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Sviluppo storico della tesi bistatuale
L’ipotesi di una spartizione della Palestina storica tra ebrei e palestinesi fu accolta per la prima volta in un documento ufficiale nel luglio del 1937, quando la Commissione Peel — istituita dal Governo inglese un anno prima per indagare le cause della rivolta araba e per regolarizzare l’immigrazione di ebrei nel territorio palestinese — indicò come soluzione del difficile problema la divisione tra le due comunità presenti nel territorio palestinese. I commissari, oltre ad auspicare al più presto, nell’interesse della Gran Bretagna, la fine del Mandato, proposero la creazione di due Stati confinanti: uno palestinese, costituito dal 75% del territorio del mandato, e l’altro, ebraico, notevolmente più piccolo e comprendente il 20% del Paese, cioè la Galilea e una parte della costa. La Commissione, inoltre, raccomandava che la parte araba fosse congiunta alla Transgiordania, in modo che venisse creato, sotto il sovrano hashemita, un grande regno capace di confrontarsi con le altre monarchie della regione. Gerusalemme e Betlemme sarebbero rimaste sotto il dominio inglese.
Per esaminare tale proposta fu immediatamente convocato a Zurigo un Congresso internazionale sionista. Esso, dopo una lunga e contrastata discussione, decise a maggioranza di due terzi di accettare il principio della spartizione: David Ben-Gurion, presidente dell’Agenzia ebraica, e il leader del movimento Chaim Weizmann, svolsero un ruolo importante nell’orientare i congressisti verso tale soluzione. Proposero però di negoziare con gli inglesi la quota loro riservata, che era ritenuta troppo esigua per accogliere un numero considerevole di ebrei che avevano chiesto il trasferimento in quella terra, e in ogni caso ingiustificata sul piano storico e religioso. Ricordiamo, inoltre, che nella relazione presentata dalla Commissione Peel la spartizione del territorio andava di pari passo con il progetto di trasferimento di popolazioni da una zona all’altra. «Siamo incoraggiati — è scritto nel testo — dal precedente storico della dislocazione obbligatoria di 1.300.000 greci dall’Asia Minore alla Tessaglia e alla Macedonia e di 400.000 turchi nella direzione inversa. Il tutto è stato realizzato in 18 mesi e da allora le relazioni tra Grecia e Turchia sono migliorate»[1]. Questa — raccomandava il testo — è la soluzione ideale, perché non lascia minoranze che possono causare frizioni o rivolte nei nuovi Stati. Tanto più che il numero di arabi da trasferire dalla zona controllata dagli ebrei — 300.000 persone — non sembrava troppo elevato.
Naturalmente non tutti i leader sionisti erano d’accordo con la soluzione formulata a Zurigo; ad esempio, Zeev Jabotinsky sostenne che la proposta della Commissione Peel offriva «meno di una goccia nell’oceano delle sofferenze degli ebrei; nel mare della loro fame di territorio». Criticò la speranza, espressa da Ben-Gurion, che il mini-Stato ebraico potesse diventare il «Piemonte ebreo», un trampolino di lancio per un’espansione futura. Le grandi potenze e i Paesi arabi, a suo avviso, non avrebbero permesso la «dilatazione» dello Stato ebraico né attraverso la guerra, né attraverso la costruzione di nuovi insediamenti pacifici. Con il passare degli anni e con l’aumento della conflittualità e dei casi di violenza tra le due comunità, e con l’inizio della persecuzione degli ebrei nell’Europa nazista, la riflessione sui trasferimenti (volontari o forzati) degli arabi dai territori controllati dagli ebrei fece un salto di qualità: divenne una realtà non più ipotetica, ma attuale[2].
In ogni caso delle proposte della Commissione Peel non si fece nulla: esse furono respinte sia dal Governo britannico sia dai leader del mondo arabo-palestinese, che non erano disposti a dare un centimetro di terra islamica al nemico sionista, il quale avrebbe dovuto ridurre la presenza di ebrei in Palestina, bloccando le immigrazioni (ritenute illegali anche dal Governo mandatario) e, quindi, accettare la protezione di un Governo islamico, oppure affrontare una guerra di liberazione con i Paesi arabi circostanti. Cosa che di fatto avvenne dieci anni dopo.
Il 2 agosto 1947 il Parlamento inglese in sessione speciale, dopo la difficile situazione creatasi nei mandati alla fine della seconda guerra mondiale, decise di abbandonare senza ulteriori indugi la Palestina. L’amministrazione del mandato passò quindi, come già si era convenuto nel febbraio di quell’anno, alle Nazioni Unite, la cui Assemblea Generale nell’aprile-maggio 1947 aveva nominato una Commissione ad hoc per studiare la situazione, il Comitato Speciale per la Palestina (Unscop). Il 29 novembre 1947 le Nazioni Unite, sulla base della relazione presentata da tale Commissione, votarono a maggioranza assoluta la spartizione della Palestina tra israeliani e palestinesi. La Risoluzione n. 181 non fu però accettata dai Paesi arabi, che difesero il principio della intangibilità del territorio islamico, fondato sul diritto concesso da Allah ai palestinesi di occupare tutta la terra dal Giordano fino al Mediterraneo. Insomma, la soluzione bistatuale (due popoli due Stati indipendenti), proposta in ambito internazionale fin dal 1937, alla fine si impose.
Fin dalla nascita di Israele (maggio 1948), le discussioni sulla spartizione del territorio si sono concentrate sulla possibilità di una coesistenza tra lo Stato di Israele, territorialmente definito (e ampliato rispetto alla Risoluzione Onu) entro i confini stabiliti dagli accordi di armistizio seguiti alla guerra del 1948-49, e uno Stato arabo-palestinese che sarebbe dovuto sorgere nella maggior parte della Cisgiordania e sulla Striscia di Gaza. La soluzione bistatuale, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, è stata privilegiata dalla comunità internazionale, in particolare dalle potenze occidentali, e negli anni passati è stata posta come base di partenza nelle trattative tra le due parti. Il raggiungimento di tale obiettivo è ancora ufficialmente lo scopo principale delle politiche sia del Governo di Israele, sia dell’Autorità Nazionale Palestinese, guidata dal presidente Abu Mazen.
I fondamentalisti islamici, sia Hamas (che amministra la Striscia di Gaza), sia il Jihad islamico — come anche gliHezbollah filo-iraniani del Libano — sostengono al contrario la vecchia tesi monostatuale, rivendicando il possesso di tutta la Palestina agli arabi musulmani[3]; perciò essi combattono per l’eliminazione dello Stato di Israele e per la costituzione di un unico Stato palestinese, governato secondo i princìpi della sharia. In realtà, tale principio, che oggi è presente nello statuto fondativo di Hamas, fino a pochi anni fa era fissato anche nella Carta Nazionale Palestinese; e su tale principio era stata formata, fino agli anni Novanta, un’intera generazione di attivisti dell’Olp, che soltanto a malincuore e senza troppa convinzione successivamente, per motivi di opportunità politica, si convertirono con il loro leader Yasser Arafat al principio «occidentale» del bistatualismo strategico.
Di fatto, la soluzione bistatuale, adottata nel 1947 dalla Risoluzione Onu numero 181 e appoggiata dalle cancellerie occidentali, fu, come si è detto, immediatamente respinta dai Paesi arabi, principalmente, ma non soltanto, per motivi di carattere ideologico-religioso. Se la sera del 14 maggio 1948, subito dopo la dichiarazione di indipendenza dello Stato di Israele proclamata da Ben-Gurion al museo di Tel Aviv, il Gran Muftì di Gerusalemme, Muhammad Amin al-Husseini, avesse rilasciato una dichiarazione simile — non importa quanto polemica, ostile o critica nei confronti della Risoluzione Onu — proclamando l’indipendenza dello Stato palestinese, la storia del Medio Oriente sarebbe stata molto diversa. Non avremmo, infatti, assistito a mezzo secolo di conflitti sanguinosi e attentati terroristici che hanno portato morte, insicurezza e povertà in quella regione e non soltanto in essa, come ne è prova la propaganda del terrorismo transnazionale, che strumentalizza tale conflitto per attaccare Israele e l’Occidente cristiano, ritenuto suo alleato. Fatto sta che il leader religioso palestinese, anziché reagire con realismo e pragmatismo, come fece il suo collega israeliano, approfittando della congiuntura internazionale e dell’esistenza di un pronunciamento della maggiore autorità internazionale riconosciuta (l’Onu), si lasciò coinvolgere dalle faide interne esistenti tra le grandi famiglie palestinesi e dai giochi politici e dagli antagonismi dei Paesi arabi circostanti. Così perse un’occasione importante per dare uno Stato ai palestinesi, o almeno per attivare le proprie rivendicazioni di carattere territoriale a partire da quanto già riconosciuto in sede internazionale. La soluzione bistatuale, come si è visto, fu ufficialmente rifiutata per (apparenti) motivazioni di ordine ideologico-religioso e a partire da tale momento la questione israelo-palestinese si andò complicando in modo inestricabile, soprattutto in seguito alle guerre del 1948-49 e del 1967, che rafforzarono Israele.
Parte della responsabilità, nella mancata attuazione del principio bistatuale nel lungo periodo, va però attribuita anche agli israeliani. Secondo lo storico Sergio Della Pergola, se la sera dell’11 giugno 1967, al termine della clamorosa vittoria israeliana sugli eserciti arabi, la dirigenza israeliana non avesse pronunciato la fatidica frase : «Aspettiamo una telefonata del re Hussein», intendendo con ciò la prova del riconoscimento politico di parte araba, in cambio del quale Israele avrebbe restituito i territori conquistati, e se quella telefonata l’avesse fatta essa stessa, «forse i successivi 40 anni del rapporto tra Israele e Palestina sarebbero stati meno segnati da sanguinosi avvenimenti»[4]. E vero che la storia non si fa con i «se», ma gli avvenimenti del passato, comprese le occasioni mancate, servono per comprendere meglio il presente e, soprattutto, per non ripetere gli errori commessi.
La tesi monostatuale e i suoi critici
La tesi monostatuale, sostenuta apertamente dai fondamentalisti islamici, in questi ultimi anni ha guadagnato terreno tra alcuni studiosi e osservatori della realtà mediorientale. Tra questi troviamo non solo alcuni politologi palestinesi, che vivono e lavorano in Occidente, ma persino importanti studiosi ebrei. La prima intellettuale che negli ultimi tempi ha inaugurato tale tendenza è stata l’attivista palestinese Ghada Karmi, che vive in Gran Bretagna. Essa parla di un processo graduale di integrazione tra i due popoli che vivono nella Palestina e ipotizza che si potrebbe iniziare con una «politica formale di binazionalismo», che «potrebbe alla fine anche spianare la strada alla creazione di uno Stato democratico laico nella Palestina storica»[5]. L’autore che ha maggiormente influito sulla messa a punto di tale tesi è stato però il politologo palestinese (statunitense) Rashid Khalidi, il quale nel suo volume The Iron Cage del 2006, ha delineato le caratteristiche generali della questione[6].
Secondo Khalidi, negli ultimi anni è cresciuta tra gli osservatori la consapevolezza che la soluzione bistatuale, proposta dalle Nazioni Unite con la celebre Risoluzione n. 181 del 1947, col passare degli anni è diventata improponibile. Tale consapevolezza è maturata indipendentemente dai meriti o demeriti della soluzione accennata, ma semplicemente per la constatazione della sua inapplicabilità. «In questa prospettiva — scrive il politologo palestinese — l’inesorabile consolidamento del controllo israeliano sui territori occupati della Cisgiordania e di Gerusalemme Est ha reso dubbia la possibilità della creazione di ciò che potrebbe essere legittimamente chiamato Stato palestinese, a fianco di quello israeliano»[0]. Per Stato palestinese si intende uno Stato sovrano e indipendente, in grado di funzionare su una porzione di territorio che corrisponde a quel 22% di Palestina stabilita all’epoca del mandato britannico e che oggi è costituito dai territori palestinesi occupati da Israele nella guerra dei sei giorni nel 1967.
Tale stato di cose, secondo l’Autore, ha promosso una rinnovata considerazione della vecchia teoria monostatuale, intesa o come il risultato ideale di un processo storico o come l’esito comunque più probabile per risolvere l’intricata questione israeliano-palestinese. Alcuni infatti ritengono che poco alla volta ci si stia muovendo verso una strisciante annessione de facto della Cisgiordania e di Gerusalemme Est da parte dello Stato israeliano: ciò produrrà quella che a tutti gli effetti sarà una singola entità politica, dominata da Israele ed estesa a quasi tutta la Palestina storica, con un’approssimativa parità demografica tra arabi e israeliani, che nel giro di poco tempo si risolverà a tutto vantaggio della parte araba della popolazione. «In questo scenario, secondo alcuni, col tempo si dimostrerà impossibile mantenere i due popoli segregati in un’unica sottile striscia di terra, o mantenere questa entità sotto il dominio ebraico, proprio come alla fine divenne impossibile mantenere il dominio bianco sul Sudafrica»[8]. Khalidi, sebbene condivida l’analisi dei commentatori monostatualisti, non nasconde la difficoltà di tale percorso; egli infatti ritiene che sia gli israeliani, sia gli statunitensi non sarebbero disposti a smantellare lo Stato ebraico (anche in vista della costituzione di un nuovo Stato binazionale laico e democratico) fondato su una Risoluzione Onu e riconosciuto dalla comunità internazionale.
La teoria monostatuale ha ripreso forza in ambito palestinese dopo il fallimento dei negoziati di pace intrapresi nel 2000 da Arafat e Barak, sotto la benevola protezione del presidente statunitense Bill Clinton. Il fallimento di quegli accordi e la situazione di conflitto e di continua provocazione che ne è derivata hanno certamente favorito l’ala intransigente del movimento islamista. Di fatto nelle elezioni politiche del gennaio 2006 Hamas ottenne la maggioranza dei suffragi: come è noto il movimento è contrario in linea di principio a tutti gli accordi di pace e sostiene la teoria della indivisibilità della Palestina storica, quindi la tesi monostatuale. La vittoria dei fondamentalisti non fu riconosciuta dalle potenze occidentali, che accordarono la loro fiducia al partito di al-Fatah, il quale si professava favorevole alla soluzione bistatuale e disponibile, almeno a parole, al dialogo con la controparte israeliana. A partire dal 2007 Hamas controlla il territorio di Gaza, sgomberato due anni prima dagli israeliani e sottoposto all’amministrazione indipendente palestinese.
La tesi monostatuale, come si è detto, è stata di recente approfondita da un gruppo di studiosi statunitensi, guidati dal politologo Tony Judt. Secondo questo studioso di origine ebraica, l’idea stessa di Stato-nazione, dopo le guerre iugoslave degli anni Novanta, è entrata in crisi. Lo Stato ebraico, fondato dopo la seconda guerra mondiale, si è strutturato secondo un modello tardo-ottocentesco, ormai superato nei fatti. Almeno concettualmente, sostiene Judt, lo Stato-nazione è morto «e l’idea stessa di uno Stato ebraico, radicata in un altro tempo e in un altro spazio, è un anacronismo […]. In un mondo dove le nazioni e i popoli sono sempre più amalgamati e imparentati; dove gli impedimenti culturali e nazionali alla comunicazione sono quasi completamente superati; dove un numero sempre crescente di noi ha molteplici identità scelte da sé; in un mondo come questo, Israele è davvero un disfunzionale anacronismo»[9]. A questa critica di tipo storico-concettuale l’Autore ne aggiunge un’altra, ancora più incalzante, di carattere politico. Il processo di pace israeliano-palestinese iniziato con gli accordi di Oslo degli anni Novanta e basato sul principio della coesistenza di due Stati per due popoli, a suo dire, è sostanzialmente fallito a causa dell’ostruzionismo israeliano. Oggi, considerando la realtà dei fatti, è impossibile riproporre la soluzione bistatuale, anche perché la realtà demografica poco alla volta sta cambiando la composizione etnica del Paese. Tra due decenni tra il Giordano e il Mediterraneo, a dire degli esperti di demografia, ci saranno più arabi che ebrei. In tal modo, continua Judt, per continuare a governare la Palestina, gli ebrei dovranno scegliere o di espellere una parte degli arabi, in modo da assicurare la connotazione ebraica del loro Stato-nazione, oppure istituire un regime di apartheid, ma ciò sarebbe inconciliabile con i valori su cui si fonda e crede la società israeliana.
Insomma, nessuna di queste due opzioni, indirizzate a conservare il carattere ebraico dello Stato di Israele, ma ambedue antidemocratiche, sembrerebbero praticabili. L’unica alternativa, continua provocatoriamente lo studioso, sarebbe quella di ritirarsi dai territori occupati nel 1967 (cioè la Cisgiordania) e consentire che i palestinesi costituiscano un loro Stato nazionale in tale territorio. Ma ciò, afferma Judt, non può accadere a motivo del numero troppo alto di insediamenti (sviluppatisi nel territorio a macchia di leopardo) e di coloni ebrei (circa 400.000) che vivono in tale lembo di terra; essi infatti non accetterebbero mai di abbandonare la terra «dei loro padri», né di vivere in uno Stato arabo-palestinese, e d’altronde nessun leader israeliano probabilmente avrà la forza o il coraggio di riportare in patria un numero così elevato di coloni, senza dare inizio a una guerra civile, devastante per la sopravvivenza di Israele. Quale dovrebbe essere, quindi, per Judt la soluzione dell’intricatissimo problema? A suo avviso, potrebbe consistere «nella creazione di un singolo Stato binazionale integrato di ebrei e arabi, israeliani e palestinesi». Tale soluzione sarebbe non soltanto possibile, ma anche desiderabile, perché in sintonia con lo spirito dei tempi moderni. A tale riguardo, egli infatti ipotizzava l’aiuto della comunità internazionale e, in particolare, degli Stati Uniti. «Una forza internazionale potrebbe, inoltre, garantire la sicurezza sia degli arabi sia dei palestinesi e, in ogni caso, per uno Stato binazionale legittimamente costituito sarebbe molto più facile sorvegliare i militanti di ogni tipo all’interno dei suoi confini»[10].
Come era prevedibile, la posizione di Judt, divulgata dai suoi allievi in varie pubblicazioni, fu fortemente criticata da molti politologi, in particolare da quelli di origine israeliana. Il primo autore che ha replicato alle audaci tesi di Judt dalle colonne della New York Review of Books è stato Omer Bartov, che lo ha accusato di scrivere con la stessa prospettiva di chi discute della delicata questione israeliano-palestinese «in un caffè parigino o in un pub londinese». Secondo lo studioso israeliano il modello monostatuale e binazionale proposto da Judt sarebbe assurdo, per il semplice fatto che né gli israeliani né i palestinesi lo vogliono; essi infatti vorrebbero abitare e governare uno Stato proprio, fondato sulle loro tradizioni culturali e religiose. Da parte araba, scrive Bartov, i fondamentalisti islamici considerano l’ipotesi di condividere la sovranità con gli ebrei come una maledizione, e i moderati sanno che uno Stato binazionale significherebbe una guerra civile, che condurrebbe a un continuo spargimento di sangue, creando così nel giro di poco tempo una situazione insostenibile. «Quella dei due Stati, forse anche separati da un’orribile muro di sicurezza, sarebbe un’ipotesi di gran lunga migliore e auspicabile»[11].
Dello stesso avviso è anche il politologo dell’Università di Princeton, Michael Walzer. «Liberare il mondo dagli Stati-nazione — scrive provocatoriamente — è un’idea interessante, se non nuova. Ma perché iniziare proprio da Israele? Perché non dalla Francia?»[12]. Il vero problema, egli prosegue, è che la tesi di Judt non si muove secondo una prospettiva indirizzata alla costituzione di uno Stato binazionale. Essa infatti avrebbe come effetto quello di sostituire uno Stato-nazione con un altro, dato che in un decennio, o giù di lì, come si è detto, tra il Giordano e il Mediterraneo ci sarebbero più arabi che ebrei, e ciò condurrebbe semplicemente alla costituzione di uno Stato arabo-palestinese, come da sempre è nell’ambizione dei fondamentalisti islamici. Sarebbe poi inutile, anzi dannosa, la presenza di una forza internazionale di interposizione con il compito di mantenere la sicurezza. Nessuno Stato, inoltre, manderebbe i suoi soldati a farsi ammazzare per una causa impossibile. La conseguenza di tale stato di cose, conclude Walzer, sarebbe che gli israeliani, in particolare la classe media e gli intellettuali laici, lascerebbero immediatamente la loro patria e cercherebbero altrove lavoro e sicurezza.
Altri studiosi accusano Judt di essere poco realista e di porre sullo stesso piano concetti diversi: una cosa è infatti pensare a un’alternativa «per Israele», altra cosa è proporre un’alternativa «all’esistenza stessa di Israele». In ogni caso, essi sostengono, chi ci assicura che tale nuova entità statuale a maggioranza araba anziché uno Stato democratico non si tramuti in uno Stato terrorista, come di fatto è accaduto a Gaza? La prospettiva avanzata dagli ideologi monostatuali, secondo Leon Wieseltier, è davvero sconcertante. «È davvero possibile — egli si chiede — che il ritorno degli ebrei a essere un popolo senza patria, la rivendicazione del radicalismo palestinese e l’intensificarsi della violenza tra le due comunità vengano ritenuti preferibili alla creazione di due Stati per due nazioni?»[13].
Va inoltre ricordato che anche tra i sostenitori della tesi monostatuale ci sono diversi studiosi che non nascondono le gravi difficoltà insite in tale soluzione sia per la parte israeliana, sia per quella palestinese. Siccome tale tesi si fonda sul presupposto che lo Stato binazionale debba essere democratico e laico e riconosca a tutti i cittadini gli stessi diritti, ci si chiede se tale progetto è oggi realmente proponibile alla parte araba. Infatti, scrive Virginia Tilley, oggi le preferenze di molti arabi-palestinesi vanno verso la costituzione di «uno Stato etnico-religioso basato sul concetto che gli arabi e i musulmani sono la popolazione indigena del Paese, uno Stato come quello che sta prendendo piede a Gaza». Tuttavia, ritiene la studiosa, una soluzione monostatuale risulta inevitabile a causa delle «irreversibili azioni espansionistiche» poste in essere in questi decenni dagli israeliani e che hanno impedito di dare attuazione a una soluzione bistatuale della complicata questione israeliano-palestinese. Essa però, come molti altri studiosi, non dispera che un’autentica democrazia possa essere poco alla volta costruita in quella terra, «gettando un ponte tra i due popoli e le loro storie» V. Tilley, «The One-State Solution» in London Review of Books, 6 november 2003., come nel recente passato di fatto è avvenuto in altri Paesi.
La posizione dei nuovi storici israeliani
In ogni caso la tesi monostatuale, nelle sue diverse e a volte acute formulazioni, a giudizio della maggior parte degli osservatori politici e degli studiosi dei problemi mediorientali, avrebbe poche possibilità di successo, anche perché i presupposti su cui si fonda (instaurazione di uno Stato democratico, fondato sul riconoscimento dei diritti delle persone e sul principio di laicità) non sono accettati o riconosciuti dalle componenti più intransigenti o militanti di entrambe le parti. In ogni caso il problema israeliano-palestinese e la sua soluzione nelle attuali circostanze storiche meritano di essere analizzati anche dal punto di vista pratico, mettendo a fuoco le soluzioni possibili e quindi praticabili.
Secondo lo storico israeliano Benny Morris, uno dei maggiori conoscitori della materia, «è un problema di scienza politica relativo al miglior modo possibile di ordinare una società umana — o due società umane — in un dato spazio, tenendo ben presente la demografia, la geografia, la politica, le realtà economiche, gli aspetti culturali e così via»[14]. Per Morris e secondo buona parte degli storici «revisionisti» e degli intellettuali israeliani, la soluzione bistatuale sarebbe allo stato dei fatti l’unica praticabile. I problemi iniziano quando si tratta di dare contenuti specifici a tale opzione di principio. Secondo essi, ad esempio, la proposta di spartizione della Palestina storica con l’assegnazione del 79% del territorio agli ebrei e il 21% agli arabi palestinesi non potrebbe non lasciare negli arabi un profondo senso di delusione e di ingiustizia, creando un senso di ribellione e di risentimento anche nei moderati. In ogni caso, uno Stato palestinese che comprendesse la Cisgiordania (in qualche misura mutilata al fine di tutelare i coloni israeliani), la Striscia di Gaza e forse una parte di Gerusalemme, sarebbe semplicemente un abbozzo di Stato; esso infatti non sarebbe in grado di funzionare soprattutto sul piano economico-sociale: come farebbe uno Stato così piccolo e povero ad andare incontro alle necessità materiali di una popolazione così numerosa, considerando, inoltre, che molti profughi che ora vivono nelle miserabili periferie di molte città arabe degli Stati che li accolgono verrebbero spinti (anche contro la loro volontà) a ritornare nel loro Paese? Tale Stato, spinto da necessità di ordine economico, demografico e politico, sarebbe tentato di espandersi, creando situazioni di conflitto e di insicurezza per tutta l’area, verso i Paesi confinanti, in particolare verso lo Stato di Israele e la Giordania, dove circa il 70% della popolazione è di origine palestinese.
Considerando tutto questo è improbabile che un accordo bistatuale sul modello proposto ai palestinesi nel 2000 da Barak e Clinton, abbia la minima possibilità di funzionare, qualora un accordo simile fosse, per necessità di cose, riproposto. Ciò nonostante — scrive lo storico israeliano Zeev Sternhell — l’idea bistatuale rimane l’unica solida base morale e politica per una soluzione che offra un po’ di giustizia, e quindi una possibilità di pace, per entrambi i popoli. «L’ipotesi di un unico Stato non soltanto porta all’eliminazione dello Stato ebraico, ma apre la strada a conflitti sanguinosi per generazioni. Due Paesi, fianco a fianco, fondati su uguali diritti per entrambi i popoli, questa è la strada giusta e necessaria: ogni altra scelta condurrebbe o al colonialismo o alla eliminazione di Israele in uno Stato binazionale»[15]. Ma l’attuazione di tale principio, considerate le contingenze del momento, diventa con il passare del tempo sempre più ardua.
Una possibile via per una soluzione bistatuale che potrebbe ipoteticamente raccogliere un vasto appoggio tra l’opinione pubblica araba — a giudizio di Morris — sarebbe la costituzione di una «confederazione di Stati mediorientali», meglio se ristretta ai soli Paesi interessati; in essa entrerebbero Israele, la Cisgiordania, la Striscia di Gaza e la Giordania. Tale soluzione naturalmente condurrebbe a un graduale ma inevitabile avvicinamento tra il popolo palestinese e quello giordano, ponendo le basi per una futura ridefinizione dell’area anche in termini politico-statuali. Una confederazione di questo tipo, scrive Morris, risolverebbe molti problemi oggi sul tappeto: «Verrebbe a risolvere la probabile incapacità di funzionare dello Stato palestinese formato dalla Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza, nonché i problemi di una Giordania che oggi non ha sbocchi sul Mediterraneo e la cui popolazione, come si detto, è in gran parte palestinese»[16].
D’altro canto, tale progetto non è per nulla nuovo, ma più volte — a partire dagli anni Trenta — è stato proposto da leader sia sionisti sia palestinesi. Va però detto che tale soluzione, sebbene caldeggiata da alcuni intellettuali israeliani, verrebbe respinta con forza da parte dei fondamentalisti islamici (cioè da Hamas), che oggi controllano la Striscia di Gaza e hanno un forte consenso tra la popolazione palestinese nel suo complesso. Essi sono sostenitori dell’integrità e intangibilità del territorio storico della Palestina e quindi non disposti ad accettare l’idea di condividere tale territorio (dal fiume Giordano fino al Mediterraneo) con gli israeliani. Insomma, nonostante gli sforzi della diplomazia internazionale per risolvere il conflitto israeliano-palestinese, esso appare oggi ancora più complesso e aggrovigliato di quanto non lo fosse nel recente passato. Da parte dei palestinesi, almeno di coloro che appoggiano la politica del presidente Mahmoud Abbas (meglio conosciuto come Abu Mazen), e da parte dei dirigenti israeliani, appoggiati dalla comunità internazionale, c’è ancora la volontà, nonostante i frequenti incidenti di percorso, di andare avanti nelle trattative di pace, consapevoli che la strada da percorrere sarà dura e in ogni caso tutta in salita.
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[1] Riportato in B. Morris, Due popoli una terra, Milano, Rizzoli, 2008, 67.
[2] Cfr ivi, 71.
[3] In questo articolo si parla soltanto di palestinesi musulmani, perché la percentuale dei palestinesi cristiani negli ultimi decenni è considerevolmente diminuita passando dal 10% del 1947 al 4/5% di oggi. Di fatto i cristiani palestinesi lasciano la Terra Santa dove sono vissuti da sempre (come, ad esempio, a Betlemme) ed emigrano in Occidente. Purtroppo le cause di tale scelta sono da addebitare sia agli eccessi del fondamentalismo islamico, sia alla violenza del conflitto in atto, che crea insicurezza soprattutto nelle minoranze e rende difficile la convivenza tra fedi e popolazioni diverse.
[4] S. Della Pergola, Israele e Palestina. La forza dei numeri, il conflitto mediorientale tra demografia e politica, Bologna, il Mulino, 2007, 249.
[5] G. Karmi, «Uno Stato democratico laico nella Palestina storica: un’idea per cui tempi sono maturi?», in Al-Adab, Libano, luglio 2002.
[6] Cfr R. Khalidi, The Iron Cage. The Story of the Palestinian Struggle for Statehood, Boston, Beacon Press, 2006.
[7] Ivi, 206.
[8] Ivi, 210.
[9] T. Judt, «Israel: The Alternative», in New York Review of Books, 23 ottobre 2003.
[10] Ivi.
[11] O. Bartov, «An Alternative Future: An Exchange», in New York Review of Books, 4 dicembre 2003.
[12] M. Walzer, in New York Review of Books, 7 dicembre 2003.
[13] L. Wieseltier, «Israel, Palestine, and the Return of the Bi-National Fantasy: What is not be Done?», ivi, 27 ottobre 2003.
[14] B. Morris, Due popoli una terra, cit., 27.
[15] Z. Sternhell, Nascita di Israele. Miti, storia, contraddizioni, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2002, 43.
[16] B. Morris, Due popoli una terra, cit., 195.