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La narrazione dei conflitti viene affidata alle analisi geopolitiche e alle cronache giornalistiche: parole e immagini affollano le nostre giornate, creando una sorta di assuefazione alla tragedia mediata dalla ripetitività. Ma c’è una lente capace di restituirci fatti e interpretazioni, una visuale rovesciata che attraversa il confine tra la vita e la sua rappresentazione: l’arte, e quelle forme di resistenza artistica che danno voce e forma al non detto, al sussurrato, all’implicito. Sono denunce scolpite, dipinte, gridate, che squarciano il velo opaco dell’indifferenza.
Forse il manifesto più noto di questo impegno rimane ancora oggi Guernica, la tela che Picasso dipinse dopo il bombardamento dell’omonima città basca. Dopo secoli in cui la guerra è stata raccontata, celebrata, esaltata da artisti e committenti, il maestro spagnolo getta sulla tela il suo giudizio sull’atrocità e sull’insensatezza della guerra. Su uno sfondo privo di colore, corpi disarticolati e volti sfigurati s’intrecciano alle urla scomposte di uomini e animali: una visione drammatica delle conseguenze dell’odio e della violenza, un’icona senza tempo. Picasso compone un’opera da ascoltare, un appello che supera i confini spaziali e temporali del Novecento.
È emblematica, a questo proposito, la decisione, alla vigilia dell’annuncio della guerra in Iraq del 2003, da parte dello staff del Segretario di Stato americano Colin Powell, di far coprire la riproduzione del dipinto esposta nell’anticamera della sala del Consiglio delle Nazioni Unite di New York. Il portavoce dell’Onu, Fred Eckhard, giustificò la scelta parlando di una possibile «confusione visiva».
Il quadro di Picasso è forse l’erede più famoso di una tradizione pittorica che passa attraverso la pittura fiamminga di Hieronymus Bosch e le sue rappresentazioni infernali del XV secolo, la grande allegoria di Rubens intitolata Le conseguenze della guerra, dipinta nel 1638 per denunciare al mondo l’inutilità e gli effetti devastanti della guerra dei Trent’anni, la cruda espressività delle incisioni di Los desastres de la guerra, di Francisco Goya, e il suo dipinto più famoso, 3 maggio 1808.
L’ elenco potrebbe arricchirsi ancora: L’ esecuzione di Massimiliano, di Manet, il polittico di Otto Dix sull’insensata carneficina della Prima Guerra Mondiale, e il surrealista presentimento di Salvador Dalì intitolato Premonizione della guerra civile.
Tuttavia, ciò che ci interessa in questo contesto è piuttosto mettere in evidenza quell’eloquenza dialettica che ancor oggi l’arte è chiamata a esprimere a servizio della coscientizzazione del male, della partecipazione alla formazione dell’opinione pubblica, quel modo discreto e risoluto di alzare il velo sulla realtà per smascherarne l’evidenza. L’arte dunque assume il difficile compito di testimone autorevole, di voce sempre scomoda. La primavera culturale delle donne iraniane, ambasciatrici di un Paese nobile e contraddittorio, ne è una prova.
Le avanguardie
Un itinerario di sperimentazione artistica che ebbe la sua origine nel 1940, grazie alla fondazione della prima facoltà di Belle Arti di Teheran, un centro di studi e di creatività aperto indistintamente a uomini e donne. Professori europei e artisti iraniani, provenienti dalla scuola tradizionale di pittura di Kamal al Molk, pittore di corte della dinastia Qajar, collaborarono assiduamente per garantire uno sguardo poliedrico sul variegato panorama artistico internazionale[1].
Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, per completare la loro formazione, molte studentesse della facoltà si recarono in Europa e negli Stati Uniti. Monir Shahroudy Farmanfarmaian, giunta a New York alla fine degli anni Quaranta, entrò in contatto con le più interessanti avanguardie artistiche del Novecento e conobbe personalità quali Jackson Pollock, Andy Warhol e Frank Stella, e ritornò in patria nel 2000.
Come lei, altri importanti artisti ritornarono in Iran per insegnare alla facoltà di Belle Arti e per proseguire il loro lavoro in dialogo con la millenaria cultura persiana. Artisti come Sima Kooban, Leili Matine Daftary, Behjat Sadr, dopo aver avuto il privilegio di esporre le proprie opere nelle migliori gallerie del mondo, portarono in terra iraniana le sperimentazioni dell’arte concettuale.
Nella seconda metà del Novecento il cammino dell’arte iraniana proseguì non senza fatica, condividendo le fortune e le sofferenze dei mutamenti politici del Paese. Negli anni Sessanta, grazie all’interesse di Farah Diba, terza moglie dello scià Reza Pahlavi, il potenziale artistico e culturale del Paese ebbe un grande sostegno attraverso la nascita di importanti fondazioni e di numerosi musei. In epoca più recente, dopo il mutamento del clima culturale dovuto alla rivoluzione islamica, nacque una giovane generazione di artiste interessate a raccontare il sanguinoso conflitto tra Iran e Iraq, conclusosi nel 1989.
Dashti: cicatrici di una memoria collettiva irrisolta
Gohar Dashti, artista e fotografa iraniana, è uno dei tanti germogli di questa primavera culturale. Nelle sue opere descrive la vita e le contraddizioni di un Paese in bilico tra modernità e ossessiva salvaguardia del passato. È lo sguardo di chi ha imparato a convivere con la guerra fin dai primi anni di vita.
Nata ad Ahwaz nel 1980, ha vissuto i suoi primi otto anni durante il sanguinoso conflitto tra Iran e Iraq. Nella sua arte, come nei suoi ricordi, guerra e vita sono inseparabilmente unite come orizzonte domestico di una normalità ferita.
Nella serie fotografica Today’s Life and War, del 2008, l’intimità violata di una giovane coppia di sposi diventa il palcoscenico di una quotidiana convivenza fra l’ordinarietà e l’ingombrante presenza della guerra. Scatti rubati, come finestre spalancate su un tempo sospeso, dove uomini e donne somigliano a rassegnati spettatori di un presente violato, precario, incerto. I suoi protagonisti non sembrano esprimere forti emozioni, ma insieme incarnano il potere della perseveranza e della determinazione.
L’occhio di Gohar Dashti sembra suggerirci una verità dolorosa: anche alla violenza e alla guerra ci si può abituare. Quando il filo spinato diventa un normale stendipanni, e la massiccia presenza militare uno scenario consueto, quando le trincee abbandonate disegnano il confine degli spazi abitati, anche lo spaventoso fantasma della guerra diventa familiare.
L’artista, parlando della sua infanzia ad Ahwaz, ricorda che il padre non volle mai lasciare il paese: «Malgrado la guerra, mio padre decise di non andare via proprio perché era la nostra città. Quindi, sono cresciuta con la guerra. Da una parte sembrava che tutto procedesse normalmente, ero una bambina e andavo a scuola, c’erano compleanni, matrimoni e feste di ogni genere, ma la guerra era una presenza costante di sottofondo. Una presenza che non riuscivo a cogliere del tutto ma che, comunque, era lì. […] Era come vivere nel paradosso»[2].
Le esperienze personali e la storia del conflitto s’intrecciano ancora una volta nel 2010, nella serie fotografica Slow Decay. Qui la sofferenza si fa più intima e personale. La violenza entra nelle case e negli affetti familiari. Marito e moglie, genitori e bambini colti in un istantaneo scatto casalingo, segnato dalla presenza silenziosa e ingombrante del sangue versato.
Shadi Ghadirian: la guerra imposta
Ritroviamo lo stesso esercizio di presa di coscienza nelle fotografie di Shadi Ghadirian. Artista apprezzata nel panorama internazionale, è uno dei volti più conosciuti della fotografia contemporanea iraniana. I suoi lavori sono esposti nei migliori musei del mondo, e le sue opere sono presenti in diverse collezioni pubbliche e private: al Centre Pompidou di Parigi, al Victoria and Albert Museum di Londra, al Boston Fine Art Museum, e in molti altri musei.
Nella serie fotografica Nil Nil del 2008 l’osmosi tra arte e guerra condiziona un presente in cui le tracce sanguinose dei recenti conflitti diventano parte integrante della vita quotidiana: ferite irrisolte che continuano a generare paura e insicurezza. Una guerra nascosta, che penetra nelle mura domestiche ed emerge inaspettata fra le lenzuola di un letto da riordinare, tra i giocattoli colorati di bambini assenti, in mezzo alla tavola imbandita e fra le bevande di un frigorifero spalancato. Proiettili, coltelli e granate si mischiano alla vita di ogni giorno.
La guerra si annida, si nasconde, si traveste. Nelle fotografie della serie White Square oggetti di uso militare e corredi di guerra vengono presentati come doni impreziositi da un delicato nastro rosso. Scarponi, elmetti, maschere antigas e cinture militari mostrati come minacciose reliquie di eventi mai definitivamente tramontati. Evocazioni silenziose di una presenza assente: quella di chi ha perso la vita, e quella di chi quelle maschere e cinture ha indossato. Lo sfondo bianco e il colore rosso sono accostati come estreme dissonanze di una policromia duale, dove innocenza e sacrificio si incontrano e si riconoscono. Il nastro scarlatto, come filo di sangue che avvolge i reperti di una guerra indimenticata, è vita, ma anche macabra evocazione del sangue versato, il sangue degli assenti.
Le installazioni concettuali di Mandana Moghaddam
L’atmosfera è rarefatta, il colore verde intenso dei neon posti alle pareti celebra il sacrificio di martiri coraggiosi e illumina uno spazio dove al centro sgorga senza sosta un fiume d’acqua rossa, sangue che scorre ininterrotto, come la vita degli 800.000 giovani che hanno trovato la morte inseguendo le promesse di un paradiso inesistente; «tutt’intorno barili di plastica vuoti, anime svuotate, strazianti nella loro fatale assenza, a suggerire i corpi senza vita dei martiri di quegli anni»[3]: è la grande fontana della vita, la vita di chi non c’è più. Si tratta dell’opera di Mandana Moghaddam, Sara’s Paradise del 2009, in ricordo dei tanti giovani morti nel conflitto degli anni Ottanta.
L’artista, nata nel 1962 a Teheran, emigrata in Svezia dopo la morte del padre, condannato dai militanti khomeinisti, ha dedicato a loro quest’opera, riprendendo come titolo il nome dell’omonimo cimitero iraniano di Behesht-e Zahra, «Il paradiso di Sara»: un paradiso di speranze trasformato dalle politiche belliche iraniane in un inferno di certezze. Bidoni vuoti di bianco spettrale, contenitori prosciugati sono come merce di scambio di un’economia disumana che, mentre riempie barili di petrolio, prosciuga l’esistenza di giovani vite umane.
Molte ancora potrebbero essere le opere e le voci dissonanti da ascoltare. L’arte iraniana di questo tempo è il risultato di una faticosa sintesi di tensioni opposte, dove restrizione e creatività, resistenza alla modernità e sperimentazione s’incontrano e si confrontano, generando nuove forme di resistenza. Lo sguardo critico sul recente passato è in realtà presentato come monito sul presente. Un’arte che parla del non detto, che esplicita, attraverso i mezzi pacifici della creatività, i difficili equilibri del presente.
Ma dove attingere tanta ispirazione e originalità? Ancora Picasso ci suggerirebbe l’aneddoto parigino da lui ricordato durante l’esposizione di Guernica, quando un ufficiale nazista, recatosi a vedere le sue opere e indicando la grandiosa tela, chiese: «Maestro, avete dipinto voi questo orrore?». Picasso, alzandosi dalla sedia e battendo i pugni sulla scrivania, rispose: «No, è opera vostra».
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[1] Memorie velate. Arte contemporanea in Iran, XIV Biennale Donna, a cura di Silvia Cirelli, Ferrara, 2010.
[2] «Fotografare la vita a Teheran», in http://www.exibart.com/
[3] Memorie velate…, cit.