vita — misteriosa vita — che cosa sei tu? Forster dice: un gioco. Io sento a un tratto come se da tutti quei libri venisse un clamore di voci – sì, i libri parlano – specialmente i poeti. Come sono belli i salici – come sono belli – come piove il sole su di essi – le minuscole foglie si muovono come pesciolini. Oh sole, risplendi per sempre! Mi sento un po’ ebbra – mi sento come un insetto caduto nel cuore di una magnolia»[18]. La vista del mare l’affascina: ne sente la voce («Chi mi parla solo e sempre è il mare») e al tramonto «vive momenti di felicità perfetta». La caduta delle foglie in autunno la inonda di un senso magico. «Oh Terra! Amata, indimenticabile terra. Ieri ho visto le foglie cadere, così gentilmente, così mollemente, piovevano dai piccoli alberi snelli, dorati sullo sfondo azzurro. Forse l’Autunno è la più dolce stagione. Ecco, è l’autunno. Da che viene questa magia? È una magia per me» [19].
Katherine osserva che anche nella natura tutto è armoniosamente legato, tutto si tiene come per mano. Ciò induce a pensare che l’intero universo lavori per realizzare una forma suprema di amore, centro di ogni cosa, e che si debba ammettere l’esistenza di una misteriosa e appassionante realtà[20]. Vari racconti della Mansfield trattano di anime prigioniere del superficiale alle quali una particolare illuminazione rivela un’altro mondo e la possibilità di una liberazione. Molte però preferiscono restare prigioniere della superficialità. Come Leila, nel racconto Il primo ballo.
La sala da ballo è tutta un turbinare di luci, di giovani coppie, di note che accompagnono la danza. Leila è trascinata nel turbine, «galleggiando come un fiore buttato nel filo della corrente». Al secondo round un signore anziano la invita alla danza. «Leila, vedendolo così vecchio, ebbe un sussulto, pareva che il suo posto non fosse qui ma lassù, sulla piattaforma, tra i padri e le madri». Ha pietà di lui. Stringendola a sé, l’ignoto signore le predice che anche lei, «prima della scaduta del termine», si troverà sulla piattaforma, sfiorita e trascurata. «Era proprio vero? Aveva l’aria di essere terribilmente vero. Dunque questo suo primo ballo era già il preludio dell’ultimo?». A Leila passa la voglia di ballare, ma una maliosa melodia la risospinge nel turbine. «E quando il ballerino la mandò a sbattere contro il vecchio signore grasso e questi disse Pardon [come aveva detto prima], ella gli rispose col sorriso più radioso e non lo riconobbe neppure»[21].
«La vita è un mistero»
La Mansfield si ribella alla prospettiva di disperdere i suoi giorni nella superficialità e nell’oblio della Realtà che dev’esserci oltre le apparenze. È il Dio dei filosofi? Un Assoluto? Un Amore? Non lo sa. Sa però che esiste un Mistero, testimoniato dalla natura: «Non potremo mai spiegarlo – sapremo solo qualche cosa di più quando morremo». Un’altra cosa sa Katherine: sa che esiste «qualche cosa di misterioso che [ci] attende – che [ci] chiama». L’ha intuito sperimentando «la gioia nel mondo del silenzio». Allora anche la sofferenza acquista un diverso significato. «È giusto resistere a una tale sofferenza? Io sento che è stata un immenso privilegio. Sì, a dispetto di tutto. Che piccole creature cieche noi siamo! Soltanto le fiabe ci fanno vivere realmente. Quando ci mettiamo in viaggio, più splendido è il tesoro che cerchiamo e più grandi sono le tentazioni e i pericoli da superare. E se qualcuno si ribella e dice: “la vita non è buona a queste condizioni” bisogna solo rispondere: “lo è […]. Mi ci sono voluti tre anni per capire questo – per arrivare a veder questo. Resistiamo, abbiamo una terribile paura. La piccola barca si sprofonda nel gorgo tenebroso, e noi gridiamo solo per salvarci “riconducimi a terra!”. Ma è inutile. Nessuno ascolta. L’essere spettrale continua a remare. Non resta che rimanere tranquilli, guardare tranquilli[22].
Come restare tranquilli? Vincendo la paura con l’Amore, poiché «il perfetto Amore scaccia il Timore». Che cosa la Scrittrice volesse intendere citando san Giovanni (1 Gv 4,18) è difficile dire. È evidente però che, nella sua anima, la parola Amore acquista un significato aperto sul sentiero della fede. Ne abbiamo una conferma in un significativo testo del suo Diario, scritto due mesi dopo, il 19 dicembre 1920.
«Vorrei che queste righe fossero accolte come la mia confessione. Non c’è un limite alla sofferenza umana. Quando si pensa: “Ecco, ho toccato il fondo del mare, ora non posso andare più giù”, nondimeno si va ancora più giù […]. La sofferenza è senza limiti, la sofferenza è paragonabile all’eternità […].
«Non voglio morire senza prima aver lasciato una testimonianza della mia ferma fede che la sofferenza può essere superata. Perché io lo credo. Che si dovrebbe fare? Non si tratta di “passar oltre”, come comunemente si dice. Questo è falso. Bisogna sottomettersi. Non resistere. Accogliere il dolore. Esserne come sommersi. Accettarlo pienamente. Farne parte della propria vita.
«Nella vita, qualunque cosa venga realmente accettata, subisce poi un mutamento. Così la sofferenza deve mutarsi in Amore. Ecco il Mistero. Questo io devo fare. Io debbo, da un amore esclusivo, salire a un amore più grande. Io debbo dare a tutta l’umanità ciò che diedi a uno solo […]. Se la “sofferenza” non è un processo rinnovatore, io la voglio rendere tale […].
«La vita è un mistero. Il terribile male diminuirà gradatamente. Io debbo darmi tutta al mio lavoro. Debbo trasformare il mio supplizio in qualche cosa, trasfigurarlo. “Il dolore sarà mutato in gioia”.
«È uno smarrirsi più completamente, un amare più profondamente, un sentirsi parte della vita, non uno straniarsi. Oh, vita! Accoglimi… rendimi degna… insegnami»[23].
Questo testo rimanda all’ascetica cristiana. Fa pensare a un viandante assetato che si aggira nei dintorni di una sorgente e ne avverte la frescura senza conoscerne l’ubicazione. La Mansfield si muoveva sui bordi del dogma cristiano senza saperlo. Parole come queste: «È mia convinzione che nulla salverà il mondo se non l’amore»[24] non si scrivono se non si respira aria cristiana. La sofferenza le rivelò anche il senso del peccato. Scrisse al marito: «Io ho recitato i miei peccati, poi li ho scusati o li ho cacciati, dicendomi “non serve a nulla pensare a queste cose” o (più sovente ancora) “era tutta un’esperienza”. Ma TUTTO non è stato esperienza. Era anche spreco e distruzione»[25]. La sua amarezza di sposa lontana dal marito le fece comprendere l’importanza del vero matrimonio. «Non ne esistono quasi più. Per conto mio confesso di credere nel matrimonio. Mi pare la sola relazione possibile che sia davvero soddisfacente. E in quale altro modo si potrebbe avere l’animo in pace per godere la vita e lavorare? Conoscersi l’un l’altro mi pare un’avventura molto più grande che passare il tempo a conoscere solo i baci di chi sa quanti. Certo il matrimonio occupa un’intera vita ed è sempre più sorprendente quanto più il tempo passa. Vi pare che tutto questo sia irrimediabilmente fuori moda? Credo di sì […]. In questi tempi la gente vive in una tale confusione! Io ho orrore di certi pasticci»[26]. Anche la sua maniera di concepire il compito dello scrittore riecheggia un tono cristiano: «Io credo che se gli artisti fossero profondi e onesti salverebbero il mondo. È la mancanza di queste cose e le cose opposte che gettano una grande ombra sulla vita. Le buone opere portano in sé la Vita – le cattive opere hanno già in sé la morte»[27].
«Credo in questo amore»
Si muoveva nell’orbita della fede perché — dichiarava — «non bisogna mai permettersi di essere inferiori al più profondo io interiore». Sprovvista com’era di cultura patristica, non conosceva il testo di sant’Agostino: «È nell’uomo interiore che abita la verità»[28]. Dio abitava nella sua anima senza che lei lo sapesse, anzi si affannava a negarlo. «Vorrei poter credere in Dio. Non posso. Pare che la scienza renda ciò impossibile. Se si deve credere in Dio, dev’essere in un Dio buono, e Dio non può permettere che i suoi figli soffrano così. No, la vita è un mistero per me»[29]. La negazione di un Dio personale è ripetuta più volte; nello stesso tempo è affermata la necessità di «credere in qualche cosa», «a ciò che vive nella Bellezza», al richiamo dell’amore. «Confesso di sentirmi nel giusto solo quando vivo per amore. Non intendo l’amore individuale, sapete – ma l’amore universale. Perché si dovrebbe amare? Non c’è una ragione; è un mistero. Ma è come una luce. Io posso vedere bene le cose solo nei suoi raggi. Ciò è piuttosto vago, non è vero? Io credo che noi dobbiamo vivere per qualche cosa di grande, e una delle ragioni dell’infinita povertà dell’Arte oggi è che gli artisti non ne hanno la religione, e sono, come dice la Bibbia, pecore senza pastore […]. Io posso essere debole, incerta e smarrita, ma la mia fede è in questo Amore» [30].
Negli ultimi tre anni di vita, con un polmone distrutto dalla tubercolosi, avvertì la nostalgia di Dio: «Vorrei che ci fosse un Dio. Anelo di lodarlo, di ringraziarlo»[31]. La sua mente lo negava perché, del tutto povera di conoscenza teologica, lo confondeva con un essere lontano e indifferente nei suoi cieli, estraneo alle sue creature. Ma il suo cuore intuiva un altro Dio, e lo invocava, in nome soprattutto dell’amore e della salvezza. Nell’ottobre 1920 scriveva al marito: «La tua anima ti turba? La mia sì. Sento solo ora che desidero essere salvata. So che cosa vuol dire salvarsi, e lo desidero ardentemente. Naturalmente, non parlo da cristiana, né alludo a un particolare Dio. Ma ciò che sento è… che io credo (e moltissimo). Vieni in aiuto alla mia incredulità. Ma è a me stessa che io grido — allo spirito, all’essenza di me — a ciò che vive nella Bellezza. Oh queste parole! Eppure dovrei essere capace di spiegarmi»[32].
Adorava la «Bellezza» ma non sapeva darle né un nome né un volto. L’adorava nell’altare del suo cuore, palpitante di desideri ultraterreni. Le capitava anche di pregarlo in chiesa («Sono stata nella piccola chiesa e ho pregato») o in casa («Ho lavorato […], ho pensato, ho pregato»). Talune sue invocazioni hanno un sapore profondamente spirituale: «Dio, fammi di puro cristallo, sì che la tua luce mi possa tutta attraversare»[33]. Nella bellezza della natura scorgeva un riflesso di Dio: «Il tempo è veramente delizioso. Oggi poi perfetto. Radioso, limpido come un cristallo, uno di quei giorni nei quali pare che la terra si fermi, come affascinata dalla propria bellezza, mentre ogni foglia tenera bisbiglia: “Non sono forse io divinamente bella?”»[34].
Pregava e desiderava che anche altri pregassero per lei: «Piove e io mi sento sola, sfiduciata, abbandonata. Pregate per me», scriveva all’amica Ottoline Morrell. Non s’invocava aiuto a uno «spirito» astratto ed evanescente o all’«essenza» di sé, ma a un essere superiore. Al Dio di Gesù Cristo? A Cristo? Nove mesi prima di morire, il 29 marzo 1922, scrisse al marito: «Più studio la religione di Cristo e più essa mi stupisce», e citava le parole del Vangelo: «Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi ristorerò» (Mt 11,28). Due anni prima, l’8 febbraio 1920, nei Diario aveva notato: «Per la prima volta penso che desidererei convertirmi al cattolicesimo. Ho bisogno di qualche cosa».
Di che cosa aveva bisogno? La letteratura non le bastò più. Nel testamento lasciò a John M. Murry tutti i manoscritti e le carte, e aggiunse: «Vorrei che egli pubblicasse il meno possibile e stracciasse e bruciasse il più possibile. Capirà che io desidero lasciare una traccia infinitesimale del mio soggiorno terreno»[35]. Ridotta dalla malattia a una larva, lontana da tutti, con lo spettro della morte accanto, aveva bisogno di respirare aria di salvezza eterna («Desidero essere salvata») e di amore che non tramonta. Incappò invece in una colonia teosofica, ad Avon, presso Fontainebleau, diretta dal russo Georg Gurdjiev, definito da Pietro Citati «un grande mistificatore, sinistro cialtrone, beffardo mistagogo». Una vita assurda, in ogni senso, che Katherine subì, quasi stregata[36]. Tre mesi dopo moriva, il giorno stesso in cui giungeva sul posto il marito per portarla via da lì.
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[1] I racconti di Katherine Mansfield sono stati variamente presentati: Preludio e altri racconti, Milano, Garzanti, 1946; La lezione di canto e altri racconti, Milano, Mondadori, 1935; Una tazza di tè e altri racconti, Torino, Frassinelli, 1944; La stanchezza di Rosabel e altri racconti, Milano, Gentile, 1945; Il meglio di Katherine Mansfield, Milano, Longanesi, 1957; Felicità. Qualcosa di infantile ma di molto naturale, Milano, il Saggiatore, 1959; Beatitudine, Milano, Rizzoli, 1960; Tutti i racconti, Milano, Adelphi, 1978; Racconti, Milano, Club del Libro, 1981; Racconti, Milano, Rizzoli, 1989; Tutti i racconti, Roma, Newton, 1996. Tutte queste raccolte hanno avuto varie edizioni. Dell’epistolario, curato da J. M. Murry, in italiano abbiamo due edizioni: Lettere, Milano, Mondadori, 1941; Epistolario, Milano, il Saggiatore, 1961. Il Diario, anch’esso curato da J. M. Murry, è stato pubblicato a Milano da dall’Oglio, 1949, e recentemente a Roma, da Robin, 2002. Le Poesie, con traduzione e introduzione di Marcella Rossi, sono state pubblicate a Perugia da Ali&No, 1990.
[2] J. MEYERS, Katherine Mansfield, Milano, Rusconi, 1982, 178. Il volume di Jeffrey Meyers, professore alla University of Colorado, sotto il profilo biografico è quanto di meglio esista. Notevole in esso è l’ampio apparato bibliografico.
[3] «I viaggiatori che si recavano in Nuova Zelanda sul finire del decimonono secolo registravano le caratteristiche predominanti della popolazione, che era (ed è ancora) conservatrice, conformista, rispettabile, dignitosa e scrupolosa. Alla svolta del secolo essa difettava di stile e di eleganza […]. I visitatori descrivevano “il grigiore della città e la tristezza del paesaggio, il grezzo empirismo degli uomini politici e l’apatia intellettuale della popolazione” in quella terra “confortevole e incolore”» (J. MEYERS, Katherine Mansfield, cit., 6 s).
[4] Ivi, 36.
[5] Lettera del 22 novembre 1919.
[6] J. MEYERS, Katherine Mansfield, cit., 52
[7] Lettera del 23 settembre, riportata ivi, 57.
[8] P. CITATI, Vita breve di Katherine Mansfield, Milano, Rizzoli, 1980, 16. Il volume di Citati si distingue per acutezza d’introspezione psicologica e per la capacità di cogliere gli aspetti e i momenti essenziali della Mansfield. Sui rapporti, ambigui e complessi, della Mansfield con D. H. Lawrence cfr il capitolo VII di Meyers.
[9] Lettera del 28 giugno 1919.
[10] Lettera a S. S. Koteliansky del 14 dicembre 1919.
[11] Lettera a J. M. Murry del febbraio 1920.
[12] Cfr A. BLANCHET, Le secret di K. Mansfield, in ID., La Littérature et le Spirituel, Paris, Aubier, 1961, 71-73.
[13] Citato da J. MAYERS, Katherine Mansfield, cit., 169. Nell’edizione italiana del Diario questo testo molto significativo è stato inspiegabilmente omesso.
[14] K. MANSFIELD, Poesie, Perugia, Ali&No, 1990, 111.
[15] Visse con J. M. Murry, critico letterario di una certa notorietà, dal 1912 e lo sposò nel 1918. Citati così scrive: «Quando [Katherine] pensava a lui, gli pareva che si fosse imprigionato con le proprie mani: chiuso in un guscio di morbido egoismo; debole, torturato da ossessioni di danaro, terrorizzato da fantasmi, incapace di amare una creatura tremenda e vitale come lei. Avrebbe voluto che avesse più calore, slancio, ardore, entusiasmo e simpatia immediata. Col passare del tempo comprese che egli la amava, ma a condizione di tenerla lontana; quando stavano insieme, era pallido, esausto, sopraffatto da una specie di inquieta e permanente stanchezza. “Virginia [Woolf] ha Leonard” gli scrisse. “Io non ho nessuno”. Non c’era mai: la lasciava sola, non l’aiutava, non la curava, non vedeva le cose con lei, non aveva bisogno di lei. Eppure la cristallizzazione amorosa, che forse era accaduta tardi, non s’infranse mai più, nemmeno nella separazione dell’ultimo anno» (P. CITATI, Vita breve di Katherine Mansfield, cit., 50 s).
[16] Riportato da J. MEYERS, Katherine Mansfield, cit., 187.
[17] «Katherine e Virginia furono certo amiche, ma anche rivali come donne e come artiste, e nutrirono una profonda, reciproca diffidenza. Sebbene Virginia sapesse essere perfida e terrorizzante, la sua fredda ironia, il suo spirito acuto, lo spietato sarcasmo e la maliziosa gelosia erano essenzialmente uno strumento di difesa nei confronti della sua stessa spaventosa sensibilità. Le due scrittrici furono creature deboli, emotive e sensibili che, pur sposate, ebbero rapporti lesbici, non ebbero figli e furono sole, amare e caustiche. Ma Katherine, l’impacciata coloniale, temeva Virginia, l’altera intellettuale e si sforzò di essere dura e forte» (J. MEYERS, Katherine Mansfield, cit., 190).
[18] Lettera a Dorothy Brett del 18 luglio 1919.
[19] Lettera a J. M. Murry del 15 ottobre 1922.
[20] «La mia segreta fede – il “credo” interiore per il quale io vivo è questo: che sebbene la vita sia odiosamente brutta e la gente troppo spesso abbietta e crudele e malvagia, tuttavia c’è qualche cosa dietro a tutto ciò – che, se io fossi solo abbastanza grande per intenderla, renderebbe ogni cosa indicibilmente bella. Se ne hanno come dei baleni – e divini avvertimenti – e segni» (Lettera a Lady Ottoline Morrell, giugno 1918).
[21] K. MANSFIELD, Il suo primo ballo, in ID., Preludio e altri racconti, Milano, Garzanti, 1946, 290.
[22] «Io credo che l’errore più grande è quello di avere paura. Il perfetto Amore scaccia il Timore» (Lettera a J. M. Murry, ottobre 1920).
[23] K. MANSFIELD, Diario, Milano, dall’Oglio, 1949, 171 s. La Mansfield insiste a più riprese sulla misteriosità della vita. Anche nei riguardi della psicanalisi è poco tenera. Negli ultimi anni di vita suo maestro di arte letteraria e di vita fu Anton Çechov. «Aveva identificato il proprio destino con quello di lui, che ebbe la sua stessa malattia, errò come lei tra le camere d’albergo, scrisse racconti che invidiava, e giunse, anch’egli, ad amare la vita dopo essere uscito dall’incubo della morte. Avrebbe voluto parlargli in una stanza un po’ oscura, tardi nella serata. Pensava che forse, dopo la morte, avrebbe trovato il paradiso riservato ai tisici. Allora avrebbe incontrato Cechov. “Discenderà i viali del suo giardino, fiancheggiati da alberi da frutta, vicino a delle aiuole di tulipani in fiore”» (P. CITATI, Vita breve di Katherine Mansfield, cit., 90). Molti suoi racconti hanno del resto un sapore cechoviano.
[24] Lettera a Dorothy Brett, agosto 1921, riportata da J. MAYERS, Katherine Mansfield, cit., 42.
[25] Lettera a J. M. Murry del 31 ottobre 1920, in Epistolario, Milano, il Saggiatore, 1976, 626.
[26] Lettera a Sylvia Lynd del 24 settembre 1921.
[27] Lettera a Richard Murry del 3 febbraio 1921.
[28] Nel trattato De vera religione sant’Agostino scrive: «Non uscir fuori, torna in te stesso: è nell’uomo interiore che abita la verità».
[29] Lettera di J. M. Murry del 23 febbraio 1920.
[30] Ivi.
[31] Lettera a Dorothy Brett, settembre 1921.
[32] Lettera a J. M. Murry, ottobre 1920.
[33] Diario, cit., 204.
[34] Lettera a Lady Ottoline Morrell del 14 marzo 1921.
[35] Testo riportato da J. MEYERS, Katherine Mansfield, cit., 320, cha aggiunge: «È un’ironia, alla luce delle sue ultime volontà, che la fama di Katherine, come quella di Kafka, derivò soprattutto dai suoi racconti postumi» (p. 321).
[36] Citati così descrive la vita nell’Istituto per lo sviluppo armonioso dell’uomo, diretto da Gurdjiev: «[Katherine] aveva appreso la prima lezione dell’Istituto: doveva staccarsi da tutte le cose, vivere come una fuggiasca sotto le tende, sopportare il disordine, la povertà, la sporcizia e i cattivi odori come fosseri effluvi del Paradiso. La mattina si levava presto e si lavava con l’acqua gelata […]. Curava le pecore, i maiali “mistici” dalle lunghe setole dorate, i conigli “cosmici”, le oche così piene di intelligenza, le galline e le capre […]. [Gurdjieff] aveva fatto costruire nella stalla una galleria sopra le mucche […]. La Mansfield doveva stare là sopra, sdraiata sopra le mucche: dapprima solo il giorno, poi anche la notte; e la “radiazione del magnetismo animale”, la calda esalazione delle mucche, del letame e del fieno avrebbero dato nuova forza ai suoi polmoni malati» (Vita breve di Katherine Mansfield, cit., 124 s). Come drogata, Katherine gli ubbidiva, annientandosi e andando incontro alla morte, dopo tre mesi, il 9 gennaio 1923, in seguito a un fiotto di sangue che parve soffocarla.